Timeo

Il Timeo, scritto intorno al 360 a.C. da Platone, è il dialogo platonico che maggiormente ha influito sulla filosofia e sulla scienza posteriori. In esso vengono approfonditi essenzialmente tre problemi: quello cosmologico dell'origine dell'universo, quello fisico della sua struttura materiale, ed infine quello, anche escatologico, della natura umana. Ai tre argomenti corrispondono altrettante parti in cui è possibile suddividere l'opera, alle quali va aggiunto il prologo.

Platone presenta questo dialogo come tenuto il giorno dopo di quello de La Repubblica. Il Timeo descrive la costituzione della natura come il quadro in cui dovrebbe collocarsi la storia degli uomini;e da questo punto di vista il suo tema di fondo è quello di tutti i dialoghi della tarda maturità di Platone: la mediazione tra le Idee e la realtà molteplice. Alla conversazione partecipano Socrate, il pitagorico Timeo di Locri, Ermocrate e Crizia; Socrate esprime il desiderio che la città ideale che si era teorizzata il giorno precedente venga ora presentata in azione, come vivente. Allora Crizia inizia il suo racconto, appreso da suo nonno, dell'antica Atene di 9000 anni prima, che nella sua magnificenza era riuscita ad opporsi all'espansionismo di Atlantide. In seguito si stabilisce su cosa verterà il dialogo di quel giorno, delineando i temi fondamentali di questo scritto. Termina qui la parte propriamente dialogica dell'opera, per dare inizio ad una lunga e complessa trattazione ad opera del solo Timeo, personaggio forse fittizio (ne fa cenno solo Platone in questo dialogo) introdotto come rappresentante della dottrina pitagorica alla quale Platone si ispira per spiegare l'ordine dell'universo. Il pitagorismo entra dunque nella tarda riflessione di Platone sulle Idee integrandone alcuni punti (e non poteva essere diversamente visto che il tema centrale è quello dell'Uno e del molteplice, cioè numeri) ma anche modificando la stessa struttura del mondo ideale partendo dal concetto di misura. 

La rivalutazione della doxa naturale

Se nei primi dialoghi, fino alla Repubblica, il prevalente interesse etico-politico di Platone appariva evidente (e sembrava motivare e orientare la stessa indagine metafisica), nei dialoghi tardi (come il Politico e le Leggi) esso, pur senza scemare del tutto, lascia maggiore spazio all'indagine propriamente scientifica, speculativa, e perfino naturalistica.

C'è chi ha visto in questo spostamento di interessi (oltre a una conseguenza delle ricerche condotte nell'Accademia, a cui vennero chiamati a collaborare scienziati e matematici insigni) una progressiva attenuazione della rigida separazione tra mondo delle idee e mondo dell'esperienza e una rivalutazione del concetto di doxa scientifica. Accanto all'epistéme, alla scienza fondata su principi ideali, Platone sembra ora, nel Timeo, far posto all'opinione vera, propria della conoscenza naturale e dell'esperienza. 

TI.:  Ora, i discorsi hanno una affinità con l'oggetto che manifestano? perciò il discorso su ciò che è stabile, saldo in se stesso e visibile all'intelletto, anch'esso è saldo e incrollabile e, per quanto possibile, inconfutabile e invincibile. (c) II discorso su ciò che raffigura il modello e ne è l'immagine, invece, sarà verosimile, secondo questa proporzione: che la credenza sta alla verità come il divenire sta all'essenza. Ma di discorsi di questa natura ci dovremo accontentare, ricordando che io che parlo (d) e voi che giudicate abbiamo una natura umana, e non cercare più in là. SO.: Molto bene, Timeo, è certo così. Abbiamo ammirato il preludio; facci ora sentire il tuo canto. 

