Il 1348 è considerata una data capitale nella storia della società medievale. In quell'anno, infatti, raggiunse il suo culmine un'epidemia di peste, cominciata nel 1347 nella regione del Mar Nero, che avrebbe infierito fino al 1350. Fu un flagello immane, che ridusse la popolazione europea da 80 milioni di persone a non più di 55 milioni. L'ammontare delle perdite provocate dal morbo fu, però, sensibilmente diverso a seconda delle regioni e anche delle città. Sappiamo che in Inghilterra l'epidemia uccise circa un quarto della popolazione, in Francia fra uno e due terzi, in Italia tra un quarto e la metà.
Particolarmente gravi furono gli effetti del morbo nelle città dell'Italia centrale e meridionale, mentre al Nord i danni furono meno pesanti e una grande metropoli come Milano fu miracolosamente risparmiata. La peste paralizzò la vita economica, sconvolse gli usi sociali e imbarbarì la sensibilità collettiva. I sopravvissuti raccontano della fuga dei più ricchi e previdenti dalle città infette, di uomini, donne e bambini abbandonati anche dai parenti più stretti e lasciati a morire da soli, di mucchi di cadaveri gettati in fosse comuni coperti di calce.
Testimoniano anche lo stupore, lo sgomento e l'impotenza dei contemporanei di fronte a una tragedia volta a volta attribuita alla collera divina, alla "corruzione" dell'aria, alla malvagità di untori ebrei o ad una funesta congiunzione astrale. Non dicono però - perché non potevano saperlo - che si trattava solo dell'inizio di un ciclo di epidemie destinato a durare molto a lungo.
In quell'anno, il 1348, il caldo giunse fin troppo in anticipo in Italia e, come tutti credevano allora, il ristagno di quell'aria sempre più torrida avrebbe aggravato ulteriormente le cose. Tutti sapevano, ma nessuno era veramente preparato all'impatto dell'epidemia: già da mesi si era a conoscenza di ciò che stava accadendo. Fin dall'autunno precedente, infatti, la peste aveva aperto enormi vuoti nella popolazione della Sicilia, così come stava accadendo alle città costiere ed alle isole dell'intero Mediterraneo: poi, dall'inizio del 1348 fu la volta dell'entroterra e, da allora, nessuna città poté veramente dirsi al sicuro. Così, nel corso di quella mite primavera, Pisa, Firenze, Pistoia, Siena, Orvieto, Modena, Bologna, Rimini ed infinite altre città, borghi, villaggi grandi e piccoli dell'Italia centro-settentrionale dovettero confrontarsi - come avvenne poi nel resto del continente europeo - con un evento le cui conseguenze avrebbero profondamente marcato gli equilibri sociali, economici e politici del secolo successivo alla metà del Trecento.
La peste, la "morte nera", nelle sue innumerevoli macabre sembianze, era presente ovunque: in molte parti dell'Inghilterra, ad esempio, dove sarebbe scomparso quasi un terzo della popolazione - come raccontava un testimone oculare - "i cimiteri più non bastavano ed alcuni campi furono destinati a dar ricetto ai morti". All'improvviso, la paura dominò ogni altro sentimento, perché, come scrisse un senese che si sarebbe trovato a seppellire cinque figli con le proprie mani, "il padre abbandonava il figlio, la moglie il marito, l'un fratello l'altro".
Tanta era la paura del contagio che, anche qui, aveva spinto a disfarsi rapidamente di decine e centinaia di cadaveri in fosse comuni aperte anche nelle piazze cittadine. Intanto, su tutto, scese un chiaro, insistente ed innaturale silenzio.
Ne L’Autunno del Medioevo, lo storico olandese Johan Huizinga scriveva che, alla fine del medioevo, i contorni delle cose apparivano disegnati molto più nettamente di quanto appaiano oggi. Il contrasto fra gioia e dolore, felicità e avversità risultava più marcato e così il confine tra malattia e salute. Il freddo dell'inverno e le tenebre erano più intense, le calamità e l'indigenza affliggevano gli uomini con più forza. La situazione di due o tre secoli prima non doveva essere troppo diversa. Anche prima che si riaprisse il ciclo delle grandi epidemie, la durata media della vita non superava di molto i trent'anni e chi arrivava a quaranta o cinquanta era scampato miracolosamente ad una serie di minacciosi nemici.
