Nato nel 469 ad Atene, da Sofronisco, scultore, e da Fenarete, levatrice, Socrate si avvicina giovanissimo alla filosofia. Conosce Anassagora e i sofisti Protagora, Gorgia, Crizia, Trasimaco e, pare, soprattutto Ippia.
Dal 432 al 429 partecipa come oplita alla campagna di Potidea, durante la Guerra del Peloponneso. Questa notizia indica che le condizioni familiari di Socrate erano abbastanza agiate, com' era necessario per procurarsi il corredo militare che consentiva di essere ammessi tra gli opliti, una sorta di fanteria pesante.
Nel 424 partecipa alla spedizione di Delo, che si conclude con una disfatta. Nella ritirata, mentre le linee ateniesi franano nel caos, dimostra eccezionale coraggio, lucidità e forza d'animo.
Nel 422 combatte con molto valore nella campagna di Anfipoli. Sorteggiato in una commissione che deve giudicare gli strateghi della battaglia navale delle Arginuse, accusati di non aver soccorso i feriti, è l'unico ad opporsi alle furibonde richieste dell’assemblea popolare che, per motivi politici, vorrebbe rovesciare il già emesso verdetto di assoluzione. In seguito, dopo la presa del potere da parte del partito oligarchico dei Trenta Tiranni e la cacciata da Atene dei democratici, rifiuta l’ordine di uccidere un cittadino contrario al regime, preferendo rischiare la vita che non commettere un’azione ingiusta.
Nel 399, tornati al potere i democratici, Anito, uomo politico di primo piano, l’oratore Licone e il poeta tragico Meleto accusano Socrate di corrompere i giovani e di introdurre nella città nuovi dèi. Socrate è allora al culmine della fama. La sua figura è popolarissima ed i commediografi, come il grande Aristofane, fanno spesso di lui il bersaglio di comiche invenzioni e maldicenze. Ma Socrate è anche seguito da un folto gruppo di amici e discepoli, non soltanto ateniesi. Tra essi anche il giovane Platone.
Sulle ragioni di questa accusa si sono a lungo interrogati gli studiosi. Come e perché Socrate fosse un personaggio scomodo, inviso ai potenti e ai sapienti delle varie professioni, lo mostreremo tra breve. Ma anche ragioni più strettamente politiche potrebbero aver avuto un peso determinante. Si rimproveravano a Socrate talune amicizie e frequentazioni con esponenti del partito oligarchico, nonché le sue frequenti critiche alle degenerazioni demagogiche dello stato democratico, che lo inducevano a tenersi lontano da ogni impegno pubblico. Inoltre, il fatto che uno dei suoi discepoli fosse stato Alcibiade (l'uomo che con la disastrosa spedizione di Sicilia aveva contribuito in misura notevole alla sconfitta di Atene nella Guerra del Peloponneso) gettava su Socrate e sul suo insegnamento un'ombra; per non parlare della personalità stessa di Alcibiade, uomo ambizioso, spregiudicato e corrotto.
Al processo Socrate tenne, a quanto pare, un atteggiamento di sfida nei confronti dei suoi accusatori e dei giudici, respingendo sdegnosamente le accuse e rivendicando gli intenti profondamente morali del suo insegnamento. Dichiarato colpevole con una votazione di stretta maggioranza, rifiuta di attribuirsi una pena (per esempio l’esilio o una forte multa), come la legge gli consente; scelta che sicuramente l’avrebbe salvato. Poi, accogliendo le sollecitazioni degli amici presenti che gli fanno da garanti, acconsente a comminarsi una lieve multa. Questo atteggiamento irritò probabilmente i giudici che, con una seconda votazione a più ampia maggioranza, lo condannarono a morte, cioè a bere la cicuta, secondo la legge che regolava i processi per empietà (asébeia).
Dopo un mese di detenzione (nel corso del quale pare che Socrate si rifiutasse di fuggire, nonostante gli fosse possibile e come alcuni amici avrebbero voluto che facesse offrendo gli aiuto), alla sera di un giorno trascorso in carcere a conversare come sempre con gli amici, Socrate bevve serenamente la cicuta. Aveva allora settant’anni.
Secondo la tradizione Socrate non scrisse nulla, sebbene fosse fornito di un'ampia cultura. Il suo insegnamento è perciò interamente affidato alla testimonianza dei discepoli e, innanzi tutto, a quella di Platone, che fece di Socrate il protagonista della maggior parte dei suoi scritti.
