Cominciamo il confronto seguendo il punto di partenza sul tema della conoscenza di entrambi i pensatori. Nel caso di Kant il compito sembra più semplice pochè si tratta di sviluppare i presupposti e le indicazioni fondamentali della Critica della ragion Pura. Nel caso di Platone occorrerà seguire il paziente lavori di sviluppo del problema lungo il corpus dei suoi dialoghi sino alla maturità ma emprionalmente si può individaure il punto di partenza della sua concezione nel Menone e nel Cratilo.
Per dare un ordine più lineare alla ricerca partiremo dunque da Kant e cercheremo di verificare i parallelismi platonici seguendo la trattazione della Critica della ragion pura. Metodologicamente si ha il vantaggio di poter utilizzare un’opera sistematica come metro di paragone e di calibrare il discorso su un terreno circoscritto. Se dovessimo esprimere sinteticamente quale sia il fulcro della conoscenza secondo Kant dovremmo parlare dell’apriori e della sua scoperta attraverso il metodo trascendentale. Conoscere non significa ricevere passivamente i dati sensibili dell’esperienza ma elaborarli, e ordinarli secondo "forme a priori" nel senso che sono presenti in noi prima di ricevere dati provenienti dall’esperienza: prima ancora di fare esperienza, noi abbiamo in noi questi strumenti (forme) pronti a ricevere i contenuti sensibili che ci vengono dall'esterno e che noi selezioniamo ed ordiniamo. Questo è in fondo il significato della definizione di conoscenza trascendentale, così come è descritta nella stessa Critica della ragion pura: «Chiamo trascendentale ogni conoscenza che si occupa non degli oggetti, ma del nostro modo di conoscenza degli oggetti, in quanto questa deve essere possibile a priori».
La conoscenza a priori si identifica con le forme a priori o "funzioni trascendentali" a partire dalla stessa conoscenza sensibile che riceve l’esperienza attraverso le due intuizioni sensibili: lo spazio e il tempo. La realtà come ci appare in base alle intuizioni a priori è il fenomeno, letteralmente ciò che mi appare, mentre la realtà così com'è indipendentemente dalla nostra conoscenza è per noi inconoscibile ed è definita da Kant noumeno. Dunque la conoscenza umana, secondo Kant, si costituisce attraverso la recezione delle informazioni che ci provengono dall'esperienza ma che noi facciamo nostre attraverso le due intuizioni sensibili: spazio e tempo. Una volta immagazzinate le informazioni ottenute attraverso le intuizioni spazio-temporali esse vengono, per così dire, rielaborate dalla nostra mente - mediante le dodici categorie dell’intelletto - che procede a cogliere razionalmente le relazioni presenti nell’esperienza. Da questa sommaria rappresentazione possiamo affermare che Kant definisce la conoscenza come il lavoro di tre facoltà: la sensibilità (descritta nell’Estetica trascendentale), l'intelletto e la ragione (descritte nella Logica trascendentale rispettivamente nell’Analitica trascendentale il primo e nella Dialettica trascendentale la seconda). La sensibilità è la facoltà con cui percepiamo i fenomeni e poggia su due forme a priori, lo spazio e il tempo. L'intelletto è invece la facoltà con cui pensiamo i dati sensibili tramite i concetti puri o categorie. La ragione è la facoltà attraverso la quale cerchiamo di spiegare la realtà oltre il limite dell'esperienza tramite le tre idee di anima, mondo e Dio, ossia rispettivamente, la totalità dei fenomeni interni, la totalità dei fenomeni esterni e l'unione delle due totalità. Su questa tripartizione del processo conoscitivo si articola la Critica della ragione pura suddivisa in dottrina degli elementi e dottrina del metodo.
La difesa della conoscenza scientifica
Questa prima approssimazione al problema della conoscenza deve essere meglio calibrata cercando di porre al centro quello che deve essere considerato il vero problema di Kant. In gioco c’è sopratutto la conoscenza scientifica così com’è andata sviluppandosi partendo dal metodo sperimentale galileiano. Galilei pone la distinzione tra qualità primarie (misura peso, estensione ecc. e qualità secondarie (date dalle percezioni sensibili) in quanto ciò che appartiene oggettivamente alla natura sono i rapporti matematici. Noi cogliamo vagamente tali rapporti quantitativi sotto forma di sensazioni (colori, suoni. odori) che non appartengono alle cose: se fossero tolti "i nasi, gli occhi, le orecchie" sparirebbero del tutto. Ma resterebbe solo la materia, con i suoi valori quantitativi di estensione, figura, peso, movimento, ecc. Per accertare la realtà oggettiva, indipendente dal nostro modo soggettivo di sentirla, occorre verificare, anche in un solo caso, se il fenomeno studiato si svolga secondo la legge con cui abbiamo cercato di interpretarlo. Per far questo occorre eliminare dall'esperimento tutte le perturbazioni che possono nascere da cause estranee a quella che abbiamo ipotizzato; o, almeno, se eliminarle è impossibile, tenerne conto e fare astrazione della loro influenza. Quindi, le componenti a cui è stato in tal modo ridotto il fenomeno vengono, sottoposte a misura, cioè tradotte in quantità e numero.
