Plotino era nato nel 203 o 204 d.C. a Licopoli, in Egitto. Poco sappiamo della sua giovinezza, ma è quasi certo che ricevette un'educazione quale poteva avere solo un figlio di ricca famiglia. Ad Alessandria Plotino, già ventottenne, trovò dopo molte delusioni il maestro che cercava in Ammonio Sacca: un ex facchino (stando al soprannome, Sacca) che, coltivandosi, aveva preso ad insegnare oralmente, dando esempio, oltre al resto, di vita ascetica. Non lasciò nessuno scritto.
Porfirio ci dice, però, che egli venne considerato ed onorato da Plotino e dai suoi successori come vero caposcuola. Commentava i classici in un'atmosfera di platonismo religioso. Del resto non dobbiamo dimenticare che, se Platone è riuscito a fare della mistica una filosofia, in molti altri riesce il contrario: la filosofia diviene una mistica.
Pare che Ammonio, tuttavia, non si distaccasse dagli interessi propri del platonismo medio, indagando sul rapporto dell'anima con l'intelletto, da un lato e con il corpo, dall'altro. Tra i migliori allievi di Ammonio dobbiamo annoverare un certo Origene. Molti hanno voluto identificarlo con il grande Origene della patristica greca, ma sembra ormai accertato si trattasse di un altro.
Dopo il disastro di Gordiano in Persia, Plotino si rifugiò ad Antiochia. Ormai quarantenne, si stabilì a Roma dove fondò una scuola frequentata, tra gli altri, dall'imperatore Gallieno e dall'imperatrice Saturnina. Forse incoraggiato dall'appoggio di questi ed altri personaggi illustri, concepì il progetto di far sorgere in Campania una città cui avrebbe dato il nome di Platonopoli.
Oggetto del suo insegnamento rimanevano i classici, di cui, letto qualche brano, "dava in pochi tratti un'interpretazione frutto di lunghe meditazioni". Oltre agli scritti di Platone, nella sua scuola si leggevano commentavano gli scritti di Aristotele, Numenio, Attico, Gaio ed Alessandro di Afrodisia. Fino all'età di cinquant'anni non scrisse nulla, sull'esempio di Ammonio: poi, vinto dalle sollecitazioni di discepoli e amici, si decise a trattare per iscritto alcuni argomenti discussi nella scuola. Diffusi prima in un numero limitato di copie tra gli allievi, tali scritti vennero poi raccolti da Porfirio e diffusi al pubblico.
La raccolta di Porfirio è ordinata per argomenti (per quanto lo permetteva lo stile plotiniano, in cui tutti gli argomenti si intrecciano) ed è raggruppata in 6 libri, ciascuno dei quali contiene 9 trattati (Enneadi perciò, da ennéa =: 9; dove appare evidente che alla distribuzione non è estranea la mentalità pitagorica con il suo culto tradizionale per certi numeri). La prima Enneade è di contenuto prevalentemente morale, la seconda fisico, la terza verte sul cosmo, la quarta sull'anima, la quinta sull'intelletto, la sesta sull'Uno.
Lo stesso Porfirio ci dà indicazioni per l'ordinamento cronologico dei 54 scritti, senza però che se ne possa desumere una vera e propria evoluzione nel pensiero plotiniano. Ritiratosi in Campania. Plotino morì nel 270 d.C. Il problema di Plotino è quello di riuscire a risalire al semplice.
Noi vediamo che tutte le cose sono composte e che nessuna di esse è semplice, sia che provengano dalla natura, sia che risultino dall'attività dell'uomo: ma, anche se ciò che noi pensiamo è sempre complesso, vediamo subito che l'atto del pensare è semplice. Ma l'atto del pensare non è propriamente un oggetto: è un atto. Ritroviamo il grave problema dell'uno e dei molti. In una forma o nell'altra questo problema ricorre nella filosofia molto frequentemente, da quando Platone lo prospettò nel dialogo Parmenide.
A differenza del maestro della scuola eleatica, Platone si era convinto che si dovesse in qualche modo ammettere il non essere e aveva parlato della necessità di un parricidio: parricidio perché Platone si considera figlio di Parmenide nel pensare l'unità come criterio supremo dell'essere, simile al sole che illumina gli oggetti e li rende visibili: ma, appunto, per pensare l'Uno occorre pensare anche il non essere.
Senza l'unità non c'è nulla
L'esperienza suggeriva a Plotino che, nelle cose, non c'è mai qualcosa di assolutamente indivisibile, ma neppure qualcosa (o qualche aspetto) che non sia in qualche modo unitario. È indiscutibile che gli enti, per essere tali, devono avere una qualche unità. Le cose che incontriamo nell'esperienza esistono in quanto hanno una certa determinazione. Una pietra, ad esempio, è dura, tonda, nera, ecc.; e, grazie al fatto di possedere questi caratteri determinati, è, ed è pietra ("Anche nel caso della pietra, l'essere è non già essere semplicemente, ma l'esser-pietra", ecc.: Enneadi, VI, 2, 5; 42).
