L'idea platonica della filosofia è nata da una complessa esperienza di vita e di pensiero. Da un lato Platone visse in prima persona l'esperienza della decadenza dei valori tradizionali, della degenerazione di un costume e di un'etica sociali e infine della catastrofe della sua città, un tempo vertice della civiltà greca. Da un altro lato egli sperimentò l'esperienza fascinatrice e tragica dell'incontro con la personalità di Socrate, con l'enigmatico significato della sua ricerca e della sua morte. Le opere di Platone sono conseguentemente pervase da una duplice aspirazione.
Esse manifestano il proposito di servire come modello a una sorta di rivoluzione politica e morale, da porsi in atto con un impegno politico immediato, pratico e concreto. Ma di fronte allo smacco delle aspirazioni volte a una riforma politica attuabile nel presente, gli scritti di Platone manifestano anche la tendenza a presentare la filosofia come scuola di interiore e personale formazione alla saggezza e alla virtù, attraverso l'educazione al puro rigore teorico e scientifico. Razionalità e misticismo vi coabitano e si intrecciano.
Questo oscillare tra il contingente e l'eterno, tra l'occasionalità del quotidiano e il significato ultimo della vita universale dell'uomo e del cosmo, tra la ricerca di una felicità terrena e palpabile e l'aspirazione all'eternità di un destino che travalica la morte, tra narrazioni mitiche e fabulistiche, letterariamente splendenti, e le più astratte e sottili distinzioni concettuali, costituisce anche il timbro unico e irripetibile, la cifra inimitabile e sublime della filosofia platonica. Essa ha attraversato i millenni, ispirando innumerevoli riprese e sviluppi, tanto che, come è stato detto, si può affermare che tutta la storia della filosofia non è che una serie di note a margine dell'opera di Platone: all'opera del "divino" Platone, come dissero gli uomini del Rinascimento italiano quando riscoprirono la grandiosa complessità e la profondità dei suoi scritti.
La vita
Platone nacque ad Atene nel 427. Era di famiglia aristocratica, imparentata per via di padre con l'antico re Codro. Sua madre Perictione era sorella di Carmide e nipote di Crizia, entrambi esponenti di spicco del governo oligarchico del 404-3. La famiglia della madre vantava inoltre un'antica parentela col grande Solone. Dopo la morte del padre visse e fu allevato nella casa del patrigno Pirilampo, amico di Pericle anche se di origine aristocratica. Secondo una tradizione riferita da Aristotele, conobbe in gioventù il filosofo Cratilo, discepolo di Eraclito, da cui apprese la convinzione (mai smentita in seguito) che il mondo della percezione sensibile è in perenne movimento e che quindi non può costituire la base di quella conoscenza stabile e certa alla cui ricerca lo indirizzerà Socrate.
Divenuto allievo di Socrate, assistette con lui alla decadenza di Atene: erano gli anni della guerra del Peloponneso, del regime oligarchico dei Trenta tiranni e della restaurazione democratica. Nel 405, ventiduenne, vede le mura di Atene rase al suolo dal generale spartano Lisandro. Sconfitta e umiliata, la città è in piena crisi politica, sociale e morale. Nel 404 il partito aristocratico, appoggiato dagli spartani, caccia i democratici e prende il potere, instaurando un governo oligarchico dominato dalle principali famiglie nobiliari i famosi Trenta Tiranni).
Tra essi ci sono amici e familiari di Platone, che viene invitato a entrare in politica; ma Platone esita e prende tempo, non convinto dei metodi autoritari e spregiudicati dei Trenta.
Nel 401 una rivoluzione democratica guidata da Trasibulo caccia gli oligarchi. Gli esuli rientrano in patria e ripristinano la democrazia. Platone, di nuovo, esita a impegnarsi nell'attività politica, sempre più caratterizzata da violenze, ingiustizie e diffusa corruzione. Decisivo è in proposito l'evento del processo a Socrate nel 399, intentato da Anito, influente uomo politico.
Dopo la morte di Socrate, Platone e altri socratici fuggono a Mégara presso il condiscepolo Euclide, temendo persecuzioni e violenze nei loro confronti. Sin d'ora, tuttavia, dovette manifestarsi una spaccatura fra Platone e gli altri socratici. Platone li abbandona e intraprende lunghi viaggi a fini di studio in Egitto, a Cirene, a Taranto, ove diviene amico di Archita e studia le dottrine filosofiche e il governo politico dei pitagorici.