Partito dal Turkestan, il bacillo della peste, che era misteriosamente scomparso dall'Occidente fin dall'VIII secolo, cominciò a manifestare i suoi effetti nel 1347 a Caffa, una colonia genovese sul Mar Nero. Furono poi navi genovesi a trasferirlo dapprima a Messina, poi nella stessa Genova. Da lì, in pochi mesi, si diffuse in tutta Europa. L'epidemia fu di due tipi: la peste bubbonica, che si trasmetteva attraverso le punture delle pulci (che si insediavano prima nei topi e da qui nell'uomo), e quella polmonare, che si trasmetteva direttamente, da uomo a uomo, attraverso il respiro e i colpi di tosse. Di fronte ad un flagello di proporzioni così immani, le reazioni dei contemporanei furono, all'inizio, soprattutto di panico. La gente, in preda al terrore, abbandonava al destino anche i propri congiunti: "Come uno si ponea in sul letto malato" - racconta il cronista fiorentino Marchionne di Coppo Stefani - "quegli di casa sbigottiti gli diceano: io vo per lo medico, e serravano pianamente l'uscio da via e non vi tornavano più". Altri descrivono lo spettacolo dei morti per le strade, delle botteghe chiuse, dei rari funerali deserti. "Non come uomini ma quasi come bestie morivano", è l'impietoso commento di Giovanni Boccaccio nel Decameron.
Solo lentamente, e innanzitutto nelle città, si cominciarono a mettere in atto delle misure per limitare l'epidemia. Una volta intuiti i suoi meccanismi di diffusione, infatti, si cominciò a tenere pulite le strade, a dare la caccia agli animali erranti, a vietare gli assembramenti, a chiudere le porte agli stranieri (e soprattutto ai mendicanti) e a reclutare medici pagati dalla municipalità.
Alla peste del 1348 ne seguirono numerose altre e ad esse si associarono, nei decenni successivi, tutta una serie di altre affezioni non sconosciute ai secoli precedenti, ma che vennero ad assumere una virulenza molto superiore: così gli orecchioni, la varicella, la scarlattina, la meningite (che colpiva soprattutto bambini e adolescenti), il tifo, il morbillo, la tubercolosi, il vaiolo. Fra il 1326 e il 1400, si registrarono in Germania trentadue anni di epidemie, trenta in Inghilterra fra il 1351 e il 1485, trentasette in Italia fra il 1361 e il 1502. Sul piano demografico, l'impatto di questi diversi morbi fu devastante, più nelle città che nelle campagne. Ciò è facilmente spiegabile con il fatto che le concentrazioni urbane favorivano il contagio. In città, tuttavia, la ripresa era resa più pronta dall'arrivo di immigrati, mentre in campagna gli effetti furono più duraturi. Tutta una serie di piccoli centri, ripetutamente falciati dalle epidemie tre-quattrocentesche, scomparvero. È il cosiddetto fenomeno dei "villaggi abbandonati", particolarmente forte in Germania, dove i 170.000 insediamenti umani del 1300 divennero 130.000 nel 1500.
Anche in Italia, e particolarmente in Sardegna e nel Mezzogiorno continentale, molti centri abitati vennero meno. Nelle città della penisola, il quadro degli effetti delle epidemie sulle popolazioni fu assai differenziato. L'Italia padana, con il suo triangolo costituito da Genova, Milano e Venezia, superò la crisi con perdite contenute e soprattutto rapidamente, visto che già nei primi decenni del Quattrocento la popolazione urbana cominciò decisamente a risalire; in Toscana, la ripresa della popolazione cominciò solo dopo la metà del Quattrocento e i centri urbani recuperarono solo una parte della popolazione che avevano all'inizio del XIV sec.: nei casi migliori, superarono di poco la metà della consistenza che avevano prima della peste; nei casi peggiori, uscirono così ridimensionati da non essere più considerati città: così accadde per San Gimignano, Volterra, Massa Marittima.
Nella società europea del basso medioevo, una larga parte della popolazione viveva in povertà, pressoché indifesa di fronte ai numerosi flagelli che l’esistenza quotidiana proponeva. Un'alimentazione monotona e, non di rado, insufficiente, livelli di vita bassi e sperequati, condizioni igieniche disastrose e una profonda inadeguatezza delle conoscenze sanitarie determinavano, infatti, l'insorgenza di molte e gravi malattie. Diffusissima era la scrofolosi, una forma di tubercolosi linfo-ghiandolare conosciuta come "male del re" per la credenza che i sovrani di Francia e d'Inghilterra potessero guarirla, con il solo tocco della mano; il "male degli ardenti", detto anche "fuoco sacro" o "fuoco di sant'Antonio", un'intossicazione alimentare provocata dal consumo di farina di segale contaminata da un fungo e che si manifestava con febbre altissima spesso associata a convulsioni, dolori e bruciori insopportabili (da cui i diversi nomi), necrosi e cancrene del volto e degli arti e delirio.
Ancora, la malaria, favorita dal disordine idro-geologico di molti territori di pianura, inesorabile soprattutto con i più piccoli e, naturalmente, la lebbra, che, a dispetto della sua natura poco contagiosa, era temutissima ed esorcizzata con crudeli rituali di espulsione dei malati dalle comunità. Povertà e malattia costituivano spesso un binomio inscindibile.