Se, per contro, considerassimo la materia a prescindere da ogni determinazione essa sarebbe non solo priva di ogni qualità, ma perfino di ogni quantità. Perciò, osserva Plotino, neppure esisterebbe: non avrebbe essere. Ebbene, in che cosa consistono quelle determinazioni grazie a cui la materia è qualcosa? La complessità immancabile degli enti è stretta in una unità unificante e identificante.
Non ci sono, come nei numeri, le unità al plurale e poi l'unità complessiva che le raggruppa: l'unità dell'essere non si aggiunge, ma si identifica con l'essere stesso delle cose. Non si tratta dunque di un'unità astratta e semplicemente logica, come avveniva in Parmenide, ma di qualcosa di estremamente concreto. Ma che cos'è che, come uno stampo, imprime quelle caratteristiche unitarie negli oggetti complessi?
Che cos'è che dà specificazione o qualificazione ai diversi enti, come uno stampo che, imprimendosi sulla materia, la determina? La cera, indeterminata, diventa determinata ricevendo l'unità dell'impronta attraverso un atto unitario: l'atto di imprimervi il sigillo; allo stesso modo la materia (in sé del tutto indeterminata, o pura potenza, come aveva detto Aristotele) comincia ad essere qualcosa grazie ai caratteri che le sono impressi da un atto unitario. Da buon platonico, Plotino risponde: l'idea, che può anche dirsi aristotelicamente "forma" (formante) e quindi stampo.
La sostanza era stata definita da Aristotele come "ciò che rimane durevolmente qualcosa di determinato". Alcuni accidenti mutano attraverso le vicende del divenire, ma rimane lo stesso principio della loro determinazione (come noi rimaniamo "gli stessi", pur cambiando moltissimo dalla nascita alla morte). Figlio di un medico, Aristotele vide il permanere dello stesso essere attraverso il cambiamento anzitutto nel vivente, che divenne così il modello per interpretare tutto il divenire come passaggio dalla potenza all'atto.
Plotino accoglie questa visione aristotelica, ma la ritraduce in termini platonici. A ciò potremmo obiettare l'estrema rarità del divenire organico rispetto ad una materia inerte, che non vive affatto: ma per gli antichi non era così. Nell'unico Tutto, ogni materia vive. E al vivere è essenziale l'unità: l'individuo - ossia ciò che non si può separare - vive; al contrario, in un corpo che si può spaccare l'individuo muore. Anche l'universo è un individuo che non si può spaccare. In esso vivono individui particolari, ciascuno con la sua unità, e la loro pluralità non spacca l'individualità dell'universo. Sono individui i cieli, lo siamo noi, lo sono gli altri animali e le piante. Tutte queste cose esistono in quanto vivono, e vivono grazie ad un'unità. L'unità che agisce nel mondo della vita è detta tradizionalmente "anima" (psyché).
La riflessione di Plotino sulla vita è, quindi, una riflessione sull'anima. Plotino affronta la questione in ben cinque trattati della quarta Enneade, oltre che, naturalmente, in vari altri passi. Egli ritiene che il "mondo sensibile" (il mondo dell'esperienza) sia un prodotto dell'anima. Afferrato questo concetto non sarà difficile risalire "di qui là", dal mondo sensibile al mondo intelligibile, da cui l'anima proviene.
Ciò servirà a Plotino anche per dare un'interpretazione di Platone inattaccabile dalle critiche di Aristotele, che aveva distinto anche lui l'anima dal corpo, però come inseparabile, indicandola come "la forma del corpo". Forma non vuol dire "figura" o schema, o forma geometrica, bensì forma formante e determinante (morphé). Per Plotino, non soltanto l'anima si distingue dal corpo ma viene prima del corpo. Essa, anzi, produce il corpo. Ma egli non attribuisce un significato temporale a questo "prima": "prima" significa prima nell'ordine dell'essere.
Nel caso ad esempio dell'anima del mondo, "se parliamo della sua 'entrata' e della sua 'attività animatrice' è solo a scopo didattico, poiché in nessun momento questo universo è stato senz'anima [...]: però ci è concesso di concepire l'anima e il corpo dell'universo separandoli mediante il pensiero, perché è pur concesso risolvere ogni composto nei suoi elementi". Ora, che cosa c'è "dopo" l'anima? Come un'ombra, come una luce che svanisce: "Dobbiamo pensare un'anima che sussiste eternamente, poi le cose prime e quelle che vengono dopo, le quali sono simili agli ultimi bagliori di un fuoco". Ciò che per Platone era la chora (e per Aristotele la materia prima) diviene così l'oscurità dell'anima che perde ogni determinatezza (come per l'occhio - dice Plotino - l'oscurità è la materia di ogni colore invisibile). La premessa di ciò che viene dopo l'anima è un offuscamento dell'anima stessa. L'oscurità come svanire del fuoco è la molteplicità. "Se non ci fosse corpo, l'anima non si farebbe avanti, poiché là dove essa è naturalmente non c'è luogo alcuno. Se deve farsi avanti, deve creare a se stessa un luogo, e perciò un corpo. E come il suo stabile fondarsi su se stessa si rafforzò, per così dire, sul suo stesso fondamento, ne scaturì una grande luce la quale, giunta agli ultimi confini del fuoco, si tramutò in oscurità: l'anima la vide e le diede una forma". Quindi, per Plotino non l'anima è dentro il corpo, ma il corpo è nell'anima.