Vi è però una discordanza profonda tra l’interpretazione che Platone suggerisce della figura di Socrate e le testimonianze degli altri discepoli, fondatori, come vedremo, delle cosiddette scuole socratiche minori. Da qui nasce, per noi moderni, la "questione socratica", cioè il problema di stabilire l’effettivo contenuto dell’insegnamento e del pensiero di Socrate.
In generale si può dire che i socratici minori presentano Socrate come una figura affine ai sofisti. Come loro, Socrate è dotato di straordinarie doti dialettiche, con le quali confuta le tesi dei suoi interlocutori; la sua originalità consisterebbe nel trarre, da questa distruzione di ogni sapere, un insegnamento morale volto al conseguimento della saggezza interiore e alla conduzione di una vita integerrima.
Anche Aristofane, che nella commedia Le nuvole ci presenta un Socrate chiacchierone e impostore, sembra fare di Socrate un tipico esponente della nuova cultura sofistica, paradossale e cinica, scandalosamente sovvertitrice dei valori religiosi e sociali della tradizione.
Lo scrittore e avventuriero Senofonte, che seguì Socrate per breve tempo e che ne scrisse nei Memorabili molto dopo la sua morte, quando già era in circolazione l'opera di Platone, non va al di là di una descrizione superficiale e macchiettistica, infarcita di aneddoti.
Solo Platone, dunque, si impegna a dimostrare il grande rilievo della personalità e del pensiero di Socrate. Egli fa del suo maestro il prototipo del "filosofo", in un senso nuovo e profondo che di fatto ha prodotto una svolta decisiva nel cammino della cultura greca e della storia universale. Il Socrate di Platone è un personaggio degno di essere paragonato ai più grandi maestri dell'umanità, come Buddha, Gesù di Nazareth o il cinese Lao Tzu.
Resta naturalmente il dubbio su quanto sia fedele la ricostruzione di Platone o su quanto Platone stesso vi abbia messo di proprio: quesito sostanzialmente irresolubile allo stato della nostra documentazione. A sostegno della plausibilità dell'interpretazione platonica, almeno nei suoi tratti principali, vanno però ricordate alcune cose. La prima è che tutti i socratici "minori" furono allievi dei sofisti prima di ascoltare Socrate, mentre Aristofane e Senofonte non capivano nulla di filosofia. È allora possibile immaginare che essi potessero facilmente fraintendere il senso vero e profondo dell'insegnamento socratico, troppo innovatore per essere adeguatamente inteso dai contemporanei. Inoltre va ricordato che Platone, facendo di Socrate il protagonista delle sue numerosissime opere in anni ancora molto vicini alla scomparsa del maestro, non poteva presentare un Socrate troppo lontano dalla realtà che molti avevano conosciuto di persona. Nella sua interpretazione dovevano esserci dunque molti elementi di sicura oggettività.
Resta il fatto che solo Platone sembra aver inteso davvero il messaggio di un uomo che, dopo tutto, aveva affrontato la morte piuttosto che smentire il senso del suo insegnamento e della sua vita, il che sarebbe incomprensibile se egli fosse stato quel sofista scettico e cinico che le altre testimonianze ci presentano. E resta altresì il fatto che la caratterizzazione platonica di Socrate costituisce uno degli eventi capitali della storia, qualcosa che ha modificato per sempre la nostra umanità: un evento di tale irrinunciabile importanza che il problema della sua attribuzione in tutto o in parte a Socrate, piuttosto che a Platone medesimo, diventa infine irrilevante.
Ciò che, a quanto pare, distinse nettamente l'insegnamento di Socrate da quello dei sofisti (oltre al fatto, non secondario, che Socrate non richiedeva alcuna mercede in cambio) riguardava innanzi tutto il metodo dialogico e le sue premesse.
Socrate non teneva lunghi discorsi retorici né ricorreva, se non per gioco, all'eristica e ai suoi trucchi di parole. Egli entrava invece in dialogo con il suo interlocutore, stimolandolo con continue interrogazioni, cioè imponendo un procedimento retto da domande e risposte concise, volte a indagare l'oggetto della conversazione.
Se per esempio il tema del dialogo concerneva la virtù, o il coraggio, o la pietà verso gli dèi, Socrate sollecitava con domande l’interlocutore a dire ciò che egli riteneva che fossero virtù, o coraggio ecc. Le risposte venivano sottoposte a un esame critico e mostrate inconsistenti; la domanda veniva allora riproposta e l'interlocutore era invitato a correggersi e a dire meglio. Anche questa risposta veniva vagliata e confutata, e così via.
