Da Roma, cuore del cattolicesimo, dove l’arte barocca aveva espresso le prime significative manifestazioni, la nuova tendenza artistica si diffuse rapidamente in tutta Europa.
Soprattutto dove i poteri pubblici ne apprezzarono la forte comunicativa e la possibilità di esprimere in forme grandiose e in toni trionfali i valori politici, religiosi e culturali che ne legittimavano il potere.
Chiese e palazzi, giardini e fontane e l’arredo urbano costituirono l’immenso scenario di un profondo rinnovamento urbanistico e architettonico che riguardò numerosi centri.
Per questi motivi il barocco - combinandosi con motivi stilistici e culturali preesistenti - ha lasciato tracce significative e profonde sul volto di numerose città, dall’Italia meridionale all’Europa del nord.
Da Roma, città nella quale lo stile barocco era maturato a partire dal terzo decennio del '600, a opera di artisti quali Gian Lorenzo Bernini, Pietro da Cortona e Francesco Borromini, esso si diffuse ben presto in tutta Europa, assumendo caratteristiche peculiari, legate alle diverse situazioni nazionali.
Il consolidarsi dei grandi stati nazionali assolutistici contribuì alla fortuna di questo stile, che si configurò come una grande civiltà dell’immagine. La Francia di Luigi XIV celebrò la propria grandezza e quella del monarca, conferendo un volto nuovo e maestoso alla città di Parigi, creando piazze, strade, edifici sacri e profani che dilatassero il senso spaziale, e si imponessero per la loro monumentalità.
L’esempio francese, costituito dall’opera di geniali architetti come François Mansart (1598-1666), penetrò rapidamente nelle altre città europee, modellando soprattutto il volto di un’altra grande capitale, Vienna. Sorse qui, alla fine del '600, una straordinaria civiltà architettonica che ebbe tra i suoi maggiori protagonisti Bernhard Fischer von Erlach (1656-1723) e Lucas von Hildebrandt (1668-1745).
Formatisi entrambi in Italia sullo studio delle opere del Bernini e del Borromini, i due architetti seppero procedere autonomamente, sviluppando un proprio linguaggio costruttivo che esaltava gli effetti decorativi tipici della tradizione nordica, giungendo a soluzioni di grande originalità, le quali, per leggerezza e varietà di effetti, preludono alla nuova stagione del "rococò".
L’influenza del barocco italiano si diffuse anche in altre aree dell’impero asburgico e del mondo tedesco, inaugurando in Boemia e Baviera la grande stagione di questo stile.
Grazie a numerosi architetti italiani ospiti delle corti di Praga e di Monaco, le due città si vennero arricchendo di nuovi fastosi edifici che celebravano la potenza di sovrani e principi vescovi.
La corte di Carlo I fu, senza dubbio, una delle più brillanti d'Europa. Le tendenze assolutistiche del sovrano, che lo portarono al conflitto con il parlamento, si manifestarono anche nello stile di vita della sua corte.
Nel tentativo di mantenere un buon rapporto con i grandi stati cattolici d’Europa - aveva sposato la principessa Enrichetta Maria, figlia di Enrico IV di Francia e sorella del futuro Luigi XIII - il re si avvicinò anche alla Chiesa di Roma, intrattenendo intensi contatti con il pontefice Urbano VIII.
L’arte barocca, che aveva il suo centro propulsore proprio nella capitale della cristianità, poté così diffondersi anche nella corte degli Stuart. Nonostante le tensioni generate dal latente conflitto con il parlamento, Carlo I preferiva la compagnia di artisti, musicisti, poeti e scrittori a quella dei politici.
Alla sua corte confluirono artisti da ogni parte d’Europa, richiamati dall’interesse del monarca per l’arte che gli si presentava come lo strumento più idoneo alla celebrazione delle gesta sue e della sua casata.
Rubens, Van Dyck, Honthorst, Orazio Gentileschi, sono solo alcuni dei grandi pittori che frequentarono la corte inglese.
Animato da una smisurata opinione di se stesso e desideroso di essere ammirato dagli altri sovrani, per lui il mecenatismo artistico rappresentò non un piacere né uno svago, ma l’essenza stessa della regalità.
Gli affari di governo, che lo interessavano ben poco, erano delegati ai suoi laboriosi ministri mentre egli preferiva farsi ritrarre in pose regali dai pittori di corte.