Nel 396 torna ad Atene e scrive l'Apologia di Socrate: ricostruzione del processo al suo maestro e insieme manifesto che rivendica la figura morale e l'innocenza di Socrate. Già famoso per gli scritti nel frattempo composti, nel 388 viene chiamato alla corte di Dionigi il Vecchio, tiranno di Siracusa. Qui Platone conquista alla filosofia il giovane Dione, zio di Dionigi il Giovane. Platone viene accusato di complotto politico in favore dell'allievo. Timoroso di disordini interni, Dionigi il Vecchio impone a Platone di partire. Durante il viaggio per mare Platone viene catturato da una nave di Egina, in quel tempo in guerra con Atene, e rischia di finire in schiavitù. Anniceride, cittadino di Cirene e ammiratore del filosofo, si offre allora di pagare il riscatto per liberare Platone, riscatto che viene poi rifiutato dagli eginati quando si rendono conto della fama del prigioniero.
Nel 387 Platone è di nuovo ad Atene. Con i soldi del riscatto non pagato apre una scuola nei pressi del parco dell'eroe Accademo. Essa si chiamerà pertanto Accademia e Platone la dedica alle Muse. L'attività della scuola attira numerosi discepoli e diviene centro di ricerche e di confronti culturali ai quali collaborano maestri eminenti di tutta la Grecia. Nel 367 muore Dionigi il Vecchio e gli succede Dionigi il Giovane; quest'ultimo, ascoltando i consigli di Dione, richiama Platone a Siracusa per affidargli una riforma "filosofica" del governo della città.
Ma in seguito teme che Dione voglia sottrargli il trono e lo manda in esilio. Lo stesso Platone è trattenuto nell'acropoli in larvata prigionia. Dionigi non osa nuocergli o mancargli di rispetto, ma nemmeno vuole lasciarlo ripartire, temendo ciò che il filosofo potrebbe fare una volta fuori dal suo controllo. Infine acconsente al congedo e promette di richiamare Dione non appena avrà sconfitto i cartaginesi che gli hanno mosso guerra.
Nel 361 Dionigi richiama nuovamente Platone. Anche Archita da Taranto sollecita l'amico a venire: il tiranno di Siracusa sembra sinceramente intenzionato a lasciarsi guidare dalla filosofia. Nonostante l'età (sessantasei anni) Platone riprende il mare, per non sembrare, dice, un uomo capace solo di parlare e non di agire in un momento in cui gli ideali politici dell'Accademia e del suo maestro sembrano prossimi a realizzarsi. Ma Platone è appena giunto a Siracusa e già Dionigi ha mutato parere: rifiuta di richiamare Dione e fa circondare dai soldati la casa in cui Platone è ospitato. Poi lo accusa apertamente di complotto, sebbene non osi ucciderlo. Una nave tarantina, inviata da Archita, pretende la liberazione del filosofo e infine la ottiene, anche per una rivolta dei mercenari di Dionigi.
Platone ritorna ad Atene, salvo per miracolo. In seguito Dione, anche con l'appoggio finanziario dell'Accademia e l'accorrere volontario di giovani accademici al suo fianco, occupa con un piccolo esercito Siracusa, ma muore poco dopo vittima di una congiura. Con la sua morte svaniscono i sogni politici di Platone. L'Accademia è nel frattempo tanto salita d'importanza da patrocinare la fondazione di scuole sorelle in varie località, tra le quali Asso. Nel 347, all'età di ottant'anni, Platone muore. Atene è allora in guerra con Filippo di Macedonia e di lì a qualche anno perderà interamente la sua indipendenza.
La Settima lettera, una fonte della biografia platonica
Tra le fonti della biografia di Platone vi sono le tredici lettere che la tradizione ha inserito nel Corpus delle sue opere. Qui di seguito riportiamo un importante brano dalla Settima lettera, ritenuta concordemente autentica dalla maggior parte degli studiosi. In esso si può ricostruire la genesi psicologica dell'idealismo platonico, mosso nelle sue origini e motivazioni da una forte spinta etico-politica.
«Quando ero giovane, io ebbi un'esperienza simile a quella di molti altri: pensavo di dedicarmi alla vita politica, non appena fossi divenuto padrone di me stesso. Or mi avvenne che questo capitasse allora alla città: il governo, attaccato da molti, passò in altre mani, e cinquantun cittadini divennero i reggitori dello Stato. Undici furono posti a capo del centro urbano, dieci del Pireo, tutti con l'incarico di sovraintendere al mercato e di occuparsi dell'amministrazione, e, sopra costoro, trenta magistrati con pieni poteri. Tra costoro erano alcuni miei familiari e conoscenti, che subito mi invitarono a prender parte alla vita pubblica, come ad attività degna di me. lo credevo veramente (e non c'è niente di strano, giovane com'ero) che avrebbero purificato la città dall'ingiustizia traendola a un vivere giusto, e perciò stavo ad osservare attentamente che cosa avrebbero fatto.