La doxa non è più opposta alla verità, come sinonimo di errore o di sapere sofistico, ma si distinguono e si valorizzano, in essa, taluni aspetti che l'avvicinano alla verità. Non solo nell'ambito della vita pratica, in cui se ne era sempre riconosciuto il valore, ma anche nella scienza trova spazio e significato la distinzione tra opinione vera e falsa. Questa distinzione assegna all'opinione vera (da cui lo studio della natura non può prescindere) un ambito distinto e provvisorio di validità, non incompatibile - anche se non coincidente - con quello della verità filosofica. Va però aggiunto che tale processo non giunge a conclusione in Platone: il suo ideale della conoscenza rimane in definitiva legato a un'idea intellettualistica, non empiristica, di verità.

 In questo dialogo, Platone presenta la propria riflessione intorno alla costituzione del cosmo naturale attraverso il racconto della genesi e del processo di produzione del mondo da parte di un divino artefice (un Demiurgo, come vedremo).

Solo le idee (e, in misura minore, le verità matematiche) sono conosciute a priori dall'intelligenza, ossia senza il ricorso all'esperienza. Pertanto, possono diventare oggetto di un sapere deduttivo, qual è la dialettica filosofica. Essa infatti "discende" da un'idea all'altra, ricava una verità particolare da un'altra verità più generale, senza fare riferimento all'osservazione o alla conferma dei sensi. La natura, invece, ci è nota attraverso la sensazione e la conoscenza, che da tale base prende le mosse, non può pretendere di raggiungere la certezza dimostrativa di un sapere definitivo. La scienza naturale è dunque un sapere congetturale e probabile, che non giunge, come la filosofia, a una verità assoluta.

Ciò non esclude, tuttavia, che anche la conoscenza della natura possa avvicinarsi per gradi all'esattezza della conoscenza filosofica, se assume come ipotesi verosimile l'esistenza di una struttura razionale, di un modello ideale che ha presieduto alla sua formazione.

TI.: Diciamo allora quale fu la causa per cui l'artefice ha dato luogo al divenire e all'universo. (e) Egli era buono e in chi è buono non nasce mai nessuna invidia per nessuna cosa. Puro da invidia, dunque, egli volle che tutte le cose fossero, per quanto possibile, simili a lui. Chi accoglie come fondamentale questo principio della generazione del mondo, (30a) che dicono i saggi, fa molto bene. Dio infatti, volendo che tutte le cose fossero buone e nessuna, per quanto possibile, fosse cattiva, prese quanto era visibile e non aveva quiete ma si agitava in modo confuso e disordinato, e dal disordine lo portò all'ordine, giudicando questo assolutamente migliore di quello. Infatti, l'essere più perfetto non può mai fare altro se non ciò che è più bello. (b) Egli dunque considerò che dalle cose visibili non avrebbe potuto formarsi un insieme senza intelligenza che fosse più bello di uno intelligente, e che d'altronde è impossibile che l'intelligenza si trovi in qualcosa senza anima. Su questa base egli mise l'intelligenza nell'anima e l'anima nel corpo, e così costruì l'universo, in modo che la sua opera fosse per sua natura la più bella e la più buona. Così dunque, secondo un ragionamento verosimile, dobbiamo dire che questo mondo è un essere vivente, dotato di anima e di intelligenza, generato ad opera della provvidenza di Dio. (c) Posto ciò, ora dobbiamo dire a somiglianza di quale essere vivente l'artefice ordinò il mondo. Certo non dobbiamo credere che lo abbia fatto a somiglianza degli esseri che di per sé sono parti di un tutto, perché nulla che sia fatto a somiglianza di cosa imperfetta può essere bello; viceversa, dobbiamo considerarlo fatto a somiglianza soprattutto di quello di cui tutti gli altri esseri sono parti. Questo modello infatti contiene in sé tutti i viventi intelligibili, come il nostro (d) mondo contiene noi e tutti gli altri viventi visibili. Volendo dunque Dio farlo simile al più bello e perfetto degli esseri intelligibili, lo ha fatto come un unico vivente visibile, che ha dentro di sé tutti gli altri viventi, che per natura gli sono congeneri.