Antonie van Dyck - le cui immagini fastose, superbamente eleganti e piene di fascino crearono una vera e propria moda nell'alta società inglese - ritrasse più volte il sovrano, in diversi atteggiamenti e situazioni: a figura intera, a mezzo busto, a cavallo, solo o insieme alla moglie Enrichetta Maria, principessa di Francia. L’immagine è sempre quella di un uomo potente, sicuro di sé, emblema di un monarca assoluto.
Energico e autoritario, egli appare sempre con le insegne del potere ben in evidenza.
Né sciocco né negligente, ma piuttosto energico e tenace nei suoi interessi, Carlo I costituisce uno degli esempi più caratteristici di un sovrano assoluto, amante delle arti e delle belle lettere.
Van Dyck si dedica precocemente all'attività artistica: nel 1615 apre un propria bottega ad Anversa e solo tre anni dopo è maestro nella gilda dei pittori e collaboratore di Rubens. Le opere di questo periodo rivelano il forte influsso dell'arte rubensiana (Caccia al cinghiale, 1617-18, Monaco, Alte Pinakothek; San Martino e il povero, 1621, chiesa di Saventhem).
Dal 1621 al 1627 è in Italia, in prevalenza a Genova, ma compie anche visite a Roma, Firenze, Bologna, Venezia, Palermo. L'artista ha così modo di studiare le grandi opere del Rinascimento italiano che disegna in un taccuino di schizzi, oggi conservato al British Museum di Londra.
Le opere eseguite durante il soggiorno in Italia risentono in particolare dell'influenza di Tiziano, evidente nell'uso di una gamma di toni morbidi e sfumati e nelle eleganti composizioni: oltre alle numerose opere religiose (Madonna del Rosario, Palermo, Oratorio del Rosario) Van Dyck esegue una serie di ritratti dell'aristocrazia genovese, per lo più a figura intera, che manifestano la sua piena maturistà stilistica (Ritratto della marchesa Caterina Durazzo, Genova, palazzo Reale).
Al rientro in Olanda, è nominato pittore di corte dell'arciduchessa Isabella e dipinge soprattutto ritratti e pale d'altare (Estasi di sant'Agostino, 1628, Anversa, chiesa di Sant'Agostino). Tra le tele di soggetto mitologico spicca il capolavoro Rinaldo e Armida (1630-31 ca., Parigi, Louvre) la cui leggerezza di esecuzione sembra anticipare il gusto rococò. A partire dal 1632 si stabilisce in Inghilterra dove lavora come pittore ufficiale alla corte di re Carlo I che gli conferisce anche il titolo di cavaliere.
Qui l'artista esegue un cospicuo numero di ritratti (Ritratto di Anton Giulio Brignoli) che offrono un'importante testimonianza del mondo nobiliare inglese della prima metà del '600 e che influenzeranno i grandi ritrattisti inglesi del '700, Gainsborough e Reynolds. I personaggi ritratti appaiono in abiti sontuosi, stagliati su sfondi paesaggistici dai toni luminosi. Celebri sono i ritratti di Carlo I (Londra, National Gallery; Parigi, Louvre; Madrid, Prado).
Nato nel 1653, figlio dell’orafo fiorentino Giovanni Battista Lomi e fratello minore di Aurelio Lomi, insieme al quale apprese i primi rudimenti delle pittura, l’artista assunse il cognome Gentileschi da uno zio materno romano, presso il quale si trasferì tra il 1576 e il 1578.
Intorno al 1593 egli affrescò la Circoncisione nelle Storie della Vergine nella navata centrale della chiesa di Santa Maria Maggiore a Roma. Fu questa la prima commissione di rilievo in un’attività il cui avvio fu all’insegna di più modesti incarichi come medaglista.
Gentileschi si trattenne a Roma fino al 1612, entrando in contatto con Caravaggio di cui fu amico e precoce seguace; dipinse in questo periodo tele, tra cui spiccano il San Francesco nella chiesa di San Silvestro in capite e il David ora alla Galleria Spada e affreschi nel Palazzo del Quirinale.
Nel 1612, in seguito allo scandalo provocato dal processo contro il pittore Agostino Tassi che aveva violentato sua figlia Artemisia, partì da Roma per un viaggio nelle Marche e in Toscana. Ritornato poi a Roma, se ne allontanò definitivamente nel 1621.
Fino al 1623 egli si trattenne a Genova presso il nobile Giovanni Antonio Sauli per il quale il pittore eseguì numerosi dipinti. Nel 1624 partì per Parigi e successivamente per Londra dove fu chiamato dal Carlo I. Qui operò fino alla morte impegnato in commissioni per il sovrano e per il duca di Buckingham.