Elementi caratteristici del paesaggio urbano, i poveri nel medioevo erano coloro che non mangiavano carne e non bevevano vino, che non disponevano di olio ed avevano poco pane, coloro che chiedevano l’elemosina per vivere e non avevano un luogo dove dormire; erano i vagabondi senza mestiere che vivevano nella sporcizia, coperti di stracci che li accompagnavano in tutte le stagioni dell’anno; erano gli infermi, i ciechi, gli storpi che bivaccano agli angoli delle vie o di fronte ai sagrati delle chiese. Immagine ammonitrice di ciò che ognuno sarebbe potuto diventare se la ruota della fortuna - simbolo forte dell'immaginario medievale - avesse invertito il suo corso.
Nella seconda metà del Trecento, anche in seguito agli sconvolgimenti economici e sociali provocati dalle epidemie, si assistette ad una polarizzazione della ricchezza e allo sviluppo di una connessione sempre più stretta fra marginalità e criminalità. Da creatura umile e beata, il povero divenne, nell'opinione corrente, sospetto e pericoloso, bugiardo e violento, ribelle e propagatore di epidemie.
Buoni e cattivi poveri, dunque, in un’opposizione che mirava a dividere i veri bisognosi, che agivano per necessità o in una effettiva condizione d’inferiorità fisica, dagli impostori e dai simulatori: da quanti - secondo una fonte ufficiale francese - si fingono affetti dalle malattie più diverse e, a questo scopo, "usano vari stracci per imbottire i vestiti, incollano sul corpo un misto di farina, gesso, zafferano e sangue di animali, appendono ai piedi e alle mani resti di catene di ferro, avvolgono il capo in stracci, indossano abiti ripugnanti, sozzi e puzzolenti".
L'atteggiamento nei confronti dell'emarginazione sociale, in altre parole, andò progressivamente razionalizzandosi attraverso nuovi parametri che individuavano chi, tra i diversi, poteva beneficiare della preziosa assistenza che gli organi preposti dalle singole comunità riservavano agli indigenti. Leggi, provvedimenti e rubriche statutarie vennero disposti in materia di vagabondaggio in molti paesi europei. Nel 1349, in Inghilterra, uno statuto vietava di elargire elemosine ai mendicanti fisicamente validi, mentre in Francia, dalla fine del XIV agli inizi del XV secolo, si susseguirono ordinanze reali e municipali che contenevano misure speciali per colpire il vagabondaggio.
Disoccupati e sfaccendati finirono per essere accusati, un po’ ovunque, di turbare la quiete pubblica, incendiare le case, fomentare risse e, conseguentemente, per essere considerati alla stregua dei ribelli politici, di coloro, cioè, che, con il loro comportamento, destabilizzavano quello schema armonico della pace, del lavoro e della fatica che Dio aveva disegnato per l’uomo.
Alle trasformazioni in atto fra Due e Trecento nella società rurale italiana ed europea si sovrappose, nel corso del XIV sec., una congiuntura sempre meno positiva. Le campagne erano particolarmente colpite dalle distruzioni provocate da una nuova stagione di guerre (prima fra tutte la "guerra dei cent'anni", che impegnò fra il 1337 e il 1453 francesi e inglesi) e paradossalmente erano meno al riparo dalle carestie, dove i poteri pubblici si sforzavano di supplire con politiche di approvvigionamento alle difficoltà alimentari. Gli effetti della peste nera e delle successive ondate epidemiche avevano poi determinato una situazione di grave alterazione della vita economica. Il calo dei prezzi dei prodotti agricoli e delle rendite signorili conseguente alla diminuzione della popolazione provocò, infatti, un'erosione dei redditi dei proprietari, mentre l'aumento delle retribuzioni e il conseguente miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori non fu duraturo, perché i governi presero quasi immediatamente delle contromisure per contenerlo. Anche se è difficile stabilire precise relazioni causali, è in questo clima di turbamento che si verificarono numerose esplosioni di malcontento sociale. Gli episodi più gravi non riguardarono però l'Italia, ma la Francia e l'Inghilterra. Quella che fu definita come jacquerie fu un movimento contadino scoppiato nel 1358 nell'Ile-de-France e da qui diffusosi in Piccardia, Normandia, Champagne e nella stessa Parigi.
L'obiettivo dei rivoltosi era quello di estromettere dal potere i nobili, fino ad allora considerati degli intoccabili ed ora accusati d'incapacità per le molte sconfitte riportate a opera degli inglesi. Nonostante la sua estensione, l'insurrezione fu domata nel sangue. Anche la rivolta accesasi in Inghilterra nel 1381, il cui elemento scatenante fu l'imposizione di una nuova tassa sulle persone, fu domata, ma scosse profondamente il paese. Come nell'episodio francese, il movimento si trasmise dalle campagne alla capitale, forte di precise rivendicazioni sociali, legate anche alla diffusione delle idee di alcuni preti ribelli che predicavano l'eguaglianza sociale e il comunismo dei beni.