Soprattutto, ricercando sulla base dell’oggettività matematica la fondazione di quel metodo sperimentale messo in discussione da Hume. Questione che Kant sviluppa nella famosa analisi dei giudizi, nella quale, per rispondere a Hume, egli sviluppa la definizione dei giudizi sintetici a priori.
I giudizi sintetici a priori
I giudizi sintetici, così come intesi prima di Kant, aggiungono al concetto del soggetto un predicato che in quello non era affatto pensato e che non era da esso deducibile con nessuna analisi. Ma in questo, come in tutti i casi di giudizi sperimentali, è chiaro che la possibilità di connettere il soggetto con il predicato è offerta dall'esperienza, e che questi sono giudizi a posteriori ai quali la semplice analisi logica del concetto non può in alcun caso pervenire.
Come tali, questi giudizi estendono le nostre conoscenze (ci insegnano qualcosa di più di ciò che sapevamo con la semplice posizione del soggetto), ma non sono né universali né necessari, in quanto fondati sull'esperienza che ci presenta sempre conoscenze che non sono necessarie per cui, a rigore, si può sempre pensare di imbattersi in casi in cui l'esperienza condotta venga contraddetta da esempi discordanti.
Una costatazione che renderebbe molto più profonda l’obiezione di Hume: la scienza non può progredire fondandosi esclusivamente su giudizi a priori. Per aumentare le proprie conoscenze deve ricorrere all'esperienza, la quale però fornisce solo conoscenze accidentali e contingenti, mai universali e necessarie. Per questo la scienza secondo Hume non è né universale né necessaria, non è anzi propriamente neppure "scienza" ma semplice raccolta di regolarità più o meno casuali e più o meno costanti dell'esperienza che si pretende di tradurre in giudizi e leggi scientifiche. Perciò, di fronte per esempio alla proposizione «ogni cambiamento esige una causa», si deve concludere che essa esprime soltanto una mera abitudine psicologica e nulla di logicamente o universalmente necessario.
Eppure quella proposizione esprime un giudizio di causa, universale e necessario che a al di là dei termini materiali in discussione: qualunque sia il cambiamento esige una causa. Ed è facile riscontrare che sno si tratta di una proposizione analitica. Il concetto di "cambiamento", infatti, non comporta il concetto di "causa": causa non è una scomposizione del concetto di cambiamento. Conseguentemente, questo tipo di proposizioni è sintetico ma non a posteriori, visto che non dipende da particolari esperienze ma è un metro per tutte le esperienze di quel tipo. Non resta dunque che ammettere l’esistenza di giudizi sintetici a priori: proposizioni sintetiche non fondate sull'esperienza che aumentano le nostre conoscenze a priori. Non perché facciano aumentare il bagaglio delle nostre esperienze ma perché ci consentono di creare una rete di relazioni tra i fenomeni in quanto sono i nostri principi unificatori dell’esperienza. Rappresentano il sistema unificante con cui la razionalità costruisce la nostra visione della realtà prodotta attraverso le intuizioni sensibili (spazio-tempo) e rpensata concettualmente dall'intelletto grazie ai giudizi sintetici a priori.
Con questa precisazione la posizione kantiana sul problema della conoscenza assume una connotazione più completa. Quella che è in gioco è dunque la scienza sperimentale. Questo dato chiarisce anche il ruolo e il valore della conoscenza delle tre facoltà che abbiamo indicato in precedenza: la sensibilità, l'intelletto e la ragione.