Possiamo dunque dire che, per un verso, il diffondersi (ma anche l'affievolirsi) della potenza dell'anima dà luogo a quella "tenebra", o a quello spazio, in cui il corpo si costituisce. Per un altro verso la virtù formativa dell'anima raccoglie continuamente in una unità organica quel molteplice che si disperde. Si ha così un'unità indivisibile, ma fatta di parti. "L'anima universale, rimanendo in se stessa, crea mentre le cose create le vanno incontro; ma le altre anime procedono verso le cose e si allontanano nell'abisso".
L'anima è dunque un'ipostasi, cioè una sostanza. Ma vi è come una debolezza dell'anima (rispetto all'essere intelligibile di livello superiore): la tendenza, cioè, a disperdersi in una potenziale infinità di individui in seno a quell'unico individuo che è il mondo. In che rapporto stanno le anime singole con quella universale? L'anima non si può dividere in "parti", ma neppure dà luogo a semplici "funzioni" di un unico principio. Per Plotino le anime singole non sono "figlie" dell'anima universale, ma "sorelle": "ciascuna resta unità e, nello stesso tempo, tutte sono unità". Ogni anima, poi, analogamente a ciò che ha fatto l'anima universale con il mondo, elabora il proprio corpo.
Il mondo e le cose naturali nascono e periscono, ma non nel modo in cui saremmo in grado di farle nascere o perire noi. La natura, nel suo nascere, ha caratteristiche totalmente diverse da quel produrre artificiale che obbedisce alla nostra azione. Il generarsi della vita non avviene secondo i modi in cui operiamo, e cioè per uno spostamento di elementi: avviene oltre ogni nostra capacità di progettare.
Noi possiamo bensì accostare maschio e femmina propiziando una generazione sessuale (che per Aristotele era il tipo di ogni generazione), ma non possiamo ricondurre ciò che avviene in questo fenomeno a un semplice accostamento di atomi che si possano afferrare con le pinze. Anche oggi che si decifra (almeno in parte) il linguaggio con cui i viventi si trasmettono informazioni, non siamo affatto in condizione di capire in che maniera questo linguaggio "informi" in senso aristotelico. Associandosi, gli elementi compongono un corpo: e ciò è importante e necessario, ma nessun accostamento di elementi può produrre un noi. Questo "noi" non è un possibile progetto.
Ma, per Plotino, non è neppure un progetto di Dio (infatti non essendovi in Dio, che è eterno, un prima ed un poi, non si può dire che egli "progetta"). Un progetto dà sempre un risultato meccanico: ora, "quanto sia assurdo l'attribuire al meccanismo e al caso l'esistenza e la formazione dell'universo è chiaro, anche prima di ogni ragionamento". Nel nascere della vita c'è spontaneità, non progetto.
Questo si forma quando l'anima è incerta e debole, non quando "crea" proprio come avviene nelle arti: "la riflessione soccorre gli artisti quando sono incerti, ma quando non c'è alcun ostacolo l'arte domina e crea". La spontaneità del nascere coincide con il tradursi di qualcosa di unitario in un mezzo molteplice, che per un aspetto lo disperde, ma senza privarlo di ogni unità.
L'anima, dunque, si divide in un certo senso: per un verso, ad esempio, con il senso del tatto, diffondendosi in tutto il corpo, per un altro specializzandosi nelle varie funzioni (non solo sensitive, ma anche vegetative). Ciò porta a localizzare tali funzioni - dette impropriamente "parti" - una ad esempio nel fegato, un'altra nel cervello, ma con ciò non vogliamo affatto dire che l'anima entri in uno spazio. Del resto ci sono anche funzioni dell'anima - come il pensare - che non si lasciano localizzare, anche se ad esse concorre un organo più di un altro. Sicché, se l'anima dovesse concepirsi dentro il corpo, quelle funzioni ne risulterebbero fuori.