Che quella abbattutasi sull'intera Europa di metà Trecento fosse una punizione divina fu un pensiero che sfiorò molti di coloro che erano riusciti a restare indenni nella furia del morbo. A questo fa pensare l'alto numero di testamenti dettati proprio nei mesi di maggior incidenza del contagio o ancora il moltiplicarsi di confraternite devozionali e congregazioni religiose nel corso della seconda metà del XIV sec.
Questi, a ben vedere, sono i rari indizi rimastici intorno all'immane disastro che aveva colpito l'intero continente perché ben poche furono le iniziative prese, nell'immediato, nel tentativo di reagire o di far fronte ad una situazione rispetto alla quale tutti - individui, famiglie, comuni o re - erano assolutamente impreparati. Del resto doveva essere pressoché impossibile far fronte allo spopolamento delle campagne, all'abbandono di interi villaggi ed allo sconvolgimento sociale di città svuotatesi dei propri abitanti e nuovamente abitate dalla folla di chi vi era stato attirato nella speranza dell'assistenza pubblica.
La vita sembrò riprendere, soltanto pochi mesi dopo, ma con un ritmo ed una frenesia giustificati soltanto dalla grande voglia di ricominciare dei superstiti, facilmente intuibile - per limitarsi ad un solo esempio - dall'incremento del numero dei matrimoni con cui si cercò di far fronte agli sconvolgimenti causati dai decessi all'interno di ogni famiglia. Un anno dopo la grande morìa che aveva colpito Firenze, costringendo alla fuga in campagna chi - come i giovani del Decameron - era stato in grado di farlo, c'era chi poteva scrivere che, da un punto di vista patrimoniale, le cose stavano andando discretamente bene, al punto da far pensare a futuri e lucrosi investimenti.
I danni della passata tempesta erano sul procinto di divenire gli elementi sui quali i superstiti avrebbero dato avvio ad una lenta ma efficace ricostruzione, che si compì anche con l'esperienza di nuovi rapporti sociali e di lavoro.
Mai sino ad allora - proseguiva una lettera scritta dall'arcivescovo di Canterbury nell'anno 1350 - si era assistito a simili dimostrazioni di sfrenata cupidigia da parte dei contadini, che pretendevano un innalzamento dei compensi per continuare a coltivare le stesse terre su cui avevano già lavorato essi stessi, i loro padri ed i loro nonni. Lo sconcerto del prelato doveva essere in tutto simile a quello di centinaia di migliaia di piccoli, medi o grandi proprietari terrieri costretti a confrontarsi, all'indomani della grande epidemia del 1348, con l'inesorabile decremento demografico che aveva coinvolto le campagne privandole di un alto numero di lavoratori.
Così, per chi del salariato urbano e della mano d'opera contadina era riuscito a sopravvivere, la scarsità di braccia si era trasformata in un potente argomento spendibile sul tavolo della contrattazione di nuovi rapporti di lavoro, come aveva appunto notato, con stupore, l'arcivescovo di Canterbury. Le richieste di salari più alti si accompagnavano inoltre a quelle che tendevano al miglioramento delle condizioni di lavoro, a ridiscutere l'obbligo e la qualità della residenza sui poderi e sulle terre e a rivedere il ventaglio, talvolta ampio, di clausole contrattuali spesso vessatorie per i lavoranti.
Dalla metà del secolo, dunque, si era aperta per i lavoratori una piccola "età dell'oro": l'innalzamento dei salari, ad esempio valutato a Bologna intorno al 250% per quelli minimi, stava spingendo un'intera collettività verso una più alta qualità sia della vita sia dei consumi, se, com'è stato dimostrato per l'intera Europa, contrariamente al passato, nessuno voleva ormai mangiare del pane che non fosse bianco e di frumento. Di fronte a questo profondo sconvolgimento degli equilibri che avevano tenuto in piedi un'intera società fino all'epidemia del 1348, non si poté fare altro che dimenticare, almeno momentaneamente, il risentimento per una simile insolenza, nell'attesa di tempi più propizi ad una nuova inversione di tendenza.
Coloro che avevano idealmente condiviso i sentimenti dell'arcivescovo inglese sarebbero stati però anche testimoni dei tentativi da parte dei lavoranti della lana di Firenze, dei contadini francesi o di quelli inglesi di opporsi alla restaurazione degli ormai vecchi equilibri sociali sovvertiti dagli eventi di metà Trecento.