La premessa che giustificava un siffatto procedimento risaliva, a detta di Socrate, alla condizione di totale ignoranza che Socrate stesso si attribuiva. A differenza dei sofisti, che si spacciavano per maestri di un sapere definito e magari universale, Socrate si presentava come colui che non sa e che, proprio per ciò, ricerca.
Socrate sosteneva di essere stato spinto a svolgere questa missione di ricerca presso i suoi concittadini o presso i sapienti che si trovavano a passare per Atene da un fatto strano quanto per lui incomprensibile. Narrava infatti (come disse anche in tribunale, sostenuto da testimoni) che il suo amico Cherofonte, recatosi presso l’oracolo di Apollo a Delfi e avendo chiesto alla Pizia, la sacerdotessa, chi fosse ad Atene l'uomo più sapiente, essa gli rispose che nessuno era più sapiente di Socrate.
La risposta stupisce Socrate: egli non si ritiene in nulla e per nulla sapiente.
Allora decide di interrogare coloro che hanno fama di sapienti, gli esperti nelle varie arti e discipline, per mostrare a se stesso che costoro sono sicuramente più sapienti di lui. Ma, con suo grande stupore, scopre che nessuno di essi è veramente sapiente. Tutti possiedono al più una conoscenza "pratica" o "tecnica", appresa per tradizione, ma ignorano il "senso" vero delle loro azioni ed opinioni, non ne hanno alcuna effettiva "scienza".
Per esempio il sacerdote sa come fare per onorare gli dèi, egli è un tecnico dei riti religiosi, ma ignora del tutto il «perché», la ragione profonda di questi tradizionali comportamenti, ignora in che senso e per quale ragione essi dovrebbero essere graditi agli Dèi. Lo stesso è da dirsi degli artigiani, dei poeti, degli artisti, dei politici: sanno come fare ciò che li riguarda, ma non conoscono il vero fine e il senso ultimo di questo fare. Oppure, pur conoscendo molte cose, essi sono del tutto sprovveduti e ignari di fronte ai grandi interrogativi della vita. Posseggono per esempio una forbita eloquenza, ma ignorano e non sanno dire che cosa sia davvero bene per l'uomo, come si possa vivere felici e che cosa sia giusto fare nelle varie circostanze della vita.
Allora Socrate comprende il senso della risposta dell’oracolo: egli è il più sapiente perché, a differenza degli altri, almeno questo sa: «sa di non sapere». Affermazione che diviene il motto emblematico dell'insegnamento socratico.
In questo senso Socrate affermò in tribunale che «una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta». Questa missione, questa ricerca della verità che non si accontenta delle verità tramandate e accolte passivamente, è propriamente la nascita della ricerca filosofica. Socrate ne è il padre e l'iniziatore. Va da sé che la sua appassionata missione, volta a mostrare a tutti la nostra comune ignoranza, non era fatta per renderlo popolare e simpatico presso i concittadini più importanti e famosi; non c'è da stupirsi quindi che essi abbiano alla fine desiderato imporgli il silenzio.
La ricerca socratica, infatti, mettendo in crisi le più tradizionali credenze e certezze, doveva fatalmente apparire rivoluzionaria e pericolosa ai governanti democratici che si proponevano un ritorno all' austerità formale e alla tradizione come unico rimedio alla decadenza dei costumi. Socrate, inoltre, finì certo per allarmare i politici e i più influenti cittadini che, feriti nel loro prestigio, vedevano come nel contempo i giovani seguissero in gran numero l'insegnamento socratico, costituendo forse addirittura una sorta di potenziale partito. Il che spiega l'accusa di corrompere i giovani e il proposito di eliminare Socrate, probabilmente cercando di esiliarlo.
Ma Socrate non li seguì in questa soluzione di compromesso.
Il «sapere di non sapere» diviene pertanto la premessa della ricerca del sapere, cioè dell'«amore del sapere» (filo-sofia). Rinnovando l'antico motto delfico («conosci te stesso»), Socrate, l'uomo al servizio di Apollo, continua a interrogare i concittadini per renderli consapevoli della loro ignoranza e dei loro pregiudizi. Questa interrogazione è "ironica" nel senso che, fingendo di voler apprendere la verità dall'interlocutore, tende in realtà a smascherarne l'ignoranza e a condurlo al riconoscimento del proprio non sapere.