Sotto il nome di idea Platone aveva introdotto il principio della specificazione: non è quindi la materia ciò a cui dobbiamo guardare per cogliere ogni determinazione: la materia è la conseguenza del principio di specificazione. Per Plotino, insomma, l'anima singola non può specificarsi senza, al tempo stesso, diffondersi estensivamente e farsi corpo, pur restando unita. (La parola greca idéa e la latina species hanno a ragion veduta una stessa origine (= aspetto), perché entrambe esprimono l'assunzione di un aspetto particolare che si rende "visibile"). Le funzioni specifiche risultano definite in virtù di innumerevoli idee che Plotino preferisce chiamare "ragioni" (lògoi) o "forme razionali". Gli stoici avevano parlato di "ragioni seminali", come quelle che, insite nel seme, gli danno la forza di germinare e di tradursi in un organismo articolato.
Plotino adotta il termine, ma respinge il materialismo stoico che vede nei semi particelle della Ragione universale intesa come fuoco. Per Plotino l'idea di una cosa artificiale c'è, ma resta - per definizione - esterna alla cosa stessa. Ad esempio l'idea di un letto è nella testa del progettista, mentre, come abbiamo detto, le cose naturali non sono progettate. Dato che tutto ciò che vive è uno specificarsi organico dell'unità, qualsiasi specificazione del vivente (che non sia, ovviamente, accidentale) ha un'origine intelligibile che può dirsi la ragione di quel particolare. Le "forme razionali" si potrebbero far corrispondere ai "geni" della nostra genetica (come alle ragioni seminali degli stoici), purché se ne rifiuti la spiegazione materialistica.
Come l'estrema varietà dell'universo è tutta uno specificarsi dell'unità, così lo è, al suo interno, l'estrema complessità dell'individuo. La natura fa le cose in modo talmente complicato, che in ogni particolare sembra trovarsi un mondo. Senza questa complicazione nulla funzionerebbe. La natura vivente è sterminatamente complicata perché traduce in sé un principio reale assolutamente semplice.
La traduzione del semplice nel complesso non ha mai termine: quanta complicazione, ad esempio, si trova in un atto semplice come la visione? Se all'origine della visione vi fosse un congegno "primitivo", allora saremmo in grado di riprodurla: ma non è così. Non siamo in grado né di misurarla, né di riprodurla, ma dobbiamo ricondurla all'Intelligenza.
Dell'Intelligenza, però, noi non abbiamo un'esperienza diretta, ma solo attraverso quella funzione dell'anima che chiamiamo il pensare (noeîn). La funzione intellettiva si esercita nell'anima, ma è propria dell'intelletto, di cui l'anima, in un certo modo, partecipa (noesis, come funzione del nous).
Il pensare dell'anima non fa altro che rendere attuale nel tempo la potenza degli "intelligibili", cioè di quelle determinazioni che, in sé, risiedono nel nous, o Intelletto. Attuale vuol dire che si fa "presente in un certo momento del tempo qualcosa che non appartiene esclusivamente al tempo". Questo è ciò che precisamente compie l'anima quando pensa: temporalizza e, insieme, supera il tempo. Potenzialmente, col pensiero, abbracciamo tutto, attualmente solo una minima parte del mondo ideale.
È come se l'anima avesse immagazzinato nella memoria l'intero mondo degli intelligibili, ma riuscisse a riportarne alla mente solo qualche brandello: "È proprio questa potenza, con cui si ha il ricordo, quella che realizza in noi gli intelligibili? No, noi non li vediamo in loro stessi quando li ricordiamo; ma, se li vediamo in loro stessi, li vediamo con quel potere con cui li vedevamo lassù [...] Questo potere [l'Intelligenza] si ridesta contemporaneamente agli oggetti che lo destano [...] Quando noi risvegliamo questo potere possiamo vedere gli intelligibili, e perciò anche ci destiamo lassù [...] Da quanto si è detto è manifesto che la memoria comincia dal cielo quando l'anima ha abbandonato i luoghi intelligibili".
Il nostro pensiero deve particolarizzarsi perché è proprio di un'anima indigente; ma c'è un pensiero della natura più originario che il pensiero del singolo: il pensiero della natura è come un atto che, scendendo nel tempo, vi lascia un'impronta. Infatti l'intelligibile non è in sé un'impronta, bensì diviene segno o tipo o impronta quando l'anima lo porta nel sensibile.
La figura esterna - la sola che riusciamo a cogliere come oggetto - è un attenuarsi, non totale, di un movimento che in sé non ha figura, perché è un atto puntuale. Dunque, l'anima genera la natura perché guarda verso l'abisso, ossia verso la dispersione. Ma ciò che genera non sarebbe un vivente se l'anima non restasse agganciata all'unità e non la trasponesse nel corpo.
Quindi, da un lato, l'anima dev'essere nella disposizione di piegarsi verso le cose sensibili e, dall'altro, l'anima dell'universo è permanentemente rivolta verso gli esseri intelligibili. L'attenzione dell'anima al particolare (dell'anima universale, ma anche delle singole anime) la trascina verso la dispersione, senza però staccarla da quel mondo intelligibile in cui l'unità non soffre dispersione di sorta.