M'accorsi così che in poco tempo fecero apparire oro il governo precedente: tra l'altro, un giorno mandarono, insieme con alcuni altri, Socrate, un mio amico più vecchio di me, un uomo ch'io non esito a dire il più giusto del suo tempo, ad arrestare un cittadino per farlo morire, cercando in questo modo di farlo loro complice, volesse o no; ma egli non obbedì, preferendo correre qualunque rischio che farsi complice di empi misfatti. lo allora, vedendo tutto questo, e ancor altri gravi misfatti, fui preso da sdegno e mi ritrassi dai mali di quel tempo. Poco dopo cadde il governo dei Trenta e fu abbattuto quel regime. E di nuovo mi prese, sia pure meno intenso, il desiderio di dedicarmi alla vita politica. Anche allora, in quello sconvolgimento, accaddero molte cose da affliggersene, com'è naturale, ma non c'è da meravigliarsi che in una rivoluzione le vendette fossero maggiori.
Tuttavia bisogna riconoscere che gli uomini allora ritornati furono pieni di moderazione. Se non che accadde poi che alcuni potenti intentarono un processo a quel mio amico, a Socrate, accusandolo di un delitto nefandissimo, il più alieno dall'animo suo: lo accusarono d'empietà, e fu condannato, e l'uccisero, lui che non aveva voluto partecipare all'empio arresto di un amico degli esuli d'allora, quando essi pativano fuori della patria.
Vedendo questo, e osservando gli uomini che allora si dedicavano alla vita politica, e le leggi e i costumi, quanto più li esaminavo ed avanzavo nell'età, tanto più mi sembrava che fosse difficile partecipare all'amministrazione dello Stato, restando onesto. Non era possibile far nulla senza amici e compagni fidati, e d'altra parte era difficile trovarne tra i cittadini di quel tempo, perché i costumi e gli usi dei nostri padri erano scomparsi dalla città, e impossibile era anche trovarne di nuovi con facilità.
Le leggi e i costumi si corrompevano e si dissolvevano straordinariamente, sicché io, che una volta desideravo moltissimo di partecipare alla vita pubblica, osservando queste cose e vedendo che tutto era completamente sconvolto, finii per sbigottirmene. Continuavo, sì, ad osservare se ci potesse essere un miglioramento, e soprattutto se potesse migliorare il governo dello Stato, ma, per agire, aspettavo sempre il momento opportuno, finché alla fine m'accorsi che tutte le città erano mal governate, perché le loro leggi non potevano essere sanate senza una meravigliosa preparazione congiunta con una buona fortuna, e fui costretto a dire che solo la retta filosofia rende possibile di vedere la giustizia negli affari pubblici e in quelli privati, e a lodare solo essa.
Vidi dunque che mai sarebbero cessate le sciagure delle generazioni umane, se prima al potere politico non fossero pervenuti uomini veramente e schiettamente filosofi, o i capi politici delle città non fossero divenuti, per qualche sorte divina, veri filosofi».
Le opere
Di Platone (caso praticamente unico tra gli scrittori antichi) si può dire che possediamo l'intero corpus delle opere. Esso ci è giunto nella forma di 36 dialoghi (tra cui sono comprese anche tredici lettere, quasi costituissero un unico dialogo) suddivisi sin dall’antichità in gruppi di quattro. Il problema che si pone circa le opere di Platone è duplice e riguarda da un lato la loro autenticità, dall'altro la loro datazione (per ciò che riguarda il rapporto tra i dialoghi e le cosiddette dottrine non scritte).