Nel contempo l'interrogazione è anche "maieutica", cioè intende aiutare l’anima dell’interlocutore a partorire, se possibile, delle verità. Perciò Socrate sosteneva scherzando di proseguire il mestiere della madre che, in quanto levatrice, aiutava a partorire i corpi come lui le anime.
Il dialogo socratico mostra allora tutta la sua pregnanza. All'inizio i dialoganti sono chiusi nei loro pregiudizi e nelle loro infondate opinioni, sicché il loro discorrere non porta ad alcuna verità. Resta solo l'abilità retorica insegnata dai sofisti: usare ogni mezzo argomentativo per superare l'avversario confutandolo o mettendolo in cattiva luce. L'ironia socratica non ha invece questo scopo puramente agonistico e mira a stabilire una condizione comune tra i dialoganti; essi, alla fine, riconoscono di sapere effettivamente qualcosa che li accomuna: la loro ignoranza. A questo punto potranno, accomunandosi anche nella ricerca, muovere insieme verso una verità condivisa.
Attraverso il "ragionare insieme", l'interlocutore è aiutato a far venire in chiaro la reale essenza del problema discusso; segnatamente, è indotto, dall'analisi di numerose situazioni particolari in cui il problema può avere applicazione, a trovare la definizione corretta di ciò di cui si sta parlando. Discutendo le ipotesi via via introdotte, Socrate guida il dialogante verso una definizione della questione, che non è più opinabile, ma su cui al contrario è possibile un accordo razionale (omologhia) e una comune comprensione, la cui validità è quindi universale. Il metodo socratico pone in questo modo una domanda di definizione - espressa nell'interrogativo "che cosa è?" (ti èsti) - che era estranea alla cultura sofistica del tempo. Quando il filosofo chiede per esempio che cosa è il coraggio, oppure che cosa è la giustizia, muove una richiesta di definizione del tutto nuova rispetto al linguaggio parlato dai suoi interlocutori. Essi infatti erano abituati a riferirsi solo alla singola opinione, al giudizio singolare.
Socrate non si accontenta del relativismo dei singoli punti di vista e insiste nell'interrogare sul significato universale della virtù in questione. Egli muove dalla difficoltà di definire un significato stabile e condiviso da tutti attorno a ciò di cui si sta parlando. Si discute per esempio di giustizia e ingiustizia, di bene e male, ma non si è capaci di definire in primo luogo che cosa siano la giustizia e il bene. Si crede di saperlo, giacché si sanno indicare una o più azioni ritenute giuste e buone; ma la giustizia e la bontà non sono nessuna di queste singole azioni. Qualsiasi nostro comportamento particolare d'altra parte, come già avevano compreso i sofisti, potrebbe apparire giusto o non giusto, a seconda della situazione, della prospettiva e dell'opinione soggettiva attraverso cui viene valutato. Solo sapendo che cosa è la giustizia in se stessa, io posso decidere se essa si realizza o no nell'azione che sto esaminando. Il ti èsti socratico, dunque, non si riferisce a soggetti particolari, ma, attraverso l'esame dei casi particolari, ricerca quella nozione generale che li accomuna. Aristotele chiamerà questo procedimento (che dai casi particolari giunge, attraverso una generalizzazione, al concetto) induzione. Si tratta di un tipo di induzione che, sul piano linguistico, consente il costituirsi di un discorso corretto e stabile nel suo significato e, sul piano dell'educazione morale, conduce a una definizione stabile delle virtù capace di confutare il presunto immoralismo, insito a parere di Socrate in alcune posizioni sofistiche. Superando le opinioni e i pregiudizi, gli uomini possono costruire, per il filosofo ateniese, un terreno comune di dialogo, in cui il confronto avviene non per mezzo della persuasione retorica o dei moti degli affetti, ma per mezzo della ragione (logos).
La seconda accusa, relativa all'introduzione empia di nuove divinità, si riferiva probabilmente al demone che Socrate sovente diceva di ascoltare.
Così ne parlò anche in tribunale, spiegando che questa voce, che si faceva sentire silenziosa dentro di lui sin dalla giovinezza, mirava ogni volta a distoglierlo dal commettere ingiustizia.
