Il pensiero moderno ha lasciato in eredità a quello contemporaneo l'idea dell'autonomia dell'arte. Autonomia rispetto alle altre forme della cultura e, in particolare, rispetto alla morale, all'educazione, alla conoscenza, agli interessi fondamentali della società, alle forme dominanti della cultura. Si può dire che questo lascito, questo cambiamento di prospettiva, sia stato accolto, difeso e fatto fruttare?
La risposta non è univoca, anche se complessivamente è prevalsa la tesi dell' autonomia. Per tutto l'Ottocento e per buona parte del Novecento, i filosofi e gli studiosi di estetica si sono chiesti se l'opera d'arte possa venir considerata autonoma rispetto al contesto storico e culturale, o se, pur "autonoma", l'arte possa svolgere comunque una funzione educativa, morale o sociale. Alle filosofie e concezioni estetiche che hanno individuato quale essenza dell'arte la sua capacità di rappresentare la realtà sociale e politica, se ne sono contrapposte altre che, soprattutto verso la fine del secolo, hanno riproposto un'idea di autonomia e completezza dell'arte, scevra da ogni "obbligo" realista e lontana da qualsiasi verità razionale.
Oltre l'arte?
Il passaggio teorico fondamentale dall' estetica romantica a quella a noi contemporanea viene operato da Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831). Il filosofo tedesco, pur collocando l'arte - insieme alla religione e alla filosofia - al vertice della cultura, in quanto momento della dialettica dello spirito assoluto, non accoglie la tesi romantica della sua supremazia, poiché non le riconosce la capacità di cogliere l'Assoluto in se stesso. Inoltre Hegel privilegia il bello d'arte rispetto al bello naturale, in quanto solo la bellezza artistica è "generata e rigenerata dallo sprito": perciò è la superiorità dello spirito a porre la bellezza artistica più in alto del bello naturale a fondare la dignità dell'arte.
Ancora, a differenza dell'e stetica romantica, che aveva considerato l'intuizione artistica una facoltà superiore alla ragione (intesa come forma "logica" del dimostrare e dell'argomentare), Hegel conferisce all’arte un contenuto essenzialmente razionale, poiché afferma che il "bello" è "apparenza sensibile dell'idea". Sotto questo aspetto, pur parlando di "apparenza sensibile", Hegel prende le distanze anche dalla concezione settecentesca dell'estetica: questa non è più una scienza del sentire (come tale riferita anche al bello naturale), ma è rappresentazione - sia pur in forma sensibile - dell'ideale, dello spirito che è incarnato in una data opera. In altri termini. nell'arte è la Ragione, cioè lo Spirito assoluto, a realizzarsi e a divenir cosciente di sé in forme sensibili (e non in quelle superiori della rappresentazione e del concetto, che sono proprie della religione e della filosofia).
Eppure, benché condivida con la filosofia e la religione il fatto di avere lo spirito assoluto come contenuto, l'arte, nella riflessione hegeliana, vede ridotta la propria autonomia. Essa, infatti, esprime certamente un "di spiegarsi della verità", essendo una manifestazione dello spirito assoluto: ma tale sua manifestazione non è adeguata. In effetti, l'arte da un lato "si occupa del vero come oggetto assoluto della coscienza", quindi ha "uguaglianza di contenuto" rispetto alla religione e alla filosofia; dall' altro mostra la sua inadeguatezza "per la forma con cui porta a coscienza l'Assoluto", che nell'arte è solo un "sapere immediato e proprio perciò sensibile". Non potendo le forme sensibili esprimere compiutamente l'assolutezza dell'Idea, questa dovrà essere ricercata - e trovata - nelle superiori forme dello spirito assoluto, cioè nella religione e, soprattutto, nella filosofia. Solo nella forma del concetto, propria del sapere filosofico, tale contenuto trova la sua espressione adeguata.
Viene così a cadere l'idea romantica della supremazia dell'arte nella cultura. L’arte cede il passo a una forma superiore di sapere, quello filosofico. È questa la cosiddetta "morte dell'arte". La definizione, però, è impropria, perché in Hegel "muore" solo la concezione romantica dell"'arte bella", cioè l'idea romantica della supremazia dell'arte nella cultura.
L’arte tra idee e illusioni
Nell'Ottocento, la filosofia, la cultura, l'arte stessa si misurano con le tesi romantiche ed hegeliane. Se l'estetica romantica persiste tenacemente in alcuni ambiti (ad esempio in quello musicale, con Chopin e Mendelssohn, Schubert e Weber, Schumann e Liszt), costituendo una sorta di "fiume carsico" che periodicamente ricompare nel corso del secolo, essa è apertamente contestata da altre tendenze filosofiche e culturali.
A opporsi alle posizioni romantiche non sono solo gli ambienti tradizionalisti, che vedono nel soggettivismo e nell'anticonformismo degli intellettuali romantici un potente fattore di sovvertimento dell'ordine (testimoniato talvolta dalla condivisione delle idee liberali e dalla partecipazione di alcuni di loro alle lotte nazionali dei popoli), ma anche esponenti di movimenti progressisti o rivoluzionari, che rifiutano l"'estetismo" romantico e contrappongono la conoscenza scientifica alla pretesa "esperienza della verità" attribuita all'arte, oppure considerano questa un mero "riflesso" della società e dell'ambiente.
In realtà l'influenza del Romanticismo, pur essendo stata assai vasta sulla cultura europea, non si è identificata in un unico pensiero estetico.
Si pensi a Giacomo Leopardi (1798-1837), autore formato si nel clima del Romanticismo eppure capace di guardare oltre esso. Leopardi, infatti, riconosce non solo la specificità, ma anche la 'dignità' conoscitiva dell' espressione poetica, con la quale diventa possibile cogliere tutto ciò che è impossibile scorgere altrimenti. È grazie ad essa che anche la rappresentazione della "nullità delle cose", anche "le più terribili disperazioni" si possono trasformare in un sentimento vivo, in "una certa bellezza e grandezza che riempie l'anima", come leggiamo nello Zibaldone.