Le idee numero

Già i pitagorici, affermando che le cose sono numeri, avevano introdotto l'esattezza matematica nel cosmo naturale, l'ordine nel disordine. Platone, nel Timeo, sembra appunto rifarsi al modello pitagorico. Per spiegare il divenire naturale, fisico e biologico (il mutamento dei corpi e il prodursi della vita) Platone ipotizza che, nella materia caotica delle origini, sia stato introdotto un ordine a opera del divino Demiurgo.

TI.:  Se le cose stanno così, dunque, (52a) va ammesso che esiste una specie di realtà sempre identica a se stessa, ingenerata, imperitura, che nulla accoglie da fuori, che mai si trasforma in altro, non visibile né percepibile con altri sensi, ma solo con l'occhio della mente; e che esiste una seconda specie di realtà, che ha lo stesso nome ed è simile ad essa, ma è sensibile, generata, sempre in movimento, e nasce in un certo luogo e in un certo luogo perisce, ed essa è oggetto di opinione e si apprende con la sensazione. E va ammesso anche che c'è una terza specie di realtà, lo spazio, che è sempre e non è soggetta a distruzione, (b) e serve da sede a tutte le cose che hanno generazione; e questa si può cogliere senza i sensi, mediante un ragionamento bastardo, che a malapena è oggetto di credenza; e guardando ad essa come in sogno noi diciamo che tutto ciò che è deve essere in qualche luogo e occupare spazio, e ciò che non è in qualche luogo, o in cielo o in terra, non è nulla; e ancora così vediamo (c) che l'immagine, non avendo per sè realtà, deve generarsi da un'altra cosa, mentre delle cose che sono la ragione viene a dirci che una non può generarsi dall'altra, se ciascuna è quella che è. (d)  Questo dunque è, per sommi capi, il mio ragionamento: che v'erano tre principi distinti, l'essere, lo spazio e la generazione, prima ancora che il mondo fosse formato. Orbene, la nutrice della generazione, contenendo in sé acqua fuoco terra e aria (e) ed essendo piena di forze non omogenee ed equilibrate era scossa da esse e a sua volta le scuoteva; e le cose più o meno pesanti si separavano come la pula e il frumento, (53a) e occupavano luoghi diversi. Tutto era disposto senza ragione e senza misura; (b) e le cose si trovavano nella condizione in cui è naturale che si trovino quando Dio non è presente. E queste cose, che si trovavano in questa condizione, egli in primo luogo le plasmò con forme e numeri, e ne fece un tutt'uno, il più bello e il più buono possibile; e ciò sia detto una volta per tutte. Dimostrare il modo in cui ciascuna di queste cose venne ordinata e si generò, (c) richiede un ragionamento fuori del comune; ma voi conoscete i modi del sapere, e come bisogna dimostrare ciò che si afferma.

Nel riassumere i principi della dottrina esposta, Platone ne ribadisce l'intento fondamentale, che è quello di spiegare la struttura e l'ordine delle cose; nello stesso momento, indica le caratteristiche di quest'ordine, ponendole "nelle forme e nei numeri". Non è chiaro nel Timeo se questi rimangano due principi distinti, o se le idee trovino il loro fondamento nei numeri. 

Sembra che la conclusione del pensiero di Platone sia stata questa seconda: testimonianze sulle sue "dot­trine non scritte" parlano infatti della teoria delle "idee-numeri", che avrebbe ricondotto ogni fenomeno a un principio di indeterminatezza e a uno di determinazione. Era, in certo senso, una conclusione inevitabile: mantenere le idee vicino ai numeri, o considerare i numeri idee, significava infatti farne altre cose, rinnovan­do il problema di trovare il rapporto tra i principi e la realtà empirica. L'aspetto qualitativo della natura, percepito dai sensi, corrisponde in realtà a una struttura invisibile, di tipo quantitativo-geometrico. La natura è infatti composta da quattro elementi semplici (fuoco, aria, acqua, terra). Lo spazio, che deve accogliere i quattro elementi, è un "ricettacolo" (chora) informe, da cui solo gradualmente emergeranno le forme visibili dell'universo. Per adattare allo spazio i quattro elementi e generare, dalla loro ordinata mescolanza, il mondo empirico dei corpi, il Demiurgo si serve di figure geometriche regolari (solidi tridimensionali, a più facce piane). Queste sono, a loro volta, generate dalla reiterazione di figure più elementari: triangoli rettangoli isosceli o scaleni, dalla cui combinazione (per aggiunta o per rotazione) si originano tutte le superfici possibili. L'universo, nella sua costituzione perfetta, è finito anziché (come ritenevano altre cosmologie antiche) infinito. Il dodecaedro (il più perfetto dei solidi regolari) corrisponde alla forma totale dell'universo: la più simile a quella perfetta della sfera.