Se vogliamo risalire all'origine intelligibile di quei pensati, che nella nostra mente si presentano uno per volta, dobbiamo ammettere un essere esente da negatività in qualsiasi forma. Un essere cioè che non escluda. L'essere indebolito della nostra esperienza, infatti, è sempre quel che è, a patto di non essere qualcos'altro, quindi di escludere. Un essere che non abbia bisogno del non essere, per essere quello che è, è l'ipostasi che Plotino chiama Intelligenza. Per Filone d'Alessandria le idee erano prodotti del pensiero divino.
Per Plotino, invece, le idee sono, ognuna, l'Intelligenza tutta intera. "Non dobbiamo dunque cercare gli intelligibili fuori dell'Intelligenza né dire che nell'Intelligenza esistano le impronte degli esseri, né sostenere l'inconoscibilità e l'inesistenza degli intelligibili e annientare l'Intelligenza stessa". L'intelletto è ipostatico, "è il fondamento degli esseri ed è vita e pensiero. A questo essere di perfetta beatitudine tutto deve appartenere". Ogni determinazione intelligibile è tutto l'Intelletto, quindi: vi è un'identità tra Intelletto ed essere.
L'Intelligenza pensa realmente e la fa esistere. Ma l'identità "Intelligenza = Essere", insieme all'altra "Essere = tutti gli esseri". dà luogo all'ulteriore identità "Intelligenza = tutti gli esseri". Plotino porta come esempio il seme: "le forze del seme presentano un'immagine di ciò: nella sua totalità tutto è presente indistintamente, e le ragioni formali si trovano in esso come in un unico centro; e tuttavia la ragione formale dell'occhio è diversa da quella delle mani, e questa loro diversità è resa riconoscibile dall'organo corporeo che se ne genera". Il nostro pensiero opera sempre una divisione, ma non l'Intelligenza che è l'Essere e il Tutto.
Nell'Intelligenza esistono anche idee delle cose particolari? Platone si era posto la questione nella Repubblica, ma non l'aveva risolta. Per Plotino non vi sono dubbi: esistono e non ci si "deve spaventare per l'infinità dei semi e delle forme, perché l'Anima contiene in sé il tutto".
Tutto ciò che incontriamo nel mondo sensibile come forma ideale deriva dal mondo superiore: ciò che non ha forma no. Il che vuol dire che lassù non c'è nulla che sia contro natura.
Se qualcosa qui, nel mondo sensibile, appare contro natura, difettoso ed imperfetto, ciò dipende dal fatto che la ragione formale non poté del tutto, dominare la materia. Ma "del male non esiste nulla lassù, perché il male, qui fra noi, deriva soltanto da mancanza, da privazione, da difetto: esso è il destino infelice della materia". Riportate ciascuna alla totalità indivisibile dell'Intelletto come essere, le idee platoniche acquistano la loro piena funzione di essenze, cioè di infiniti modi diversi di prospettarsi dell'essere tutto intero.
L'Uno-molti dell'Intelligenza contiene tutte le possibili determinazioni, senza nessuna confusione, ma anche senza separazione. Di ciò vi è in noi soltanto un riflesso, perché, quando noi pensiamo, pensiamo coscientemente una cosa per volta, sebbene nell'inconscio siano presenti tutte. Nell'Intelligenza ipostatica, invece, i pensieri o "intelligibili" sono sempre presenti tutti attualmente: perché qui c'è l'eternità, non quella sua immagine mobile che è il tempo.
Fin qui abbiamo scoperto due ipostasi: l'Anima e l'Intelligenza. Ma l'Intelligenza, da un lato, non può surrogare l'Anima e, dall'altro, non può adeguarsi all'Uno assoluto. Le due ipostasi ne richiedono una terza. L'unità assoluta va pensata al di là di ogni determinazione possibile e pensabile; e, quindi, al di là di ogni esistente e dell'essere stesso. Vale, qui, rigorosamente, l'esigenza che i molti rimandino all'uno, perché la stessa unità dell'Intelligenza è ancora un'unità di molti, benché sussistenti come un unico essere.
C'è ancora una molteplicità intelligibile che presuppone necessariamente un'unità che non abbia più neppure questo tipo di molteplicità. Ma allora, non essendoci più pluralità di nessuna specie, è chiaro che non ci sarà più neppure pensiero: neppure pensiero di sé, perché ogni riflessività è ancora un raddoppio.
Perciò l'Uno di Plotino è al di là dell'atto puro aristotelico e più originario di esso. Di ciò l'idea platonica del Bene, che la Repubblica aveva dichiarato "al di là" delle idee - e che sappiamo identificarsi nell'insegnamento orale di Platone con l'Uno assoluto - offre a Plotino lo spunto.