Leopardi formula queste tesi contestando l'idea romantica del superamento del principio di imitazione. Anch'egli ritiene che la poesia sia sforzo di comprensione della realtà, ma uno sforzo che si costituisce proprio come "la più perfetta imitazione della natura". Un'imitazione intesa non in senso tradizionale, poiché, scrive Leopardi nel Discorso di un italiano sulla poesia romantica: "la natura non si palesa ma si nasconde, sì che bisogna con mille astuzie e quasi frodi, e con mille ingegni e macchine scalzarla e pressarla e tormentarla e cavarle di bocca a marcia forza i suoi segreti". Occorre quindi cercare ciò che si nasconde, procedendo non con la ragione, bensì con l'immaginazione.
L’immaginazione poetica opera dunque come pensiero giacché impiega - scrive Leopardi - similitudini che le consentono di "vedere dei rapporti fra cose disparatissime"; la poesia, da parte sua, produce illusioni: ma a differenza delle illusioni dell'intelletto, quelle della poesia non ingannano l'uomo e generano in lui un piacere che è tale anche quando il verso rappresenta il vuoto e la mancanza di senso del vivere, poiché esso, leggiamo nello Zibaldone, "par che ingrandisca l'anima del lettore", poiché fa sorgere in lui un sentimento da cui "l'anima riceve vita (se non altro passeggera)".
Le riflessioni di Leopardi sono significative perché sottendono l'idea che l'arte possieda un significato esistenziale, unico e fondamentale per la vita dell'uomo. Questa idea consente a diversi autori di opporsi alla "morte dell' arte" decretata da Hegel.
Arthur Schopenhauer (1788-1860) riconosce all'arte una capacità conoscitiva e una funzione liberatrice dal ferreo dominio della Volontà. L’arte è "un puro conoscere" con cui il genio guarda al di là del mondo fenomenico, del mondo dell'apparenza, per contemplare quel che è "essenziale e permanente" nella realtà, il mondo delle idee, prima oggettivazione della Volontà, della cosa in sé. L’arte è intuizione non dell'oggetto nella sua particolarità sensibile, ma dell'idea nell' oggetto, guarda al di là del mondo fenomenico, contempla cioè la vera essenza delle cose.
Esiste tuttavia una forma d'arte suprema, la musica, nella quale l'arte "celebra l'essenza" della realtà, ovvero il moto incessante della volontà; la musica, infatti, non è immagine delle idee, come le altre arti, bensì è rappresentazione della Volontà stessa e, in quanto tale, costituisce la forma suprema di realizzazione dello spirito umano.
L’arte possiede un significato esistenziale poiché aiuta l'individuo a non essere più schiavo della Volontà. Nell'esperienza estetica, nella fruizione dell'opera d'arte, non si è asserviti ai bisogni della Volontà, non si vuole questa o quella cosa, ma si guarda e si contempla un oggetto nella sua assolutezza, appagati da questo contemplare, liberi dai vincoli della propria individualità, dalla catena ferrea dei bisogni. L’arte, pertanto, offre un rifugio nei confronti di un'esistenza contrassegnata dal dolore, una momentanea liberazione dalla tirannia della Volontà. Per una liberazione definitiva, tuttavia, la strada da percorrere non è quella dell'arte, bensì quella più ardua dell'ascesi.
Secondo Soren A. Kierkegaard (1813-1855) l'illusione di cui l'arte si nutre non costituisce una dimensione autentica dell'esistenza. Chi vive esteticamente, "poeticamente" la propria vita, ne gusta attimo per attimo le gioie e rimane indifferente a qualsiasi impegno morale. L’arte ispira un vero e proprio modo di vivere, perché attraverso l'arte si cerca di cogliere dall'esistenza tutto ciò che appare bello, godibile e allo stesso tempo irripetibile, sempre diverso, mai banale. Fare di se stessi la propria opera d'arte e, così, realizzarsi e conoscersi: non è proprio questa la maggiore delle illusioni?
Durante l'Ottocento, la concezione romantica dell'arte viene messa in discussione anche dal Marxismo e dal Positivismo. Questi movimenti di idee, critici verso la concezione dell'autonomia dell'arte, sostengono che l'arte non è una libera produzione dello spirito, bensì un prodotto sociale connesso alle condizioni storiche, politiche ed economiche della società. Di conseguenza, molti esponenti di questi movimenti ritengono che non vi possa nemmeno essere un'autonoma trattazione teorica relativa all'arte. Sulla base di queste premesse, ogni opera viene analizzata nella sua struttura interna e nella sua connessione con le condizioni sociali, il "clima spirituale", i caratteri culturali di un popolo. Grazie all'opera d'arte è così possibile cogliere il senso di una data epoca storica: vi è dunque una chiara opzione verso il realismo artistico.
Per Karl Marx (1818-1883) l'arte - come tutta la cultura - appartiene alla sovrastruttura di una organizzazione sociale storicamente determinata e costituisce un riflesso della sua struttura economico-sociale. Nell'arte si esprimono le aspirazioni, le attese, le idee, le forme di coscienza di una determinata società. on sempre, tuttavia, l'arte è un mero riflesso delle idee delle classi dominanti: Marx riconosce che vi sono stati nella storia artisti e scrittori che, pur avendo un orientamento politico conservatore, hanno espresso concezioni evolute e più avanzate, hanno cioè saputo cogliere alcune tendenze profonde operanti nella realtà del loro tempo - dagli altri non ancora avvertite - anticipando orientamenti che solo più tardi si sarebbero affermati compiutamente.
Descrivendo l'arte come espressione di un determinato ambiente in una data fase della sua evoluzione storico-sociale, il Positivismo capovolge le tesi romantiche e attribuisce all'arte soprattutto un carattere e un compito descrittivi.
Il vero scopo dell'artista, afferma Hippolyte Taine (1828-1893), "è quello di imitare, con la massima fedeltà possibile, la natura e la realtà umana nei suoi minimi particolari: tanto migliore sarà l'opera d'arte quanto più riuscita sarà l'imitazione". Anche in questo caso, comunque, non si tratta di una pura e semplice 'riproduzione' della realtà. Quando 'imita' qualcosa, sostiene ancora Taine, l'artista non imita pedissequamente l'oggetto, ma cerca di selezionare la realtà che descrive, e dunque di "rendere il carattere essenziale, o almeno un carattere importante dell'oggetto, il più possibile visibile e dominatore. Per far questo l'artista sfronda i tratti che lo nascondono, sceglie quelli che lo manifestano, corregge quelli in cui appare alterato, rifà quelli in cui è annullato".