Tra le poche artiste donne consacrate alla gloria, Artemisia, figlia del pittore Orazio Gentileschi, nacque a Roma nel 1593. Unica femmina di sei figli, visse la sua infanzia nel popoloso quartiere degli artisti, che da Porta del Popolo giungeva a Trinità dei Monti.
Avviata alla pittura dal padre, ella intraprese ben presto una carriera autonoma, raggiungendo un successo senza precedenti nella pittura al femminile. Nelle sue opere Artemisia seppe innestare sul limpido rigore del disegno ereditato dal padre, accenti fortemente drammatici derivati direttamente da modelli caravaggeschi. La sua pittura, caricata di forti effetti teatrali, predilesse la resa delle carni sode e dorate attraverso uno studio naturalistico delle ombre e delle luci.
Giunse così ad effetti straordinariamente suggestivi, interpretando i temi religiosi con carica drammatica e privilegiandone gli aspetti più cruenti. Le sue opere, infatti, superano in efferatezza le più ardite interpretazioni caravaggesche, forse in considerazione delle sue tormentate vicende private. La sua vita fu sempre accompagnata dalla fama di licenziosità e dall’ombra di un oscuro passato.
E’, infatti, impossibile ignorare quel processo intentato nel marzo 1612 da Orazio Gentileschi contro l’amico e collega Agostino Tassi (1566-1644), il quale, nel maggio dell’anno precedente, aveva violentato Artemisia forse con la promessa di sposarla.
Comunque fossero andati gli eventi, la vicenda processuale si concluse dopo cinque mesi con una lieve condanna del Tassi. L’esperienza fu umiliante per Artemisia, più volte sottoposta a visite ginecologiche pubbliche, e torturata con lo schiacciamento dei pollici per indurla a dichiarare il vero.
Costretta a lasciare Roma, ella si trasferì a Firenze e poi a Napoli, affermandosi presso i maggiori collezionisti d’arte del tempo. Fortemente influenzata dall’opera di Caravaggio, intimo amico del padre Orazio, i suoi dipinti rivelano nei forti contrasti chiaroscurali i drammatici risvolti della sua personalità appassionata.
Giunse al massimo della fama quando intraprese, nel 1638, il viaggio in Inghilterra, dove già si era trasferito il padre alla corte del re Carlo I.
Morto Orazio due anni dopo, Artemisia non ebbe più motivi per rimanere a Londra e ritornò a Napoli, dove si spense nel 1652. Nessuna opera può essere ascritta con certezza al suo soggiorno londinese, eccetto un’Allegoria della pittura nelle collezioni reali e, forse, una collaborazione col padre alla sua ultima impresa: il ciclo di nove tele con le Allegorie della Pace e delle arti tutelate dalla Corona inglese, eseguito per il palazzo di Greenwich, oggi a Marlborough House.
Dopo la morte del marito nel 1610, la regina Maria de’ Medici si trovava a disagio nelle tetre sale del Louvre, e volle pertanto che le fosse costruita una nuova residenza, il Palazzo del Lussemburgo.
La grande nostalgia per la nativa Firenze fece sì che il nuovo palazzo ed il suo splendido parco fossero progettati per rievocare Palazzo Pitti e il giardino di Boboli, antiche dimore toscane della regina.
Il luogo prescelto per la costruzione fu l’antico Hôtel del duca Francesco di Lussemburgo, situato su un vasto terreno, presso un’abbazia di Certosini sulla riva sinistra della Senna.
Incaricato del progetto fu l’architetto Salomon de Brosse, il quale concepì un’imponente struttura a tre ali con padiglioni d’angolo, e un padiglione centrale sul lato dell’entrata. Iniziato nel 1615, il palazzo fu portato a compimento nel 1631.
Lo stesso anno la regina madre fu costretta all'esilio. Una galleria sul lato occidentale dell’edificio accoglieva il ciclo di ventiquattro tele, eseguite da Pieter Paul Rubens con Storie della vita di Maria de’ Medici, oggi conservato al Museo del Louvre.
Un’altra galleria, nell’ala orientale, doveva accogliere una serie celebrativa, dedicata al defunto Enrico IV, anch’essa commissionata a Rubens, ma mai realizzata. L’intero ciclo che illustra la vita e le gesta della regina fu eseguito dal pittore, tra il 1622 ed il 1625.