Ma per Plotino l'Uno è anche al di là del Bene; almeno del bene pensabile e, quindi, al di là del pensiero e di ogni possibilità di discorso, sia pure allusivo. È vero che Plotino deve pur nominarlo questo principio, e chiamarlo con i termini platonici di Uno e di Bene: ma non senza avvertire che ciò non ci permette di pensarlo, non solo discorsivamente, ma neppure intuitivamente, come pensa l'Intelligenza. Alcuni hanno notato che la posizione plotiniana avrebbe qui, come esito di uno sforzo razionale di sistemazione di tutto il pensiero precedente, un caratteristico capovolgimento irrazionalistico. Plotino sarebbe un mistico e non un filosofo.
Tuttavia, se questo giudizio vale per altri neoplatonici, che condurranno ad esasperazione certi temi plotiniani, non lo è per Plotino. Plotino tiene ben ferma la grande affermazione platonica che il supremo principio di spiegazione dell'Essere si identifica col supremo valore, e cioè il Bene, che si diffonde per tutto quanto esiste ed accade, pur rimanendo sovranamente immobile nella sua trascendente inaccessibilità. Noi possiamo parlare dell'Uno solo attraverso successive negazioni (né pensiero, né intelligenza, né determinazione, né ... ).
D'altra parte, che Plotino avesse ereditato quella mentalità mistica che abbiamo visto progressivamente crescere nel pensiero ellenistico (sia greco che romano), e che avesse subito l'influenza - come moltissimi altri - del pensiero orientale, è certo.
Porfirio afferma, infatti, che il suo maestro viveva come se non avesse un corpo. Tuttavia ciò non fa di Plotino un irrazionalista misticheggiante, e le negazioni successive, necessarie per la conoscenza dell'Uno, vanno perciò intese nel senso della rivelazione di una superpositività, di una pienezza inclusiva.
Per Plotino l'Uno è la suprema ipostasi. Anche se qui il termine ipostasi non vuol dire sostanza, o sussistenza, poiché non gli si può attribuire l'essere, la parola "ipostasi" serve a farci comprendere che ciò che è al di là dell'essere non è meno dell'essere, ma di più: la condizione dell'Essere. Noi non riusciamo a pensare un superessere (dato che, come aveva detto Parmenide, l'essere è coesteso al pensare); ma il processo con cui arriviamo ad ammetterlo è un processo ascensivo, rispetto alle proprietà e all'intensità di essere.
Quindi, quando esso ci porta oltre l'essere, non ci porta ad un vuoto, bensì ad un pieno, e questo vuol significare la parola ipostasi. Ma anche i termini "pienezza", "superessere", ecc. nascondono una difficoltà. Noi non possiamo, in verità, pensare l'Uno. Ma a questa impossibilità giungiamo per potenziamento ed intensificazione, non per depotenziamento. L'Uno non è al di sotto (sempre parlando per metafora) di qualcos'altro, bensì al di sopra di tutto (iperipostasi, sovrasostanza, anche se sono termini, come tutti gli altri, inadeguati). Ciò che conta, e di cui possiamo parlare, è il fatto che necessariamente dev'esserci l'Uno per far essere l'essere. E questo noi lo cogliamo ancora a livello dell'Intelligenza e, quindi, di ciò che pensa e si può pensare.
Il processo per cui dall'Uno deriva l'ipostasi dell'Intelletto e da questa quella dell'Anima - e come, infine, da quest'ultima si spingano le singole anime che formano le cose - costituisce la celebre proodos, o "processione" alessandrina. Il modo con cui tale processo è concepito pone in antitesi la filosofia plotiniana con ogni concezione creazionistica di tipo biblico (e, quindi, giudaico, cristiano ed islamico).
Infatti il processo non avviene per volontà dei gradi superiori, che deliberino di far essere gli inferiori, bensì automaticamente (anche se si tratta di un termine pur sempre inadeguato), per la pienezza stessa dei gradi superiori che, senza proporselo, "traboccano" via via nei più bassi. Codesto traboccare sembra essere, a prima vista, una supposizione molto ragionevole. Infatti, ad ogni livello si trova già la totalità di quanto può esistere in quella forma: dunque, perché possa aversi ancora qualcos'altro, occorre scendere ad un livello inferiore, dotato di una forma di sussistenza diversa e meno perfetta.
Le forme superiori, già sature, non potrebbero accogliere di più. Per questa intrinseca necessità si formano quelle "ipostasi" a livelli sempre più bassi, che corrispondono a tipi di unità sempre meno stretti. Nell'Uno sono contenute tutte le possibili unità determinate, tutte le possibili forme: però, solo potenzialmente. In seno all'Uno esse non potrebbero passare in atto, senza distruggere il suo tipo (assoluto) di unità.