Era quella voce che gli aveva comandato di non fuggire sui campi di battaglia, di opporsi alla furia popolare nel processo per le Arginuse, di disobbedire ai Trenta Tiranni che volevano comprometterlo imponendo gli un omicidio; ancora questa voce gli ordina ora di non accettare l'esilio o altra pena per evitare la morte, poiché quelli sono mali certi e disonorevoli, mentre se la morte sia un male o un bene nessuno può dire. E così la stessa voce gli imporrà di non fuggire dal carcere, scegliendo a settant’anni la vergogna dell’esilio e il disprezzo verso la sua città: l'errore dei giudici, infatti, non esime il buon cittadino dal rispetto per le leggi, soprattutto in un tempo in cui tutti sembrano fare a gara per stravolgerle e ignorarle.
In realtà, dietro l'immagine del demone si celava quella che fu forse la più importante scoperta di Socrate. Essa potrebbe esprimersi con la nozione di "anima", intesa come interiorità spirituale o come coscienza morale.
Quest'anima socratica è di fatto l'inizio di una nuova maniera di essere e di sentirsi uomini, consapevoli della propria responsabilità individuale, che lascia cadere nel passato la passiva e conformistica adeguazione alle regole formali della tradizione collettiva.
Questo ricorso alla voce dell’anima sembra anzi il vero e proprio contenuto di sapienza dell’insegnamento socratico. Secondo Platone, le ultime parole di Socrate agli amici li esortavano a «prendersi cura della loro anima», nel che si compendiava la sua eredità e il suo testamento spirituale. Sicché quest’uomo, che ripeteva ostinatamente di non sapere nulla, apriva nel contempo, sulla base di un'interiore consapevolezza, il cammino verso la ricerca in comune della filosofia, cioè verso quell’amore condiviso per la verità e per il bene che è l'essenziale dell'abito filosofico.
Nel corso delle sue discussioni - così come ci sono narrate nei dialoghi giovanili di Platone - Socrate riprende dunque il complesso delle virtù elaborate dalla civiltà greca (il coraggio, la temperanza, la pietà, la giustizia e infine quella virtù che è il fondamento unico delle altre, l'aretè politica) e pone il problema di quale sia la loro essenza, la loro forma generale (eidos). Nel dialogo Eutifrone per esempio il ti èsti socratico viene formulato attraverso la ricerca dell'eidos, dell'idea della "santità". Socrate chiede così «che cosa è in se stessa quella tale idea del "santo" per cui tutte le azioni sante sono sante». Se qui le parole eidos e idea significhino l'idea o il concetto generale razionalmente formulati e universalmente condivisi, nel senso fin qui descritto, oppure implichino già quel significato di idea trascendente, che costituisce il tema centrale della teoria platonica, è problema di complessa soluzione. È certamente probabile che ci siano, nell'uso che il personaggio Socrate fa dei termini, già i segni del significato più propriamente platonico. Tuttavia il contesto in cui essi sono usati è del tutto socratico.
Socrate tuttavia, almeno a quanto racconta Platone, non diede mai alcuna definizione positiva delle virtù attorno a cui dialogava con i suoi discepoli .
Allo sforzo di rendere consapevoli gli altri della loro ignoranza, non fa seguito alcuna risposta circa la sua domanda di definizione. Quello di Socrate è dunque un interrogare senza mai rispondere? Questa era l'accusa che i sofisti lanciavano al filosofo di Atene, irritati dall'atteggiamento ironico di continua dissimulazione del proprio sapere che egli teneva di fronte a essi. Per sofisti come Callicle o Trasimaco, Socrate è un abile e sfuggente oratore, che confuta gli altri, senza tuttavia dare mai risposte. Questa sembra essere anche, almeno a parere di alcuni studiosi, la critica che lo stesso Platone rivolgerà al suo maestro, quando cercherà - come vedremo - di dare un contenuto positivo al metodo socratico. Nel Clitofonte - un dialogo tuttavia di dubbia attribuzione platonica - Platone fa dire all'omonimo personaggio: «Insomma, Socrate, io dirò che tu sei preziosissimo per chi non è stato ancora avviato, ma per chi già lo è, sei quasi un ostacolo a raggiungere la perfezione della virtù e ad esserne felice» (Clitofonte, 410d-e). Socrate - sembra dire Platone - è dunque sì un maestro nell'esortare alla vita virtuosa, ma non dice che cosa è la virtù, lasciando i discepoli di fronte a definizioni diverse e contraddittorie. Egli incita alla sapienza e alla giustizia, ma qual è la vera sapienza e.quale la vera giustizia? Senza una risposta a queste domande, la dialettica socratica rischia di essere solo una "nobile sofistica" (come la chiama Platone nel Sofista), egregia nel preparare l'animo umano alla vita buona, ma poi vuota di contenuti e quindi debole e disarmata di fronte al relativismo sofistico e alle sue conseguenze sul piano politico ed educativo.