Una mole di lavoro enorme: quasi trecento metri quadrati di pittura, che ripercorrono la biografia di Maria sino al 1621, ricordandone tutti gli eventi principali.
Il palazzo rimase di proprietà reale anche dopo l’esilio della regina, morta in miseria a Colonia nel 1642. Requisito durante le rivoluzione francese, fu impiegato come fabbrica di armi e prigione. Lo splendido giardino, esteso su ventitré ettari, è oggi un parco pubblico
Se la prima metà del XVII secolo vide, in tutta Europa, il trionfo dell'estetica barocca, in Francia, dopo la metà del secolo, vennero sviluppandosi dei canoni artistici improntati ad un maggiore senso della disciplina e dell’ordine secondo una corrente che è stata definita come "classicismo".
Queste tendenze artistiche, già affermatesi nei decenni precedenti, trovarono la loro apoteosi durante il regno di Luigi XIV. La mitologia propose allora l’immagine di un "re-mecenate" che ispirava una "pléiade" di artisti "classici".
L’arte venne a rappresentare uno degli strumenti più efficaci per esaltare e celebrare le gesta e l’autorità del re, che riuscì a influenzare gli orientamenti creativi a corte e nell’intera nazione. La magnificenza del Gran Regno trovò la sua espressione soprattutto nell’architettura.
Claude Perrault (1613-1688) edificò il colonnato del Louvre; nel 1665 François Mansart (1598-1666) portò a termine il Val-de-Grâce (e inventò la mansarda), suo nipote Jules-Harduin Mansart (1646-1708), al quale si deve anche Les Invalides, diresse, dopo Le Vau, i sontuosi ingrandimenti di Versailles.
Con Pierre Puget (1620-1694), François Girardon (1628-1715), autore dei gruppi di Apollo e le ninfe e del Ratto di Proserpina dei giardini di Versailles, e Antoine Coysevox (1640-1720) la scultura si fece interprete di quella stessa aspirazione alla nobiltà.
Luigi XIV, che amava tutto ciò che era grande e fastoso, seppe anche apprezzare la franca comicità di Molière (1622-1673), così come consacrò la fama di autori come Racine (1639-1699), Boileau-Despréaux (1636-1711), oppure Bossuet (1627-1704).
La pittura fu invece caratterizzata da un certo manierismo: i nomi principali sono quelli di Charles Le Brun e di Nicolas Mignard (1606-1668), un eccellente ritrattista.
Le figure più forti e originali del classicismo si erano formate prima del regno di Luigi XIV; Nicolas Poussin (1594-1665), Claude Gelée, detto le Lorrain (1600-1682), Eustache Le Sueur (1616-1655) e Philippe de Champaigne (1602-1674). I tre fratelli Le Nain - Antoine (1580-1648), il più famoso Louis (1593-1648) e Mathieu (1607-1677) - furono i primi pittori antiaccademici francesi. Nel campo della musica Marc-Antoine Charpentier (1634-1704) rivaleggiò con il consacrato Jean-Baptiste Lully (1632-1687), vero dominatore degli spettacoli di Versailles.
Se Luigi XIV,riuscì a far coincidere l’immagine della propria magnificenza col nuovo peso politico acquisito dalla Francia in campo internazionale, una delle opere che riuscì meglio ad esprimere questo ruolo, e il carattere assoluto che contraddistingueva la monarchia per diritto divino, fu la creazione di una nuova residenza della corte a Versailles.
Fu uno di quei luoghi speciali nei quali un’epoca trovava il suo culmine, dai quali si intuivano i mutamenti dei costumi, della diplomazia, dell'arte; dai quali si captavano le trasformazioni che stavano scuotendo l’Europa. Un piccolo castello costruito nel 1624 a Versailles, alla periferia occidentale di Parigi, come residenza di caccia di Luigi XIII, poco lontano da un villaggio circondato da paludi e da boschi ricchi di selvaggina, si trasformò, durante il regno di Luigi XIV, in una sontuosa reggia. Il re era rimasto impressionato dalla sontuosità di Vaux-le-Vicomte il castello che aveva causato la rovina del sovrintendente Fouquet.
Non amando Parigi, roccaforte della Fronda, il sovrano volle una "capitale" tutta sua, congeniale alla sua persona e al suo potere. Asceso al trono, Luigi si apprestò a trasformare l'anonimo castello feudale del padre in reggia, creando così il suo personalissimo capolavoro perché nulla venne realizzato senza che egli lo progettasse, lo studiasse, lo discutesse e lo approvasse.