L’estetica positivistica respinge le tesi romantiche poiché non considera l'opera d'arte il prodotto di un'irrazionale "creazione", ma il prodotto dell'ambiente umano e sociale. Un'opera deve essere quindi studiata nella sua struttura interna e nella sua connessione con i fattori storico-economici che l'hanno determinata: le condizioni sociali, il "clima spirituale", il costume e persino la "razza" di un popolo. Essa permette quindi di cogliere il senso di una data epoca storica. Mentre il Romanticismo esaltava la soggettività dell'artista, del genio creatore, il Positivismo afferma l'oggettività dell'artista, la sua "neutralità" verso ciò che rappresenta, ossia un atteggiamento analogo a quello dello scienziato che studia i "fatti".
Col Positivismo si compie una svolta nella storia dell'Estetica all'insegna del realismo: si afferma l'esigenza di fornire, attraverso l'arte, una descrizione e un'analisi della realtà sociale e psicologica, che si manifesta in pieno nella produzione artistica della seconda metà dell'Ottocento. Si pensi, ad esempio, all'opera letteraria di Balzac, Flaubert, Zola e Verga o, in pittura, al realismo "integrale" di Courbet e, per certi versi, anche al realismo degli Impressionisti.
Questa svolta realistica è legata all' esigenza di conoscere e studiare le condizioni sociali, politiche ed economiche di una società europea sempre più industrializzata e attraversata da conflitti sociali di vasta portata; la riproduzione fedele della realtà non va intesa come un limite imposto all' artista e come una svalutazione del compito dell' arte, ma come il riconoscimento del suo valore, perché con la sua opera l'artista può denunciare con caratteri vividi, talvolta meglio di quanto possa fare un filosofo o un uomo politico, una realtà sociale ingiusta. Il rovescio della medaglia di questa concezione che, soprattutto in ambito marxista, appare come valorizzatrice del "lavoro" dell'artista, è l'idea secondo cui l'artista deve impegnarsi, con la sua arte, ad essere "politico", evitando un'arte che sia pura contemplazione o astratta meditazione.
L’esperienza del tragico
Il "trionfo" del realismo e la diffusione del Positivismo, la fiducia nelle illimitate capacità della scienza e nello sviluppo inarrestabile dell'umanità che permeano la seconda metà dell'800, vanno in crisi verso la fine del secolo stesso e sono messe in discussione dalla filosofia di Nietzsche e dal Decadentismo.
Friedrich Nietzsche (1844-1900), ne La nascita della tragedia, afferma il primato dell'arte, in quanto valorizzazione delle forze vitali dell'uomo ed espressione del tragico, cioè del dionisiaco, della vitalità e dell'ebbrezza che accompagnano i momenti più creativi della vita dell'uomo. La bellezza viene a identificarsi perciò con la libera esplicazione della volontà di vivere, del "vigore animale" dell'uomo, mentre la bruttezza non è altro che impoverimento e indebolimento della volontà e corrisponde a tutto ciò che infiacchisce e spegne la sensibilità umana.
Proprio in nome di queste istanze, Nietzsche attacca lo scientismo e il razionalismo, che intendono ricondurre tutto a "intelligibilità", a trasparenza razionale, contribuendo così a soffocare e a impoverire l'esistenza, proprio come nella Grecia antica il razionalismo di Socrate e Platone aveva soffocato e dissolto la forza del mito e dello spirito dionisiaco che animava la tragedia attica.
A fondamento della tragedia (e, più in generale, a fondamento dell'arte) non vi è la ragione, l'"intelligibile", ma vi sono le forze vitali dell'esistenza, in particolare vi è il perenne conflitto e l'''accoppiamento'' fra l'apollineo e il dionisiaco, fra i "due mondi artistici del sogno e della ebbrezza", del "piacere dell'apparenza" e del "rapimento ardente, che sale dal fondo intimo dell'uomo".
L’apollineo è come un momento di riposo del dionisiaco, una pausa nella quale il sentimento di potenza non viene annullato ma è come ricondotto a forma, elevato alla sua espressione più pura.
Lo "spirito dionisiaco", invece, lacera il "velo di Maya" (lo schopenhaueriano mondo dell'apparenza e dell'illusione), afferma pienamente la volontà di vivere, è espressione della riconciliazione dell'uomo con la natura, sublime rapimento nel quale "l'uomo non è più artista", poiché "è divenuto egli stesso opera d'arte".
È invece lo spirito razionalista della scienza a spegnere quella forza vitale. In Umano, troppo umano, pur continuando a vedere nel "dionisiaco" l'essenza stessa della vita e della sua filosofia, Nietzsche, deluso dall' arte contemporanea, parla di "tramonto dell'arte", considerandola purtroppo destinata a diventare - nel mondo moderno - "un commovente ricordo", a essere avvolta e trasfigurata dalla "magia della morte".
Il Decadentismo: l'arte per l'arte
La diffidenza verso l'idea per cui l'arte debba "servire" a scopi socio-politici o gnoseologici, favorisce altresì la nascita di un movimento culturale - il Decadentismo - che ripropone l'idea romantica della supremazia dell'arte come forma di conoscenza e di vita, riassunta emblematicamente nella formula l' art pour l'art del francese Théophile Gautier (1811-1872).
A differenza però del Romanticismo, il Decadentismo abbandona la fede nella natura e nella possibilità di una rigenerazione spirituale - etico-religiosa - dell'umanità e accentua, invece, gli aspetti "estetizzanti", relativi al modo di vivere dell'artista, che erano già presenti nel Romanticismo.
L’arte diviene l'unica forma di autorealizzazione in un mondo altrimenti privo di punti di riferimento ideali: la poesia - scrive Charles Baudelaire (1821-1867) - "non ha altro fine che se stessa" e non una presunta "Verità". Solo l'arte costituisce un compiuto orizzonte di senso, autonomo rispetto al mondo dell'esperienza quotidiana.