Gli studiosi hanno fornito, su questo aspetto del pensiero socratico, risposte e interpretazioni diverse. Per alcuni, la filosofia socratica non ha contenuti determinati e va intesa soprattutto come una esortazione alla vita virtuosa. Per altri, è piuttosto una "filosofia del dubbio", che spinge a guardare nel proprio animo e a superare pregiudizi e false opinioni. Per altri ancora infine, se è vero che manca nel Socrate presentato da Platone una definizione positiva delle virtù, è anche vero che il filosofo ateniese offre un'indicazione ai suoi seguaci quando invita a vedere nell'anima la componente essenziale dell'uomo: sarà indagando nella propria anima che ciascuno potrà scoprire ciò che è bene.
L'importanza della filosofia socratica sta dunque nel messaggio di chiarificazione razionale e di purificazione interiore che egli rivolge all'uomo. Il suo insegnamento si fonda sulla convinzione che la conoscenza del bene sia anche la condizione perché gli uomini agiscano pubblicamente in conformità a esso. La comprensione della verità, cioè che il bene è il vero fine e significato della vita, motiva necessariamente l'uomo a una esistenza moralmente buona. Questa tesi socratica (che verrà posteriormente definita intellettualismo etico) viene a contrapporsi all'opinione sostenuta da molti che l'uomo possa invece sapere che cosa sia il bene e tuttavia possa decidere di commettere il male. Come ricorda Senofonte, per Socrate, nessuno commette il male volontariamente; infatti, sapere che cosa è il bene rende impossibile l'azione malvagia. L'uomo commette dunque il male solo per ignoranza della verità. Nessuno infatti agirebbe in modo malvagio, se sapesse che cosa veramente è il bene, giacché tutti vogliono il proprio bene. Quest'ultimo è pertanto l'oggetto della virtù, di quell'unica e universale virtù, che è scienza, in quanto è attraverso il sapere che l'uomo giunge a essa. Una sola è quindi la virtù fondamentale, scienza del bene e del male, capacità di realizzare se stessi e di vivere in modo buono nella società. Tale virtù conduce l'uomo alla sophrosyne, cioè a una vita cioè misurata e consapevole. Se l'identificazione di virtù e sapere era un motivo già in parte presente nelle filosofie precedenti - per esempio in Pitagora e in Eraclito -, nuovo è invece il ritrovamento dell'oggetto della virtù nel bene. Con Socrate, il pensiero filosofico pone per la prima volta in stretto rapporto verità e vita, scienza ed esistenza. La filosofia diventa esercizio spirituale, capace di produrre comportamenti virtuosi, nel rispetto degli altri uomini, delle leggi della polis, degli dèi. Tuttavia, alcuni testi rendono delicata e complessa l'identificazione di virtù e sapere e la sua conseguente identificazione del male con l'ignoranza. L'intellettualismo etico di Socrate è messo a dura prova dalla paradossale tesi dell'Ippia minore nel quale Platone mostra un Socrate che sviluppa la tesi dell'identificazione di virtù e sapere, sino al paradosso di concedere che un uomo che uccide consapevolmente è migliore di uno che uccide involontariamente. La tesi stride clamorosamente col buon senso che considera più colpevole, e dunqe più malvagio, chi uccide premeditatamente rispetto a chi uccide in maniera accidentale o addirittura inconsapevole. Se anche si accetta l'ipotesi platonica di una sorta di sofistica superiore, presente in Socrate, che fa le sue argomentazioni finalizzate a una conclusione aporetica in vista del sapere di non sapere, resta l'evidente difficoltà socaratica di comprendere la libertà umana alla radice della virtù e del bene.
Dopo la morte di Socrate la situazione politica ad Atene dovette farsi pesante e insostenibile per i suoi più stretti amici e discepoli. Alcuni di essi, a cominciare da Platone, scelsero un volontario esilio o tornarono nelle loro città d'origine.