Il Demiurgo e l'anima del mondo

Al centro del mito cosmologico narrato nel Timeo sta dunque la figura del Demiurgo, un divino artefice che ha dato forma e inizio all'universo. Si tratta di un'intelligenza ordinatrice, non creatrice, che ha introdotto un ordine nel caos delle origini, avendo di mira una perfezione ideale espressa dall'idea del Bene, l'idea cioè di determinare «il migliore dei mondi». A differenza del Dio biblico, il Demiurgo non crea il mondo dal nulla, ma conferisce forma e struttura razionale a una materia preesistente.

Il Demiurgo è simbolo dell'intelligenza o del finalismo riscontrabili nell'universo, la materia esprime invece la resistenza, la casualità che la ragione incontra nella spiegazione degli aspetti più particolari e determinati della formazione del mondo corporeo. La divinità, anziché in una posizione di separatezza e indifferenza nei confronti della natura, appare qui in un ruolo di preveggenza ordinatrice, anche se incontra un limite irrazionale nella materia. Platone dice che l'intelligenza del Demiurgo «persuade la necessità» della materia: 

(47e) Le cose dette fin qui, tranne poche, hanno trattato le opere prodotte dall'intelligenza; ora bisogna aggiungere anche ciò che avviene a causa della necessità. In effetti, (48a) la formazione di questo mondo si è prodotta per una mescolanza di necessità e intelligenza. Questo universo si costituì all'inizio in quanto la necessità fu vinta dalla persuasione dell'intelligenza, tesa a condurre all'ottimo le cose che si formavano; ma per dire come effettivamente il mondo è nato, bisognerebbe dire anche di questa causa errante, e del contributo da essa dato. Bisogna dunque che i fenomeni descritti li riesponiamo da principio. (b) E che esaminiamo la natura del fuoco e dell'acqua e dell'aria e della terra, quali erano, esse e le loro proprietà, prima della nascita del mondo: finora infatti ne abbiamo parlato come se sapessimo cosa sono, e li abbiamo detti principi intendendoli come lettere di tutta la realtà, mentre, a pensarci anche un poço, non si possono paragonare neppure a sillabe. (c) Comunque, del principio o dei principi di tutte le cose non è il caso di trattare col presente modo di indagine; (d) mi limiterò quindi a ribadire che si tratta di ragionamenti verosimili, e in questa prospettiva cercherò di dire cose non meno verosimili, anzi più, di quelle dette da altri. E così, invocato di nuovo Dio salvatore, I (e) ricominciamo a parlare.

Prima ci è bastato porre due generi: quello del modello, intelligibile e sempre identico a se stesso, e quello delle imitazioni (49a) del modello, generate e visibili; ora dobbiamo chiarire anche un terzo genere, difficile e oscuro. Quale natura e quali proprietà dovremo attribuirgli? Questa soprattutto: di essere il ricettacolo di tutto ciò che si genera, come la sua nutrice. Questa è la verità, ma bisogna dirla con più chiarezza; e farlo è difficile, (b) perché bisognerebbe pregiudizialmente determinare la natura del fuoco e degli altri elementi.

in questo contesto, la parola necessità non significa, come avviene generalmente, l'opposto di caso, ma ne è piuttosto un sinonimo. La necessità in effetti non è che la caratteristica di un principio "negativo" che opera nelle cose ("imitazioni") limitando in esse l'influenza del modello. Platone non lo qualifica mai espressamente come "materia", perché le forme di materia cui si può far riferimento sono sempre determinate, mentre esso è per definizione indeterminato; ma anche perché preferisce usare altre qualificazioni, che della materia indicano la natura e, per così dire, la qualità di ambito ed elemento di tutta la realtà (ricettacolo, spazio, nutrice) - in una parola lo spazio e anche ciò che lo riempie e in esso si determina e lo determina. È come l'àpeiron di Anassimandro, da cui tutto deriva e in cui tutto si risolve.