Il problema dell'autenticità dei dialoghi
Per quanto riguarda l'autenticità dei dialoghi che la tradizione attribuisce a Platone, alcuni sono certamente spuri: Alcibiade II, Ipparco, Amanti, Teagete, Clitofonte, Minosse. Si tratta per lo più di lavori del IV secolo, che non costituiscono delle falsificazioni vere e proprie, ma piuttosto degli scritti "nello stile" dei dialoghi platonici, utili contributi alla conoscenza del socratismo nel periodo in cui vennero composti. Alcuni sono di incerta attribuzione: Alcibiade I, Ione, Menesseno, Ippia maggiore, Epinomide, Lettere. Tra questi la critica moderna è propensa ad accettare la autenticità almeno dello Ione, del Menesseno, dell'Ippia maggiore. Più controversa è l'autenticità dell'Epinomide, mentre l'Alcibiade I è quasi certamente spurio. Per quanto riguarda le Lettere, la critica considera autentiche solo la Sesta, la Settima e l'Ottava, certamente falsa la Prima (e probabilmente anche la Seconda), dubbie le restanti. Gli altri ventiquattro dialoghi sono sicuramente di Platone.
La periodizzazione dei dialoghi
Cronologia e datazione dei dialoghi platonici hanno dato origine a innumerevoli discussioni. Tra i criteri generalmente adottati per stabilirne la data di composizione citiamo: le testimonianze degli antichi scrittori, i riferimenti contenuti nei dialoghi a fatti o personaggi storici, i richiami interni tra dialoghi, le considerazioni di contenuto e quelle stilisti che. Soprattutto questi due ultimi criteri sembrano dare maggiore affidamento e hanno consentito di giungere a una periodizzazione di massima, accettata dalla maggioranza degli studiosi. Si distinguono così tre gruppi di opere: dialoghi giovanili, dialoghi della maturità, dialoghi della tarda maturità e della vecchiaia.
I dialoghi giovanili
Essi sono anteriori al ritorno di Platone ad Atene dopo il primo viaggio siracusano. Si tratta dei dialoghi propriamente "socratici", in cui Platone non sembra aver ancora maturato le sue idee originali, ma applica il metodo dell'ironia socratica, giungendo per lo più a esiti aporetici. Il primo scritto, che propriamente non è un dialogo, è l'Apologia, ossia l'autodifesa di Socrate al celebre processo. Seguono il Critone, Socrate, in carcere, discute la legittimità delle leggi e rifiuta la salvezza tramite la fuga. Alcuni studiosi hanno meso in dubbio l'appartenenza di questo dialogo al periodo giovanile e lo pongono addirittura tra quelli tardi. Sempre al periodo giovanile appartengono: Carmide, sulla virtù della sophrosyne o temperanza; Lachete, sul coraggio; Liside, sull'amicizia; Ione, parodia ironica di poeti; Eutifrone, Socrate, in attesa del processo per empietà, discute con un sacerdote il problema della pietà religiosa; Protagora, Socrate discute col celebre sofista il problema della insegnabilità della virtù; Ippia minore, è meglio aver sbagliato volontariamente o involontariamente?; Repubblica libro I, Socrate discute con Trasimaco il problema della giustizia; Gorgia, Socrate discute col celebre sofista le doti dell'uomo politico. Secondo alcuni questo dialogo conclude il periodo giovanile; secondo altri inaugura già quello della maturità, contenendo un richiamo alla dottrina delle idee.
I dialoghi della maturità
Sono, cioè, posteriori al ritorno di Platone ad Atene e alla fondazione dell'Accademia. Anche se Socrate rimane il protagonista di questi dialoghi, attraverso di lui parla Platone, che ha ormai formulato una dottrina propria: la teoria delle idee. Apre la serie il Menesseno, una sorta di manifesto filosofico, in cui il fondatore dell'Accademia prende posizione contro i maestri di retorica. Seguono: Menone, sul problema della virtù nel suo rapporto con la teoria delle idee; Eutidemo, caricatura dei giochetti logici dei tardi sofisti o eristi; Ippia maggiore, che si occupa di definire l'idea del bello; Cratilo, dove troviamo esposto il problema della naturalità o convenzionalità del linguaggio; Fedone, che tratta della teoria delle idee ed espone le tre prove dell'immortalità dell'anima; Simposio, che tratta della teoria platonica dell'eros; Repubblica - libri II-X - sulla giustizia o sullo stato; Fedro, sull'amore oppure sulla retorica.
I dialoghi della tarda maturità e della vecchiaia
Si tratta di dialoghi composti intorno al secondo viaggio in Sicilia e nel periodo che segue il ritorno definitivo di Platone ad Atene. Si tratta di un gruppo di dialoghi assai omogeneo, contenente le tarde dottrine di Platone sulla dialettica.
In questi dialoghi la figura di Socrate tende sempre più a perdere di importanza, fino a scomparire quasi del tutto. La serie è aperta dal Teeteto, la cui ultima parte è forse posteriore al Parmenide, che ha per oggetto la teoria della conoscenza.