Si svilupparono così diverse scuole che si ispiravano all'insegnamento socratico, dette da noi moderni "minori" per distinguerle dalla scuola che poi fonderà Platone ad Atene, l'Accademia. È un fatto che l'influenza esercitata da quest'ultima sulla storia della filosofia è imparagonabile con quella delle altre scuole socratiche. Esse però nel tempo loro non furono affatto "minori". Tra i discepoli di Socrate si svolse anzi una certa contesa e concorrenza, con esiti e fortune variabili. È evidente che l'eredità di Socrate venne interpretata in modi diversi e non poté dar luogo a una sintesi unitaria. Il che vale, almeno per un certo tempo, anche per la scuola di Platone, sebbene essa fosse destinata a prevalere sulle altre.
I Megarici
Il discepolo di Socrate Euclide fondò a Mégara una sua scuola che ebbe all'inizio rapporti amichevoli con Platone, il quale pare vi si rifugiasse per un certo tempo.
I megarici avvicinarono il tema socratico del bene al tema parmenideo dell'essere. Essi intendevano infatti il bene come una sorta di saggia indifferenza o superiorità rispetto alle contingenze della vita e alle umane e mutevoli credenze: proprio come Socrate fu indifferente alle opinioni diffuse tra i suoi concittadini e tra i suoi nemici e ne accettò senza turbamenti o ripensamenti la condanna.
Ma il tratto originale della scuola è che essa fonda quest'indifferenza pratica sull' asserita impossibilità del giudizio "logico", cioè sull'impossibilità di attingere la verità tramite i "discorsi". Il giudizio, infatti, dice in generale che "a è b"; per esempio che "il cane è un animale". Ma come si può dire, coerentemente, che "a è b"? L'unica affermazione veramente "logica", cioè non assurda e contraddittoria, è che "a è a", oppure che "b è b". Quindi: "il cane è il cane", "l'animale è l'animale", ovvero: "l'essere è l'essere". Col che però non si è detto nulla.
Si potrebbe essere tentati di sostenere, per giustificare la forma del giudizio (che di continuo usiamo praticamente), che tra a e b c'è "somiglianza". Ma allora si deve osservare: come possiamo definire qualcosa nel giudizio (per esempio il cane) riferendoci a qualcos'altro che soltanto gli assomiglia? "Animale", diciamo, assomiglia a "cane"; però esso si può predicare anche di "bue" o di "cavallo" e perciò assomiglia anche a loro. Ne consegue che se definiamo "animale" il cane, non predichiamo nulla di preciso o di esclusivo che lo riguardi.
Se poi dicessimo che tra a e b non c'è somiglianza, come sarebbe possibile allora la loro comparazione e la loro riduzione ad unità (l'uno è l'altro) nel giudizio? Nulla di coerente si può dire, dunque, e la "scienza" è impossibile. Qui si apriva la frattura con la posizione di Platone, che intendeva invece condurre l'ironia socratica ad un sapere scientifico, cioè, nel suo senso, «filosofico».
Secondo Euclide e i suoi discepoli, il dialogare di Socrate aveva uno scopo eminentemente critico e distruttivo, affine in questo alla pratica dei sofisti e degli eristi. Ma Socrate ne ricavava poi un insegnamento etico rivolto al bene puro e considerato in sé (cioè indifferente alle cose del mondo) e indirizzato al conseguimento di una felicità e di una saggezza pratica che i megarici infatti perseguivano coerentemente.
I Cinici
Antistene fondò a sua volta una scuola che ebbe poi ad Atene la sua sede. Essa si chiamò cinica perché sorgeva sulla piazza del Cinosarge (del "cane agile") e cinici o cani si dissero i suoi seguaci; gli adepti di questa scuola, infatti, erano soliti «mordere come cani i vizi degli uomini».
Come Euclide, anche Antistene negava ogni possibilità di scienza o di sapere e per questo motivo entrò in accesa polemica con Platone. Per Antistene il giudizio non ha alcun valore: possiamo affermare con coerenza che "la neve è la neve" e che "il bianco è il bianco", ma non ha senso alcuno dire che "la neve è bianca"; questo dire non è "logico" e quindi è indifferente quanto lo è il suo contrario ("la neve non è bianca").
Ogni sapere intellettuale è del resto superfluo, così come superflue sono le convenzioni e le regole sociali, che in realtà rendono l'uomo schiavo e corrotto. Unico vero bene dell'uomo è la virtù, cioè la saggezza e l'indipendenza interiore.