Così nella cultura del Decadentismo il senso estetico sostituisce il senso morale, la volontà - scrive Gabriele d'Annunzio (1867-1936) ne Il piacere, romanzo del 1895, - cede lo scettro agli istinti: "gli uomini d'intelletto, educati al culto della Bellezza, conservano sempre, anche nelle peggiori depravazioni, una specie di ordine. La concezione della Bellezza è. dirò così, l'asse del loro essere interiore, intorno al quale tutte le loro passioni gravitano".
Durante il novecento si ripresenta in termini nuovi - e con significati diversi rispetto al passato -la questione dell'arte come forma di conoscenza della realtà. Ci si è chiesti inoltre se l'arte rappresenti una forma di esperienza privilegiata, superiore alla filosofia e alla scienza, oppure consista in un approccio alla realtà semplicemente diverso. In altri termini, che cosa ci fa "vedere" o "intendere" un'opera d'arte? Se è conoscenza, di che tipo di conoscenza si tratta e cosa la differenzia rispetto a quella fornita dalla scienza o dalla filosofia? Che cosa ci fa conoscere di diverso sul mondo e su noi stessi? Si tratta di domande fondamentali, formulate da artisti e poi 'rimbalzate' sulla filosofia divenendo oggetto di riflessione teorica.
Più in particolare, nel variegato panorama delle concezioni estetiche del Novecento, si può individuare una duplice linea di riflessione. Per un verso, in continuità con l'impostazione kantiana, si ribadisce l'autonomia dell' arte, l' estraneità dell' esperienza artistica alla ricerca della verità. A tale orientamento corrisponde in larga misura la tendenza ad accettare l'idea di una specializzazione delle singole arti.
Per altro verso, si afferma che non si può scindere l'arte dal rapporto con la verità, anche se tale rapporto non si può riproporre nei termini in cui si era imposto nella cultura occidentale fino al Settecento. Alcuni autori proseguono invece sul solco tracciato dal Decadentismo, mettendo in discussione definitivamente il realismo, sostenendo che l'arte torna ad appartenere al mondo del soggetto umano, scoprendo la complessità della vita interiore, la dimensione temporale e le sue contraddizioni.
Il ruolo delle Avanguardie artistiche
Uno dei fenomeni estetici più celebri del novecento, soprattutto nella sua prima fase, sono le Avanguardie letterarie e artistiche; al di là delle diversità ideologiche che muovono questi movimenti, appare in essi comune l'idea che la funzione dell'arte consista nella critica e nel rifiuto dell'esistente, delle condizioni di vita e di pensiero dominate dal conformismo di massa.
Le Avanguardie e le nuove tendenze artistiche che irrompono nel mondo della cultura ai primi del Novecento (dalla Dodecafonia all'Espressionismo, dal Futurismo al Cubismo e, poi, all'Astrattismo e al Surrealismo) trasformano profondamente i modelli espressivi. Benché taluni artisti appartenenti alle Avanguardie ripropongano le tesi dell'autosufficienza dell'arte e de "l'arte per l'arte", altri rifiutano di isolare l'esperienza artistica rispetto alla verità e alla realtà.
Nel variegato mondo delle Avanguardie, si affermano movimenti artistici "aggressivi": si pensi al Futurismo e all'uso, distorto e ideologico, che il Fascismo fece di alcune idee di questo movimento. Si sviluppano, inoltre, movimenti "profetici" che rivendicano all'arte spazi di azione illimitati, mentre altri movimenti sostengono la necessità di una trasfigurazione interiore della realtà stessa e della conseguente riaffermazione della libertà spirituale dell'artista.
Le Avanguardie affermano altresì un'idea positiva della creazione artistica come nuova donazione di senso alla realtà e, contro il "realismo" e il "naturalismo" positivisti, sollecitano a guardare ben oltre la realtà apparente delle cose. In altri termini, i fatti che vengono raffigurati, descritti, musicati, si dissolvono in trame e relazioni che rispondono a regole interne e non a quelle attribuite alle cose dallo sguardo dell'uomo comune e dall'intelletto scientifico.
Il punto d'arrivo, in tal senso, è la pittura astratta, che sul piano gnoseologico segna una rivoluzione concettuale, un cambiamento del "punto di vista", del modo in cui la realtà è osservata e interpretata: un punto di vista multiprospettico, relativistico, attraverso cui si intende determinare una "nuova oggettività" (è il nome di uno dei gruppi che fanno capo all'Espressionismo tedesco). Un'analoga, radicale trasformazione delle forme espressive investe anche la letteratura (con Pirandello, Proust, Kafka, Musil, Joyce e altri), tanto da far dire ad alcuni (come il filosofo italiano Franco Rella) che nel Novecento il luogo letterario è diventato "il luogo privilegiato della filosofia (come forse nel '600 lo erano state la matematica e la fisica)".
Arte e psicoanalisi
Il contributo della ricerca artistica alla produzione di nuovi modelli, nuovi punti di vista e di interpretazione della realtà, in parallelo con la ricerca scientifica e filosofica, viene riconosciuto anche dal fondatore della Psicanalisi, Sigmund Freud (1856-1939), allorché afferma: "I poeti sanno una quantità di cose fra cielo e terra che il nostro sapere neppure sospetta" e: "I poeti e i filosofi hanno scoperto l'inconscio prima di me: quello che io ho scoperto è il metodo scientifico che consente di studiare l'inconscio". Ma, a sua volta, la psicoanalisi contribuisce anche a comprendere meglio taluni aspetti dell'esperienza artistica.
La ricerca di Freud individua, nell'arte, la presenza delle stesse forze e degli stessi conflitti - legati alla rimozione delle pulsioni - che caratterizzano le nevrosi. Ma con una differenza profonda, radicale: il nevrotico, il "sognatore ad occhi aperti, nasconde accuratamente agli altri le proprie fantasie, poiché ha motivo di vergognarsene" e, se anche le manifestasse, procurerebbe in chi lo ascolta tutt'altro che piacere. L’artista e il poeta, al contrario, riescono a "sedurci" col piacere che in noi provoca la loro comunicazione. Tale comunicazione è liberatoria sia per chi la riceve, sia per l'artista stesso: questi, cercando un'autoliberazione dai "desideri irrìsolti", trasmette tale impegno a chi soffre delle stesse tensioni. L’arte, così, diventa espressione di un fenomeno di sublimazione dei desideri o delle pulsioni più aggressive.