La materia impone cioè un limite all'ordinamento formale e al principio finalistico concepiti dal Demiurgo. Perciò la natura non può mai adeguarsi all'ordine perfetto delle idee, ma solo imitarlo imperfettamente, nei limiti fissati dello spazio e del tempo.

Il tempo

Nel Timeo Platone dà questa definizione del concetto di tempo: esso è «l'immagine mobile dell'eternità». 

(37c) Vedendo muovere e vivere questo mondo, il padre che l'aveva generato se ne compiacque e pensò di renderlo ancor più simile al suo modello. (d) Questo però era eterno, e non era possibile adattarvi perfettamente ciò che era generato; perciò egli pensò di produrre un'immagine mobile dell'eternità procedente secondo il numero, che è quello che noi diciamo tempo (e) (e di questo diciamo "era" "è" e "sarà", mentre a quella solo l"'è" si addice); (38c) e perché il tempo si generasse, fece il sole la luna e cinque altri astri, che si dicono pianeti, per definirne i numeri e per conservarli.

(38e) Ora, tutte le cose, fino alla generazione del tempo, erano state formate a immagine del modello; ma il mondo ancora non comprendeva in sè i viventi che poi sarebbero nati in lui, e in questo era dissimile dal modello; perciò Dio lo compì secondo esso.

Generalmente, in Platone il tempo è sinonimo di divenire sensibile ed è il simbolo stesso della «irrazionalità» degli oggetti della doxa, del loro nascere e perire, del loro perenne mutare e non essere. La pretesa di conoscere ciò che è nel tempo e che cosa sia il tempo appare assurda, non potendosi dare alcuna stabilità in questo ambito dell'esperienza. Invece, nel Timeo, il tempo misurato oggettivamente dai movimenti del cielo e degli astri diviene l'immagine sensibile più vicina alla perfezione ed eternità delle idee.

Muovendosi circolarmente e con moto uniforme, nel proprio "luogo", il cielo sembra volere imitare o esprimere sensibilmente l'eternità immobile delle idee. Il moto perennemente ripetitivo degli astri, che riappaiono ciclicamente nell'esatta posizione in cui si trovavano all'inizio del loro movimento, esprime sensibilmente l'aspirazione del moto alla quiete, del mutevole all'identico, del temporaneo all'eterno. Platone distingue infatti due tipi di temporalità e di movimento: il modo uniforme e ciclico, con cui si muovono il cielo e gli astri, e la successione irregolare, che si constata nei movimenti casuali dei corpi sensibili.

Il tempo uniforme e ciclico rappresenta, rispetto alla successione irregolare, una semplice "misura ideale". Il cosmo visibile è infatti soggetto alla distruzione non meno che alla creazione. L'unico modo, per l'intelligenza, di conoscere questo mondo, sarà di osservarlo e descriverlo con i sensi, sforzandosi solo poi di ricondurlo per ipotesi a una regolarità di comportamento, che nella realtà empirica non è mai possibile riscontrare completamente.

L'anima del mondo

Tutto ciò introduce al concetto fondamentale della cosmologia del Timeo: quello di anima del mondo. Qui l'anima non è considerata negli aspetti antropologico e psicologico, bensì in quelli cosmico e biologico (in base all'analogia, già richiamata, tra microcosmo e macrocosmo).