Ne viene che l'Uno è "attivo" senza essere "atto", e senza agire esso stesso. È attivo come potenza; ma non come la potenza di quaggiù, che è meno dell'atto, bensì di una potenza che è oltre l'agire. L'Uno è in potenza, "le cose che da lui si irraggiano", mentre non è queste cose in atto. È tutte le cose in atto, invece, l'Intelletto. I cristiani, mentre porranno l'Uno e l'Intelletto universale allo stesso livello (identificandoli con Dio), profitteranno però non poco di Plotino per pensare in Dio una potenza attiva e positiva, tutto l'opposto della potenza "passiva" di Aristotele.
Lo stesso Aristotele, tuttavia, aveva teorizzato Dio come ciò che suscita il movimento senza muoversi esso stesso: e ciò si trova nell'Uno di Plotino. Perché, dunque, le forme determinate dell'unità (cioè le idee) sussistano anche in atto, occorre passare a un livello inferiore: quello dell'Intelletto. Questo è unitario, però non allo stesso modo dell'Uno. L'Intelletto è uno, ma in modo diverso dall'Uno. Esso accoglie una "certa" molteplicità - come abbiamo visto - ma solo dentro di sé e non fuori di sé allo stesso livello.
Tutte le differenze saranno interne: sarà uno e tutto, una semplicità di infinite specificazioni. È questa l'origine delle idee. Ma, a questo punto, se le diverse specificazioni ideali han da sussistere ancora in un altro modo, cioè in una separazione, dovremo scendere di nuovo a un livello inferiore. Così si forma l'anima che è a sua volta un "tutto", però un tutto che ha la capacità di distribuirsi in infinite anime, fino a singolarizzarsi in più individualità.
A loro volta le infinite anime, quasi colte da vertigine - come diceva Platone nel Fedro: sollecite dell'inanimato -, cadono nell'abisso della materia. Abbiamo anche visto come questa "caduta" non comporti quasi un "entrare" delle anime in corpi materiali. L'abisso della materia vuol dire, per Plotino, una sorta di vuoto nel quale le anime, sporgendo fuori da se stesse, cadono formando i corpi.
Anche quest'ultimo passo, dunque, non avviene per una volontà deliberata dell'anima, bensì necessariamente: sebbene non più tanto per una "pienezza" delle anime, quanto piuttosto per un difetto rispetto all'unità dei livelli superiori. In primo luogo, l'anima del mondo forma il corpo del mondo intero; in secondo luogo le anime che non possono prender corpo nel mondo tutto intero si staccano reciprocamente, e formano corpi parziali, che moltiplicano all'infinito le individualità organiche.
La molteplicità delle loro parti è sempre tutta collegata organicamente in unità, perché non è altro che il manifestarsi esteriore dell'unità di un'anima, che la costituisce. C'è quindi una processione dall'Uno alla molteplicità attraverso le ipostasi successive, ma c'è anche un "ritorno" da qui a là.
Richiamandosi alle antiche teorie di Platone e di Aristotele, la filosofia plotiniana si contrappone deliberatamente, come filosofia dell'Intelletto (nous) e delle idee (o lógoi), alle filosofie dello spirito rappresentate dal filonismo ebraico, dallo stoicismo e dal cristianesimo. Quando parla di spirito (pneuma), Plotino intende ancora il soffio del fuoco stoico: e lo respinge poiché lo vede come espressione di una concezione essenzialmente materialistica, incapace di cogliere quel principio di tutto che è l'unità.
Ma Plotino rifiuta anche - sia pure implicitamente: saranno poi i suoi allievi ad attaccare direttamente i cristiani - lo spirito qual è concepito dai cristiani, cioè come amore divino che giunge fino al punto di farsi presente, per un disegno provvidenziale, nel mondo. Il prodursi del mondo, e la traccia che in esso si trova dell'unità divina, non rientrano per Plotino in un disegno provvidenziale ma sono il risultato di un processo necessario, che si spiega per la natura stessa dei termini che vi intervengono.
Plotino ammette bensì una sorta di "provvidenza", perché vuole escludere che il mondo sia frutto del "caso", ma questa sua provvidenza non riguarda i particolari, bensì solo l'ordine che, necessariamente, si stabilisce ai livelli inferiori, per il fatto stesso che essi riproducono a loro modo l'unità dei livelli superiori e ne sono l'immagine, in forma sempre più dispersa.
Ciò non significa dunque che il superiore (e l'Uno in particolare, che è superiore a tutto) provveda, con la sua volontà, a ciò che sta più in basso, né che lo ami e neppure, semplicemente, che se ne accorga. In ciò Plotino è molto aristotelico. Amare l'inferiore, infatti, sarebbe indegno del superiore; e anche il semplice occuparsene sarebbe già un difetto, che non può trovarsi nel mondo ideale. Ciò che è più in basso non esiste, quindi, per un atto d'amore di ciò che è più in alto; e Plotino è ingegnosissimo nel cercar di spiegare, con puri concetti, l'esistenza di livelli via via digradanti, senza mai far intervenire un'intenzione diretta ad essi, da parte di ciò che è più in alto.