Anche la ricerca di Carl Gustav Jung (1875-1961) si rivolge al fenomeno artistico, descrivendo gli archetipi, i modelli ideali e universali, che sono presenti nelle opere d'arte e che fanno parte dell'inconscio collettivo.
Freud e Jung si preoccupano tuttavia di mantenere distinti i due ambiti della ricerca estetica e dell'indagine psicologica. Il primo afferma che "da dove venga all'artista la capacità creativa non è problema della psicologia". Il secondo sostiene che oggetto degli studi psicoanalitici può essere "solo quella parte dell'arte che comprende i processi di formazione artistica" e "non quella che rappresenta l'essenza stessa dell'arte".
Più tardi, a partire dagli anni '60, si apriranno nuovi spazi alla lettura interpretativa dell'opera d'arte in chiave psicoanalitica, grazie a Paul Ricoeur o a Jacques Lacan.
L’arte come conoscenza intuitiva
All'inizio del secolo, il Neoidealismo italiano, in particolare nella riflessione di Croce, guarda all'esperienza artistica come a un possibile modello di indagine della realtà, assegnandole la capacità di farci intuire il reale, mettendo ci immediatamente in comunicazione con esso. Benedetto Croce (1866-1952) sostiene che l'arte, collocata nella dimensione teoretica dello spirito, è "intuizione lirica" , vale a dire conoscenza - allo stesso tempo - intuitiva ed espressiva, contenuto sentimentale espresso in forma fantastica, intuizione-espressione nella quale il contenuto dell'intuizione non esiste senza l'espressione e viceversa. Nell'arte si realizza una sintesi fra sentimento e immagine: parafrasando la formula kantiana, Croce afferma che senza l'immagine il sentimento è "cieco" e senza il sentimento l'immagine è "vuota". Per Croce, dopo la riflessione di Vico l'Estetica ha acquistato la dignità di scienza dell 'arte, nella quale questa è considerata come espressione del sentimento o intuizione lirica.
A differenza di quel che asserivano i Romantici, secondo Croce non esistono intuizioni non rappresentabili - e come tali "sublimi"; tutte le forme artistiche hanno in comune questa caratteristica ideale, di essere espressione di un sentimento, mentre la loro diversità materiale è meramente estrinseca, è un fatto "pratico", che non ha nulla a che vedere con il fatto "artistico". Croce sostiene perciò con forza la tesi dell'autonomia dell'arte: essa, infatti, "non ha padroni" ed è una delle quattro forme fondamentali (arte, filosofia, economia e morale) in cui si svolge la vita dello spirito. Come tale, si distingue dalla "conoscenza concettuale" ed è estranea alle dimensioni dell'''utilità'' e della "moralità".
Anche quando è densa di contenuti filosofici, l'arte è intuizione, nient'altro che intuizione, e non conoscenza concettuale. Essa è invece conoscenza dell'individuale, distinta dalla conoscenza dell'universale, propria della filosofia, ma anche dalla semplice conoscenza sensibile: mentre la percezione sensibile è conoscenza di una cosa "reale" (cioè realmente esistente), l'intuizione artistica può rivolgersi anche alla rappresentazione del "possibile". In altri termini, il contenuto sentimentale dell'arte è depurato dal suo carattere meramente "emotivo" e, in tal senso, può assumere una dimensione universale, pur se autonoma da quella concettuale, di tipo filosofico.
A differenza di Croce, Giovanni Gentile (1875-1944) nega l'autonomia dell'arte, e intende l'arte stessa come il momento della pura soggettività dello spirito, puro sentimento e pura liricità, fantasia e sogno del soggetto. Come sentimento l'arte è "ineffabile", ma nello sforzo di raggiungere una consapevolezza di sé - attraverso l'espressione - essa si traduce in pensiero. Come pensiero, l'arte trascende se stessa affermandosi piuttosto come religione e filosofia, negandosi come soggettività per affermarsi nei momenti dell'oggettività (con la religione) e dell'assoluto (con la filosofia): per questo, paradossalmente, "l'arte ci sarà in quanto non ci sarà".
Sebbene lontano del Neoidealismo, anche il filosofo francese Henri-Louis Bergson (1859-1941) giudica l'intuizione l'organo privilegiato della filosofia, lo strumento della conoscenza metafisica. Secondo Bergson l'intuizione estetica è l'esempio di un'intelligenza coniugata all'immediatezza dell'istinto: essa è istinto disinteressato e consapevole che permette di avvertire nelle cose ciò che non è immediatamente utilizzabile per l'azione e sfugge alla percezione sensibile. L’intuizione estetica, perciò, è capace di cogliere le cose nella loro individualità, nella loro effettiva realtà, al di fuori del loro uso strumentale da parte dell'uomo.
Arti utili e arti belle
Di segno opposto a quella dell'Idealismo è l'elaborazione estetica di John Dewey (18591952) che si muove nell'orizzonte teorico del Pragmatismo e dello Strumentalismo. In Dewey viene meno ogni separazione fra arti belle e arti utili. Egli si schiera contro ogni formalismo e ogni idea di "autosufficienza" dell'arte, in quanto ritiene che essa non possa disancorarsi dalla realtà, cioè dai bisogni umani essenziali.
L’arte, infatti secondo Dewey, fornisce qualità a oggetti che in sé non avrebbero valore estetico. È "intensificazione" e "concentrazione" dell'esperienza, ricerca e affermazione di autenticità e compiutezza, sviluppo dei significati umani dell'esperienza stessa. In tal senso, l'arte è utile oltre che bella. Così come "belle", produttrici di bellezza, sono le cosiddette "arti utili", proprio in quanto "utili", capaci di arricchire l'esistenza umana. L’opera d'arte, per Dewey, è oggetto di una valutazione analoga a quella formulata nei giudizi morali e possiede una funzione educativa, poiché favorisce l'affinamento delle nostre capacità percettive, permettendoci di cogliere aspetti e sfumature della realtà che non sarebbero altrimenti avvertibili.