Di qui il moralismo ascetico dei cinici, che troverà tipica espressione in Diogene di Sinope. La sottile critica del sapere propugnata dai cinici ha così lo scopo di pervenire a un esito etico, cioè a una serie di comportamenti caratteristici: i cinici infatti sdegnavano ogni agio, ogni lusso, ogni proprietà personale, ogni vincolo sociale, come per esempio il matrimonio; analogamente si disinteressavano del tutto della vita politica e delle vicende pubbliche.
Resta il fatto che, con l'insistenza sulla pratica dialettica e confutatoria, molto sottilmente perseguita, i cinici avvicinarono l'insegnamento di Socrate all'insegnamento dei sofisti. Non è un caso infatti che Antistene, prima di seguire Socrate, sia stato discepolo di Gorgia.
I Cirenaici
Aristippo fondò a Cirene la scuola detta appunto dei cirenaici. Anche Aristippo, prima di seguire Socrate, venne influenzato dai sofisti e in particolare da Protagora. Da quest'ultimo egli assunse la dottrina relativistica della sensazione: le cose sono così come esse volta a volta appaiono ai nostri sensi.
Il sapere logico della mente e del pensiero non può mai stabilire come siano le cose in se stesse; esso è comunque dipendente dalla sensazione e quindi dobbiamo limitarci ad osservare che una cosa appare o sembra a noi bianca, oppure dolce ecc. Più di questo non possiamo dire con verità.
Il sapere del resto è indifferente, poiché ciò che davvero conta è la pratica di vita. Essa ha a sua volta come fondamento le sensazioni, e cioè, in ultimo, il piacere e il dolore che esse ci procurano. In polemica con i megarici, e soprattutto con i cinici che disprezzavano i piaceri del corpo, Aristippo insegna invece che unica vera saggezza è ricercare il piacere e fuggire il dolore.
Ciò non significa che il cirenaico si abbandoni ogni sorta di piacere. Egli invita anzi a distinguere tra le varie forme del piacere: le passioni, per esempio, con il loro movimento sfrenato e violento, finiscono per generare molto più dolore che vero piacere. Il saggio dunque deve sempre possedere e padroneggiare il piacere, non esserne posseduto e dominato.
Il tema principale della scuola divenne quindi quello di stabilire quali beni debbano essere considerati piaceri reali e perciò opportuni. Essa registrò posizioni diverse e anche opposte, come quella di Anniceride, che esaltava la mite e tranquilla amicizia, o quella di Egesia che, per annullare ogni dolore, arrivava a propugnare l'elisione della sensazione stessa, sino a preferire la morte alla vita. Per questo motivo Egesia venne chiamato "persuaditor di morte".
Gli Eretrici
Un'ulteriore scuola socratica venne fondata ad Elide da Fedone e poi continuata da Menedemo ad Eretria, per cui eretrici si dissero i suoi seguaci. Essa fu forse affine alla scuola di Mégara, ma le nostre notizie sono in proposito del tutto insufficienti, sicché degli eretrici non sappiamo nulla di preciso o di significativo.
In generale tutte le scuole socratiche minori sembrano aver privilegiato un aspetto della personalità di Socrate a scapito di altri, senza coglierne l'unità profonda e senza aver trovato una risposta plausibile all'enigma e al senso della sua morte, come invece fece Platone. Evidenti sono anche i segni di contaminazione dell'insegnamento socratico con l'insegnamento dei sofisti, di Parmenide, di Empedocle o di Anassagora.
In una cosa le scuole socratiche minori furono però unanimi, cioè nella critica eristica del sapere e nella denuncia dell'impossibilità della scienza. All'opposto, Platone fa di Socrate l'avversario irriducibile dei sofisti e degli eristi, nonché il difensore di una "ricerca" che ha proprio nel sapere il suo scopo e la sua meta finale. Quanto meno il Socrate di Platone mira a stabilire la «scienza del bene e della virtù» (come anche lo interpretò Aristotele, discepolo di Platone).
In questo modo Platone, come già abbiamo ricordato, fece di Socrate l'incarnazione stessa del filosofo ed il modello ideale della filosofia, intesa essenzialmente come amore e ricerca del sapere. Questo modo di interpretare la filosofia, sebbene non unico, fu da allora prevalente e oscurò, anche grazie alla ricchezza e alla potenza dei suoi temi e dei suoi sviluppi, le dottrine dei socratici detti, appunto per questo, "minori".