L’architetto Louis Le Vau (1612-1670) iniziò i lavori nel 1668, sette anni dopo l’ascesa al trono del Re Sole, sostituito poi da Jules Hardouin-Mansart (1646-1708). André Le Nôtre (1613-1700) fu il creatore geniale dei giardini. Il pittore di corte Charles Le Brun (1619-1690), uno dei più rinomati nel panorama artistico parigino, dirigeva intanto un esercito di decoratori, scultori, mobilieri e tappezzieri, intenti all’arredamento e agli abbellimenti interni.
Al servizio dell’entusiasmo del re lavorarono giornalmente trentamila uomini e seimila cavalli. I costi di costruzione salirono ogni anno in modo vertiginoso: 5 milioni di lire tornesi (quasi l’equivalente di 4 tonnellate d’oro) nel 1669, 6 milioni nel 1670, 20 nel 1671, e Colbert fu angustiato da quello che giudicò un colossale spreco. Ma Luigi non volle sentire critiche. "Le roi c’est moi". Io sono il padrone.
I lavori di edificazione della reggia durarono quasi cinquant’anni, con varie interruzioni nei periodi di guerra ma, già dal 1682, il re aveva lasciato il Louvre per trasferirsi qui con tutta la sua corte. Una sontuosa inaugurazione era già avvenuta, a cantiere aperto, nel 1664.
Fu un'opera colossale: Luigi XIV trasformò in reggia un padiglione di caccia; trovò una palude e ne ricavò i più splendidi giardini d’Europa; non vi era panorama e lo creò trasformando la natura.
Louis Le Vau (1612- 1670) costruì a Parigi, fra il 1640 e il 1656, l’Hôtel Lambert e l’Hôtel de Lauzun sull’Île-Saint Louis, e contribuì alla sistemazione della Cour Carrée del Louvre e di un padiglione delle Tuileries.
Nel 1657 il sovrintendente Fouquet lo chiamò a progettare il castello di Vaux-le-Vicomte, portato a termine nel 1661.
Luigi XIV, folgorato dalla bellezza di Vaux, gli affidò la costruzione di Versailles, dove l’architetto lavorò fino alla morte col titolo di primo architetto del re e supremo imprenditore di tutti gli edifici reali.
Realizzò infatti i padiglioni del re e della regina a Vincennes, il castello di Meudon, l’ospedale parigino de La Salpêtrière.
Eseguì anche il progetto del College des Quatre Nations, che diventerà sede dell’Institut de France.
Charles Le Brun (1619-1690), discendente da una dinastia di scultori, ebbe dapprima la protezione del gran cancelliere Séguier (cui dedicò con l’opera Entrata del cavaliere Séguier a Parigi) e in seguito quella di Colbert.
Nel 1642 si trasferì a Roma dove studiò i monumenti antichi e copiò le opere di Raffaello. Fu allievo di Nicolas Poussin (1594-1665), uno dei massimi esponenti del classicismo francese. Nel 1645 fondò l’Académie Royale de Peinture et Sculpture che si incaricò di decorare le residenze reali.
Le Brun divenne primo pittore del re. Colbert lo nominò direttore della fabbrica dei Gobelins, che sotto il suo impulso produsse una grande quantità di tappezzerie e arazzi (dei quali egli eseguì i cartoni conosciuti come Stagioni, Mesi), ma anche mosaici, ferri battuti e arredi.
A Versailles decorò l’Escalier des Ambassadeurs, la Galleria degli Specchi e le cupole dei saloni della guerra e della Pace.
Nipote di Pierre, giardiniere delle Tuileries alla fine del '500, e figlio di Jean, giardiniere Luigi XIII, André Le Nôtre (1613-1700) esordì alle Tuileries, ma lavorò anche ai giardini di Chantilly, di Saint-Cloud, di Meudon.
Dal 1656 al 1663 creò il parco di Vaux-le-Vicomte, in seguito, fino al 1687, si dedicò principalmente ai giardini di di Versailles dove adattò mirabilmente la sua creazione alle nuove scoperte dell’ottica e dell’idraulica (gli impianti idraulici vennero realizzati da Pietro Francini).
Introdusse nel parco fontane mai viste prima (le Grandes Eaux), trapiantò intere foreste dalla Normandia e dalle Fiandre, si fece mandare cinquantamila bulbi da Costantinopoli.
Chiese e ottenne che fossero messe a disposizione le Guardie Svizzere per scavare il lago monumentale.