L’arte come critica dell'esistente
La massificazione della società, dei gusti, delle mode, unitamente alla nascita di tecnologie (come il cinema e la radio) in grado di rendere un'opera d'arte riproducibile e capace di raggiungere un grande numero di individui, conduce alcuni autori a interrogarsi sull'influenza di questi fenomeni sull'arte.
La critica estetica di Walter Benjamin (1892-1940) analizza i processi culturali che si verificano nella società di massa e che modificano radicalmente il rapporto fra opera d'arte e pubblico. Questi processi, secondo Benjamin, comportano per l'arte la perdita di quell'''aura'' di sacralità ereditata dalla concezione romantica; è questa la conseguenza più significativa della riproducibilità tecnica dell'opera d'arte, che, a partire dalla litografia e dalla fotografia, è sfociata nel fenomeno di massa del cinema. Col venir meno dell"'aura", dell"'hic et nunc" dell'opera, si mette in causa la tradizione e si dissolve anche il modello estetizzante dell' arte per l'arte.
Benjamin sostiene inoltre che, diventando più diffusa e accessibile, l'opera d'arte 'riprodotta' ha avvicinato le masse alla fruizione dei prodotti artistici e le aiuta - per quanto può - a recuperare il senso della contraddizione che esiste nel mondo. È in tal senso, quindi (e non nel quadro di visioni romantiche ed elitarie), che l'arte può diventare strumento di redenzione umana.
La posizione di Benjamin contrasta con quella di altri teorici del Novecento a lui vicini ad esempio i filosofi della Scuola di Francoforte - e segnatamente con quella di Theodor W. Adorno (1903-1969), che pone in evidenza l'irriducibilità del fatto estetico alla pura razionalità tecnica, che è invece esaltata dall'industria culturale del capitalismo, di cui il cinema è espressione. Adorno sembra voler recuperare per l'arte il suo rapporto con l'''hic et nunc", il suo carattere elitario, quasi sacrale: per questo egli contesta la tesi di Benjamin di un'arte che si avvicina alle masse.
Adorno considera l'arte come un formidabile metodo di analisi e conoscenza critica della realtà, nel quale non si fa "violenza" alla realtà, ma la si descrive e la si riconosce nella sua eterogeneità e contraddittorietà. L’arte, infatti, consente di mettere a nudo gli aspetti contraddittori e alienanti della realtà umana e di cogliere i suoi contenuti essenziali e più autentici: il che dà alla conoscenza di cui è portatrice un carattere critico, di messa in discussione dell'esistente. La realtà che ci mostra è tutt'altro che apparente, illusoria.
Secondo Adorno, l'arte combatte contro ogni forma di asservimento e omologazione, di "massificazione" dell'individuo, anche contro quella costituita dall'industria culturale e dalla mercificazione dell'arte stessa. L’arte si oppone alla "reificazione" dell'uomo, poiché deve essere conoscenza e consapevolezza critica irrinunciabile per chi guardi a una prospettiva di liberazione umana.
Anche Herbert Marcuse (1898-1979) sottolinea il rapporto dialettico - per molti versi antagonistico - fra arte e realtà, fra la visione del mondo che l'opera esprime e il mondo stesso. L’arte non è irreale ma più che reale. In altre parole, essa mostra della realtà ciò che ne è stato soffocato, manipolato, nascosto. L’arte viene descritta come conoscenza potenzialmente disalienante, liberatori a, perché capace di mostrare ciò che la realtà è (una realtà non libera) e ciò che potrebbe essere (una realtà libera da condizionamenti e manipolazioni). Essa, dunque, ha un significato rivoluzionario perché guarda alle possibilità più radicali di trasformazione dello stato di cose esistente, in particolare a quel "potenziale di felicità" che la natura umana contiene ma che la realtà sociale mortifica e - spesso - annichilisce.
E proprio perché considera sia le cose che sono che quelle che possono essere, l'arte contiene più verità della realtà stessa. L’arte infatti si confronta con questa realtà. Essa, però, non è mera registrazione dei fatti, in quanto è anche altro, dal momento che guarda a una prospettiva che trascende i fatti stessi. L’opera d'arte, come rivelazione della realtà effettiva delle cose, come manifestazione di verità, trascende lo specifico contesto storico in cui è stata posta in essere. In tal senso, è 'metastorica', anche se vive nella storia e con le vicende storiche si misura continuamente.
Anche nel Marxismo del Novecento si manifesta un recupero della funzione positiva dell'arte, in opposizione all'idea di un suo asservimento alla politica. In questa direzione si muove, ad esempio, la teoria estetica di Gyorgy Lukacs (1885-1971), per il quale l'arte, pur essendo un "riflesso" e un "rispecchiamento" dei rapporti di produzione, ci consente di guardare a fondo nell'esistenza umana e di cogliere il significato più autentico ed essenziale di un'epoca. Come la scienza, l'arte conserva e arricchisce la vita della specie, operando in una dimensione sociale. Un altro autore di ispirazione marxista, Ernst Bloch (1885-1977) vede nell'opera d'arte una delle espressioni della coscienza anticipante, una raffigurazione utopica (o "parvenza anticipante"), mediante la fantasia, delle possibilità di liberazione umana dalle condizioni moderne di alienazione.
L'arte come interpretazione della realtà
Tuttavia, anche durante il '900 diversi autori, affermano il valore teoretico dell'arte, evidenziando il suo caratterizzarsi come peculiare esperienza di verità. L’arte, afferma il neokantiano Ernst Cassirer (1874-1945) è una forma simbolica, come la scienza, la religione e le altre forme della cultura, poiché si esprime attraverso un linguaggio simbolico, un linguaggio particolare, che non può essere identificato con il linguaggio in generale. Tale linguaggio ha il compito, da un lato, di dare forma ai sentimenti più oscuri e, dall'altro, di mettere ordine nel mondo delle percezioni. A differenza dei simboli della scienza, che astraggono dalla realtà, quelli dell'arte tendono a metterne in evidenza alcuni aspetti concreti, dando loro la massima intensità espressiva ma - allo stesso tempo - oggettivando li, ossia facendoli uscire dalla vaghezza e dal disordine dell' esperienza.