Tuttavia un'assurdità fondamentale rimane, assumendo questo punto di vista: perché dall'Uno non si dovrebbe poter uscire, neppure per scendere più in basso. Invano Plotino ci dice che l'Uno è così pieno che trabocca: poiché ciò comporterebbe un'incapacità dell'Uno a contenere se stesso. Invano ci dice che "irradia" o "emana" l'Intelligenza: perché, per emanare, l'Uno dovrebbe avere un "fuori" che non ha. Tanto che Plotino, più sinceramente, è costretto a dire che l'Intelletto "ha l'ardimento di staccarsi non so come dall'Uno".
I filosofi cristiani contemporanei o successivi, pur prendendo moltissimo da Plotino, cercheranno di affermare ciò che Plotino stesso avrebbe avuto difficoltà ad ammettere: quell'amore di Dio per le creature (sia pure in senso "analogico") che distingue il Dio dei cristiani (che è quello di Abramo e di Giacobbe) da quello dei filosofi.
Tentate di staccarsi l’una dall'altra e di diffondersi nella materia, le anime tuttavia conservano, per la loro natura ideale, una radicale unità con se stesse e le altre anime.
E quindi conservano anche il desiderio di risollevarsi dalla loro caduta materiale, e di riunirsi tutte insieme come Anima universale, riavvicinandosi per quanto possono all'Uno. Il fatto stesso che non esista alcun essere, per quanto degradato, che non sia in qualche modo unitario fa sì che in tutto ciò che è rimanga una sorta di nostalgia dell'Uno: nostalgia tanto più forte, quanto più l'ente che la prova è elevato.
Questa nostalgia riesce a svilupparsi in un effettivo ritorno verso l'Uno nell'uomo, che, tra gli esseri corporei, è quello che può prenderne più pienamente coscienza. Molti esseri vi sono, superiori all'uomo: ma quando il processo ha toccato il suo fondo nella materia, allora quell'ente che si risolleva, tornando a volgersi verso l'alto (e dando luogo, così, alla epistrophé, o "conversione") è l'uomo.
L'anima dell'uomo, per un certo aspetto, "si ripartisce nel corporeo"; ma per un altro verso è "un'essenza indivisibile" che, come tale, non può perdersi. Essa è immortale e destinata a ricongiungersi con il suo principio, da cui non si è mai staccata completamente.
Grandi, tuttavia, sono le difficoltà che il corpo frappone a questa aspirazione dell'anima a "fuggire verso la cara patria", cioè verso quella nostra vera sede che non è "qui", ma "là" (come aveva detto Platone nel Teeteto), nel mondo intelligibile: sicché l'ascesa verso il Bene è lunga e difficile. Condizione prima di tale ascesa è il distacco affettivo dal corpo, cioè la purificazione dalle passioni, che permette all'anima di concentrarsi in se stessa. La musica conduce poi l'anima dall'armonia sensibile a quella intelligibile, e l'eros platonico la guida verso la bellezza dell'idea.
A questo punto la contemplazione riporterà l'anima al livello dell'Intelletto, cioè ad una visione immediata delle essenze. Tale contemplazione è ben più che un "ragionamento" sull'intelligibile. Il ragionare dialettico è indispensabile alla nostra filosofia, ma solo come strumento dell'intuire: il suo moto deve metterci in condizione di cogliere quel particolare e superiore tipo di movimento "in quiete" che abbiamo visto proprio dell'Intelletto, che si muove in sé come il pensiero, essendo al tempo stesso tutte le idee e ciascuna di esse singolarmente.
L'ultima tappa del "ritorno" (reditus che fa seguito all'exitus dall'Uno) dovrebbe portare a ricongiungerci con l'Uno: ma, a tanto, la stessa visione intellettuale non basta più. Occorre l'estasi, cioè l'uscita da se medesimi e da ogni determinazione, in una totale solitudine dove, in rari momenti, a qualche anima superiore, dimentica di sé e di ogni altra cosa, può accadere di incontrare l'"ineffabile". In questo esito mistico traspare lo spirito più profondo della filosofia plotiniana: il disagio di trovarsi in un mondo fatto di dispersione, il senso di essere quasi avulsi dalla propria radice (che è l'unità), il rimpianto di non potervi stabilmente tornare.
A Plotino avvenne talvolta di cadere in estasi: ma è chiaro che, almeno in questa vita, la nostalgia per l'Uno non può rimanere, per lo più, che un desiderio, trovando un modo di placarsi, ancora insufficiente, solo nella contemplazione. Per questo l'atteggiamento di Plotino, pur nel suo entusiasmo, è venato di una tristezza che il greco classico, dalla vita così incerta e travagliata, tuttavia non conosceva.