Seguono: Parmenide, discussione delle obiezioni che si possono muovere contro la teoria delle idee; Sofista, un riesame complessivo della teoria delle idee, alla luce del metodo della diairesi; Politico, che analizza il problema di chi è il vero politico, e quale sia il suo rapporto con le leggi attraverso una nuova applicazione del metodo diairetico; Filebo, sul piacere in rapporto al bene; rinnovata discussione del problema dei generi logici e sulla gerarchia delle idee; Timeo, che espone la cosmologia platonica; Crizia, sullo stato agricolo ideale, contrapposto al potere marinaro imperialistico, tematica esemplificata attraverso il mito di Atlantide; Leggi ed Epinomide, ancora sullo stato, dove Platone sembra fare delle concessioni alla vita concreta, modificando l'utopismo della Repubblica. Gli ultimi dialoghi, a partire dal Timeo o forse dal Filebo, appartengono certamente alla vecchiaia di Platone, dopo il terzo viaggio in Sicilia. Le Leggi, opera vastissima, in dodici libri, paragonabile per importanza alla Repubblica, di cui rivede profondamente le concezioni, furono lasciate incompiute quanto alla loro redazione definitiva.
Il problema della dottrine non scritte
Aristotele nella Metafisica critica la teoria platonica delle idee e afferma che per Platone:
a) le idee sono numeri;
b) tutte le cose esistono per partecipazione ai numeri;
c) i numeri sono composti da due elementi: l’uno e il «grande-e-piccolo» o dualità indeterminata.
Il primo rappresenta l’elemento "formale", il secondo quello "materiale". In ciò Platone si differenzia dai pitagorici, che pongono a origine dei numeri l’illimitato (àpeiron) e il limite (peras) e considerano l’unità come un numero, non come l’elemento generatore dei numeri. Inoltre, prosegue Aristotele, per Platone
d) gli enti matematici occupano una posizione intermedia tra le forme e le cose;
e) l’uno corrisponde al bene, la dualità indeterminata al male.
Queste affermazioni dello stagirita hanno dato luogo a numerose discussioni, dal momento che in nessuno dei Dialoghi si accenna in maniera esplicita a tale identificazione fra idee e numeri. Data l’autorevolezza di Aristotele e la sua profonda conoscenza di Platone, non è possibile attribuire una così grave divergenza interpretativa a un suo fraintendimento della dottrina del maestro.
E neppure l’epoca in cui scrive Aristotele, quando erano ancora vivi i principali discepoli di Platone, autorizza l’ipotesi di una voluta falsificazione, che sarebbe stata subito denunciata come tale. Si è ipotizzato che Aristotele non si riferisca alle teorie contenute nei dialoghi, ma a dottrine presenti nell'insegnamento orale di Platone (le dottrine non scritte di cui ci parla lo stesso Aristotele). In particolare si pensa alla celebre lezione Sul bene tenuta all’Accademia. Narra Aristosseno che in quella occasione l’uditorio restò sorpreso, dal momento che si aspettava di sentire parlare dei beni umani, quali ricchezza e felicità, e ascoltò invece un incomprensibile discorso sulla matematica, sull’astronomia, sui numeri e sulla identità del bene con l’uno.
Altri hanno ipotizzato che Aristotele non si riferisse all’autentica dottrina di Platone, ma a una sua versione corrotta a opera dei suoi allievi. Attaccando il maestro (secondo un costume in uso tra le scuole filosofiche) egli avrebbe cioè avuto di mira in realtà i suoi successori all’Accademia e in particolare Speusippo. In entrambe le ipotesi molte cose restano da spiegare, soprattutto il rapporto di questa teoria platonica o pseudo-platonica con l’insegnamento orale da un lato, e con la dottrina dei dialoghi dall’altro. Forse la teoria contro cui polemizza Aristotele fu in effetti sostenuta da Platone nella seconda fase della sua attività, posteriore all'ingresso di Aristotele nell’Accademia.
Abbiamo accennato al fatto che Platone accentuò progressivamente i suoi interessi scientifici e matematici, pur senza abbandonare le tematiche etico-politiche e metafisiche. Abbiamo anche detto che i dialoghi posteriori al Parmenide mostrano con evidenza i segni di una revisione in corso della teoria delle idee. Al centro di questa nuova versione sta il problema di come si conciliano l'unità e la molteplicità, sia nel rapporto fra le idee, sia in quello tra le idee e il mondo empirico. Inoltre il problema della divisione logica - diairesi - delle idee mostra una crescente attenzione all’applicazione della dottrina delle idee a uno specifico ambito scientifico e matematico.