È soprattutto Martin Heidegger (1889-1976) a sottolineare il ruolo dell'arte nella ricerca della verità. Nella seconda fase del suo pensiero, egli sembra definitivamente superare l'idea dell'Esistenzialismo secondo cui l'arte non è autonoma, perché, se così fosse, l'artista sarebbe deresponsabilizzato. Heidegger ritiene che la poesia assuma un valore fondamentale, in quanto forma privilegiata dell'accadere dell'essere, dell' apertura dell'essere, possibilità di "ascolto" dell'essere, di cui la metafisica occidentale ha invece decretato l'oblio.
Heidegger assegna al "pensiero poetante" il compito di realizzare quella "messa in opera della verità" che il pensiero razionale ha disatteso. La poesia ha un valore, una portata ontologica: l'opera d'arte produce una nuova struttura dell'esperienza, un linguaggio, cioè un nuovo orizzonte di significati. Il discorso sull'essere tipico della poesia non è paragonabile a quello della metafisica (che invece ha portato all' oblio dell'essere da parte della cultura occidentale), né alla conoscenza logico-scientifica, perché il linguaggio dell'opera d'arte non è obiettivante, non pretende di descrivere l'essere nella sua oggettività (come vuole fare il pensiero tecnico-scientifico dominante, il "pensiero calcolante"), ma parla dell'essere senza spiegarlo, senza "obiettivarlo", senza ridurlo a cosa. Proprio così si apre all'essere, alla sua autorivelazione, nel linguaggio del poeta e non dello scienziato o del metafisico. Ma l'arte non è "gratuita", autosufficiente, perché ha un fondamento ontologico profondo, anche se non parla il linguaggio della metafisica.
Considerando il rapporto fra un'opera d'arte e la propria epoca, Heidegger compie una radicale inversione rispetto al Positivismo e allo Storicismo, poiché per lui l'arte non "riflette" un ambiente storicamente determinato, non "esprime" un'epoca, bensì la costituisce, ossia la determina mediante il suo linguaggio. Non è guardando all'epoca storica in cui è stata prodotta che si può intendere il senso di un'opera d'arte, ma è esattamente il contrario: è attraverso l'opera, attraverso il suo linguaggio, che si può intendere un 'epoca. In tal modo, la comprensione di un'epoca è resa possibile dal linguaggio dell'opera d'arte: "ciò che dura lo fondano i poeti", scrive Heidegger.
L'Ermeneutica, nella sua riflessone estetica, riprende da Heidegger l'idea che l'esperienza artistica costituisca una "esperienza di verità". Hans Georg Gadamer (1900-2002) critica la distinzione moderna (risalente a Kant) fra arte, conoscenza e morale, come se il bello fosse qualcosa di totalmente separato dal vero e dal bene. L'arte, invece, non si sottrae al compito di occuparsi del problema della verità.
Egli rifiuta la "soggettivizzazione" kantiana dell' arte, che ne precludeva ogni valore conoscitivo, relegandola a esperienza puramente soggettiva e sentimentale. Per Gadamer, l'esperienza dell'arte non è confinabile nell'ambito soggettivo della "coscienza estetica" poiché costituisce una conoscenza, rivendica quindi una sua verità. Egli guarda invece con favore al tentativo hegeliano di descrivere l'arte come forma di conoscenza, come autocoscienza dello spirito in forme sensibili, perché consente di cogliere, nella storia dell'arte, l'avvicendarsi di diverse concezioni del mondo. Egli, tuttavia, non accetta la tesi hegeliana del superamento dell'arte nella filosofia, anche se esprime l'esigenza di dare all'esperienza di verità un più solido fondamento.
Gadamer non accetta nemmeno il legame tra arte e intuizione, sostenendo che la conoscenza propria dell'arte non si limita alla sfera intuitiva ma si estende a quella del concetto, assumendo pertanto un valore teoretico pieno, cioè il carattere di una visione del mondo. Per Gadamer, quindi, l'estetica è storia delle visioni del mondo, o meglio, della verità nello specchio dell'arte.
L'arte ha un valore speculativo, ontologico, poiché è una delle forme con cui l'uomo esplora la realtà e s'interroga sull'essere. Lungi dall'essere spontaneità assoluta e arbitrio, l'esperienza artistica è ricerca mediata dalla tradizione storico-culturale entro la quale si collocano sia l'artista che il fruitore. Il "creatore" dell'opera, nel produrla, si colloca dunque in un dato modo rispetto alla realtà che intende rappresentare, perché le fornisce un senso. Attraverso il godimento di un' opera d'arte prodotta in un'epoca diversa, lontana dalla nostra, è possibile adempiere il compito essenziale del pensiero, quello volto al disvelamento dell'essere. Eseguire o rappresentare un'opera d'arte, fruirne, vuol dire costituire un mondo, non semplicemente rappresentarlo. L'interpretazione è un accrescimento di essere.
Secondo Richard Rorty (1931-2007) vi è una molteplicità irriducibile di punti di vista interpretativi e non c'è alcuna "universalizzazione", anche potenziale, delle interpretazioni. L'arte ci permette di fare esperienza di una grande varietà di mondi possibili. E, proprio perché coinvolge totalmente l'individuo, permette a questi di interrogarsi in modo autentico sul significato dell' esistenza.
L'arte conferma, dunque, la presenza di punti di vista irriducibilmente diversi l'uno dall'altro, e l'impossibilità di conseguire una visione unitaria, compiuta, essenziale, della realtà. Per il pensiero contemporaneo, il problema della verità viene pertanto a trasformarsi - grazie anche al contributo della riflessione estetica - nel problema della molteplicità di prospettive da cui guardare la realtà. La visione del mondo diviene più problematica, il pensiero tende a farsi "debole", incapace cioè di illuminare e "rischiarare" completamente il mondo, in un gioco di luci e ombre che Heidegger descriveva con la metafora della radura nel bosco.