(34b) Per questo Dio fece un corpo liscio e omogeneo, equidistante dal centro in tutte le parti, perfetto e intero, e composto di corpi perfetti. E, posta l'anima in mezzo a questo corpo, la diffuse per tutte le sue parti, e con essa lo avvolse anche di fuori, e così formò un cielo circolare, che si volge in circolo, unico, solitario, per sua virtù capace di bastare a se stesso, di conoscere se stesso e di amare se stesso. E l'anima, di cui noi parliamo per ultima, (c) Dio non la plasmò dopo il corpo; anzi la fece più antica del corpo per nascita e per virtù, (35a) come quella che doveva governare il corpo ed esserne obbedita; e la plasmò come segue.

Dall'essere indivisibile che è sempre identico a se stesso e da quello divisibile che si genera nei corpi, mescolandoli insieme, egli formò un essere intermedio, partecipe della natura del medesimo e di quella dell' altro, e lo pose tra gli altri due; quindi li mescolò tutti e tre assieme,

in modo da farne una sola forma, adattando con la forza alla natura del medesimo quella riluttante dell'altro, (b) e quello che ne risultò divise in parti e variamente combinò. (36d) E compiuta che ebbe tutta la costituzione dell'anima secondo il suo pensiero, dentro di essa compose tutto ciò che ha natura corporea, (e) e li armonizzò unendo il centro dell'uno col centro dell'altra. E l'anima, rivolgendosi in se stessa, originò una vita inesauribile e intelligente per tutti i tempi.

La creazione di un'anima del mondo da parte del Demiurgo è anteriore alla creazione dei corpi, che solo dall'anima ricevono il movimento. Il concetto è ribadito nelle Leggi, dove appare l'idea di "automovimento" (autokinesis) dell'anima cosmica. Definiamo infatti "anima" ciò che "si muove da sé", e da questa proprietà autocinetica si può trarre anche una nuova e più immediata dimostrazione della sua immortalità. Tutto ciò che si muove non riceve da sé, ma da un altro, l'impulso a muoversi (la sua causa). Solo colui che è in grado di iniziare «da se stesso» il proprio movimento è eterno e immortale (tale è l'essere delle idee). Ma l'anima è appunto ciò che conferisce vita e movimento al corpo, e non può essere a sua volta derivata da un elemento corporeo. Se il movimento cosmico ha avuto un inizio, esso non può essere derivato che dall'anima del mondo.

Il cosmo fisico è descritto come un unico e grande essere vivente: «l'animale che doveva raccogliere in sé tutti gli animali». È questa l'idea archetipica (che riassume in sé le idee di vita e intelligenza) a cui il Demiurgo si è ispirato nella propria opera. Platone è influenzato nella propria filosofia della natura dal panpsichismo delle antiche cosmologie: da esso è attinta l'idea di un'intima solidarietà tra materia e vita. Egli ne respinge tuttavia il presupposto naturalistico, l'idea cioè di un'autosufficienza della materia a spiegare se stessa, introducendo il riferimento al mondo delle idee, concepito come piano di riferimento causale ultimo del divenire naturale. Pur nella forma mitica del racconto, anche il Timeo accenna infatti a tre "generi sommi" (essere, medesimo, altro), dalla cui mescolanza il Demiurgo ricava l'anima del mondo. Essa imprime al cosmo il suo movimento ordinato, introducendovi un elemento di regolarità e perfezione, che altrimenti vi sarebbe assente. Oltre che principio cosmologico, l'anima (come già ci è noto dallo studio della psicologia platonica) è il principio direttiva della vita umana individuale. Il Timeo mantiene la tripartizione dell'anima, ma vi aggiunge una più attenta considerazione fisiologica.

Pur operando in modo unitario, l'anima è infatti localizzata nei diversi organi somatici: cervello, cuore, visceri. L'ordine demiurgico, con cui è formato il corpo umano, con­sente infatti di distinguere tre principali cavità, predisposte a ospitare funzioni operative diverse e gerarchicamente strutturate:

1.  lo spazio intracranico, in cui si trova il cervello, organo del pensiero razionale;

2.  quello toracico, sopra il diaframma, in cui si trova il cuore, organo dei moti aggressivi e collerici;

3. quello ventrale, sotto il diaframma, in cui hanno sede i visceri e le parti sessuali, organi specializzati dell'alimentazione e della riproduzione.