Tuttavia è assai controverso se alcuni accenni pur presenti nei tardi dialoghi si possano riferire alla teoria delle idee-numeri descritta da Aristotele, o se non si debba piuttosto riferire quest’ultima esclusivamente all’insegnamento orale. Si aprirebbe però, in tal caso, un solco profondo e difficilmente accettabile tra il Platone "essoterico", quello che ci è noto dai dialoghi, e un Platone "esoterico" la cui dottrina sarebbe ricostruibile solo in forma assai incerta e approssimativa, in base a testimonianze indirette.
Il Filebo e le "dottrine non scritte"
Fra i dialoghi della tarda maturità quello che forse più di altri sembra contenere allusioni alla dottrina riferita da Aristotele è il Filebo. Indagando sulla natura del piacere e sul rapporto tra felicità, piacere e bene, Platone, anziché riferirsi alla teoria delle idee, sostiene che tutto quanto esiste attualmente nell'universo deriva da quattro "generi fondamentali": l’illimitato, il limite, la mescolanza e la causa. Illimitato è ciò che ammette indefinitamente un più o un meno: come il caldo e il freddo, che sono sempre "troppo" o "troppo poco". Limite è ciò che pone fine a questa indeterminatezza assegnandole una misura esatta: come per esempio una certa temperatura. Mescolanza è l’incontro tra la indeterminatezza e la determinatezza quantitativa o numerica: da essa si generano tutte le cose. Causa è ciò che determina o rende possibile la mescolanza. Così per esempio il piacere senza il discernimento dell’intelligenza è un genere di “illimitato”: determina infatti una continua rincorsa e cade sempre nel "troppo" o nel "troppo poco" (provocando infelicità o noia). L’intelligenza è il limite, che assegna al piacere una misura e uno scopo, dandogli in tal modo concretezza. Felice è la vita quando è una mescolanza di piacere e di intelligenza. Il bene è la causa che produce questa mescolanza e l’intelligenza è più prossima alla natura del bene di quanto non lo possa essere il piacere. Questa teoria può essere un esempio delle probabili implicazioni etiche della identificazione platonica tra idee e numeri. Bisogna tuttavia notare che Platone utilizza qui una terminologia (illimitato/limite) più vicina a quella del pitagorismo che non a quella attribuitagli da Aristotele. Inoltre l'identificazione del bene con l’uno è assente o non è esplicita. Occorre pertanto grande prudenza nell’identificare la presenza nei tardi dialoghi di una vera e propria teoria delle idee-numeri.
Il sapere come formazione
Sorta in età sofistica, cioè in quella che abbiamo definito come l'età dell'istruzione, la scuola di Platone accoglie il principio sofistico dell'educabilità umana, della paidéia; non condivide però il metodo e gli scopi degli insegnamenti dei sofisti, sottoposti nei primi dialoghi di Platone a costante critica.
All'educazione specialistica, tecnica o puramente formale, incentrata sulla retorica e sull'eristica, Platone contrappone l'esigenza di una formazione globale e profonda della personalità umana. Questa formazione era affidata, nella tradizione antica, alla poesia, alla religione e a un costume di vita condiviso. Essa era ancora al centro delle scuole aristocratiche sapienziali dei presocratici, dai quali Platone trae non poche ispirazioni (a cominciare dai pitagorici).
I tempi, tuttavia, non consentono un semplice ritorno al passato. La vita sociale ed economica, sia pubblica sia privata, si è fatta molto più complessa, si è arricchita di nuove esigenze, di nuovi bisogni, di inedite aspirazioni al lusso e all'affermazione individuale. Il che ha comportato la crisi irreversibile dei valori della tradizione. Anche gli antichi ruoli sociali ne risultano sconvolti, senza che si sia resa possibile l'affermazione di nuovi ruoli e di nuove figure all'altezza dei loro compiti politici e morali.
È necessario allora intraprendere una ricerca che ridefinisca la "virtù" (areté) dell'uomo, in generale e in particolare, come mostrano infatti i dialoghi di Platone della giovinezza e della prima maturità. Questa ricerca mira a mettere capo a un nuovo sapere, a una vera e propria "scienza" della virtù, che garantisca il bene collettivo e la felicità individuale. Questa nuova scienza è appunto ciò che Platone chiama "filosofia".