L'arte: una 'verità' ancora possibile?
Il dibattito contemporaneo sull'arte è caratterizzato da un'aperta messa in discussione - di vario segno - del cosiddetto "essenzialismo" estetico, ovvero della tesi che attribuisce all'opera d'arte una qualche "verità interna": si tratti dell' arte intesa come luogo privilegiato del disvelarsi dell'''essere'', come in Heidegger e Gadamer, oppure della concezione dell'arte come "critica" negatrice dello stato di cose esistente, sulla linea di Adorno e Marcuse.
Gradualmente, sembra essere prevalsa nell'Estetica contemporanea una tendenza di segno opposto. Ciò è avvenuto soprattutto con l'avvento del Postmoderno e, insieme, con l'affermarsi di un pensiero 'Postmetafisico' nel quale, insieme all'essere o a qualsiasi tipo di "essenza" ultima delle cose, viene negata con decisione anche l'idea che esista una "verità" dell'arte, intendendo la capacità dell'arte di introdurci in una dimensione della realtà altrimenti nascosta al pensiero dell'uomo comune come al pensiero 'calcolante' allo scienziato.
Tale negazione della funzione 'veritativa' dell'arte si manifesta soprattutto con il pensiero della "decostruzione" di Jacques Derrida (1930-2004) nel quale la ricerca di un significato non si svolge attraverso un percorso lineare, dove si possano avere un punto di partenza e uno di arrivo, ma solo attraverso una molteplicità di rimandi da opera a opera, "in un infinito gioco labirintico di rimandi, deviazioni, disseminazioni, scarti, ritardi, ripetizioni e differimenti da cui non si esce" (R. Bodei). Ciò evidenzia l'incompiutezza espressiva di ogni opera, la sua incapacità a 'dire' che cosa effettivamente significhi, in termini 'veritativi'.
A precisare meglio tale 'impossibilità' è stato il maggiore esponente del pensiero postmoderno, Jean-François Lyotard (1924-1998), il quale confronta i prodotti dell'arte della nostra epoca con le tesi kantiane sul "sublime". Kant descrive il sublime come il sentimento di una impossibilità della ragione umana di rappresentare la realtà (l"'assolutamente grande", l'''assolutamente potente"). Come per Kant quelle realtà 'smisurate' e avvertite come 'sublimi' possono essere concepite, ma non conosciute, allo stesso modo le "idee [le forme artistiche] che provano a esprimere la realtà non ci fanno conoscere nulla della realtà", poiché sono "impresentabili".
L’arte contemporanea si pone consapevolmente il compito di "presentare" ciò che è - in se stesso - 'impresentabile'. La pittura astratta, ad esempio, vuole esprimere l'informe, l'assenza di forma, intende cioè "far vedere che c'è qualcosa che si può concepire e che non si può né vedere né far vedere". Per Lyotard questa è la "scommessa dell' arte moderna", un paradosso che egli, comunque, non intende in senso spiritualistico, come rinvio a una dimensione trascendente: lo intende, piuttosto, come uno slittamento di senso, che eccede la sensibilità ma si manifesta tuttavia solo attraverso sensazioni. In particolare le Avanguardie artistiche "si sforzano di alludere all'impresentabile attraverso presentazioni visibili".
Al di là del Postrnoderno, è proprio la riflessione kantiana, in quanto esempio di una teoria non "cognitivista" dell'arte, a tornare di attualità nella critica alle teorie "essenzialiste". In tal senso - ad esempio per Rüdiger Bubner (1941-2007) - l'arte viene a caratterizzarsi non come "figura" della verità, ma come frutto di un'esperienza estetica di tipo aconcettuale, di un "apparire" che non è un semplice "involucro" della verità, ma ha il suo fondamento nell' immediatezza dell' intuizione.
Non mancano tuttavia posizioni che, pur non riproponendo un'idea 'metafisica' della "verità", valorizzano l'arte come contromovimento rispetto alla modernità, compensazione all'oggettivazione del mondo operata dalla scienza e dalla tecnica, opposizione al mondo del "disincanto". L’aspetto più interessante - in tale 'contromovimento' - è dovuto al fatto che, in questa stagione del pensiero caratterizzata dalla crisi della metafisica e dall'avvento del cosiddetto "pensiero debole", è proprio all'Estetica, intesa come "filosofia dell'arte", che si vuole ritornare, per riaffermare i diritti ed i poteri 'conoscitivi' della sensibilità e della percezione, "come se certe verità che la filosofia deve scoprire si trovassero più nella poesia che nel pensiero teorico" (G. Vattimo n. 1936).
E proprio ad un esame della natura e dei poteri della percezione - sul piano strettamente estetico e non solo 'gnoseologico' - taluni autori invitano oggi a tornare, guardando magari alla riflessione condotta intorno alla metà del Novecento da un esponente della Fenomenologia e dell'Esistenzialismo francese, Maurice Merleau-Ponty (1908-1961) il quale intendeva recuperare il significato più autentico della vita percettiva, come esperienza soggettiva originaria, che rinvia il soggetto al mondo, al suo essere-nel-mondo. Egli riteneva che anche l'arte, non solo la filosofia o la scienza, "interroga" il mondo, chiedendosi quale ne sia il senso, chi siamo "noi", quale sia il senso della nostra esistenza.
È solo un esempio della direzione possibile che un pensiero estetico 'postmetafisico' può intraprendere, riallacciandosi alla 'fondazione' e riflessione kantiana sul "giudizio di gusto" e sull'arte ma anche andando oltre Kant, 'riscoprendo' cioè il potenziale 'cognitivo' della percezione - anche di quella estetica. Diversi pensatori continuano infatti a ritenere che proprio l'arte costituisca un'''esperienza di verità" possibile fuori dalla scienza. All'estetica viene dunque assegnata una qualche funzione teorica, sia pure 'depotenziata', cioè privata delle pretese di assolutezza della metafisica classica.
Resta cioè tuttora aperta ed attuale - nella sua irrisolta problematicità -la domanda se l'arte sia o meno una forma di conoscenza della realtà: quale significato e valore di verità hanno le opere d'arte e che cosa effettivamente ci fanno "conoscere"?