Infatti l’Estetica trascendentale tratta non della sensibilità in generale ma di quella che isola le qualità primarie galileiane, cioè quelle misurabili, attraverso le intuizioni di spazio e tempo. Così come l’Analitica trascendentale, prima parte della Logica trascendentale, si occupa di isolare e definire i giudizi sintetici a priori nella tavola delle dodici categorie. Con questa tavola Kant raggiunge lo scopo prefissato di offire una struttura alla conoscenza scientifica che non si riduca alla sola conoscenza proveniente dall’esperienza (i giudizi sintetici a posteriori). Con queste prime due sezioni Kant è convinto di aver definitivamente superato le obiezioni di Hume e di aver dato uno statuto sicuro alla scienza sperimentale. Lasciamo momentaneamente in sospeso il ruolo della terza facoltà, la ragione, di cui tratta nella Dialettica trascendentale. Questa sezione, infatti, propone un’altra serie di problemi legati al valore della conoscenza filosofica e merita di essere approfondita successivamente.
Concentriamoci inizialmente sulle prime due fasi della conoscenza direttamente implicate nel suo ideale di scienza e ripartiamo dai giudizi sintetici a priori e dalle loro caratteristiche. È nel IV paragrafo dell'Introduzione alla Critica della ragione pura, che Kant sviluppa l’analisi delle varie forme di giudizio.
Il testo risulta piuttosto stimolante per le finalità del nostro lavoro già dalla definizione della differenza tra un giudizio analitico e un giudizio sintetico in generale.
«Giudizi analitici (affermativi) sono dunque quelli nei quali la connessione del predicato col soggetto viene pensata per l'identità loro; quelli invece nei quali questa connessione viene pensata senza identità, si devono chiamare sintetici. I primi si potrebbe anche chiamarli giudizi esplicativi, gli altri estensivi; poiché quelli per mezzo del predicato nulla aggiungono al concetto del soggetto, ma solo dividono con l'analisi il concetto nei suoi concetti parziali, che erano in esso già pensati (sebbene confusamente); dove, al contrario, questi ultimi aggiungono al concetto del soggetto un predicato, che in quello non era punto pensato e non era deducibile con nessuna analisi. Se dico, per esempio: tutti i corpi sono estesi, questo è un giudizio analitico. Giacché non mi occorre di uscir fuori dal concetto che io unisco alla parola corpo, per trovar legata con esso l'estensione, ma mi basta scomporre quel concetto, cioè prender coscienza del molteplice che io comprendo sempre in esso, per ritrovarvi il predicato, questo è dunque un giudizio analitico. Invece, se dico: tutti i corpi sono gravi; allora il predicato è qualcosa di affatto diverso da ciò che io penso nel semplice concetto di corpo in generale. L'aggiunta di un tale predicato ci dà perciò un giudizio sintetico.
I giudizi sperimentali, come tali, sono tutti sintetici. Infatti sarebbe assurdo fondare sull'esperienza un giudizio analitico, poiché io non ho punto bisogno di uscire dal mio concetto per formare il giudizio, né a ciò mi è d'uopo alcuna testimonianza dell'esperienza. Che un corpo sia esteso, è una proposizione che vale a priori, e non è un giudizio di esperienza. Infatti, prima di passare all'esperienza, io ho tutte le condizioni del mio giudizio già nel concetto, dal quale posso ricavare il predicato soltanto secondo il principio di contraddizione, e acquistare a un tempo coscienza della necessità del giudizio, che l'esperienza non potrebbe mai insegnarmi. Al contrario, se nel concetto di corpo in generale io non includo punto il predicato della gravità, allora quel concetto rappresenta pure un oggetto dell'esperienza mediante una parte di essa, alla quale dunque io posso aggiungere ancora altre parti della stessa esperienza, come appartenenti a quello. Posso prima conoscere il concetto di corpo analiticamente per le note dell'estensione, dell'impenetrabilità, della forma, ecc., che sono tutte pensate in questo concetto. Ma poi estendo la mia conoscenza, e ricorrendo di nuovo all'esperienza, dalla quale ho tratto il concetto di corpo, trovo con le note precedenti legata costantemente anche quella della gravità, e l'aggiungo quindi sinteticamente, come predicato, a quel concetto. Sull'esperienza dunque si fonda la possibilità della sintesi del predicato della gravità col concetto del corpo, perché questi due concetti, sebbene l'uno non sia compreso nell'altro, tuttavia, come parti di un tutto, cioè dell'esperienza, che è essa stessa una connessione sintetica delle intuizioni, convengono l'uno all'altro, benché solo in modo accidentale».
In questo testo sono racchiuse diverse questioni importanti che abbiamo segnalato in grassetto. Lo stesso esempio adottato da Kant rappresenta un problema interessante: cosa significa che la definizione di corpo e le distinzioni interne (esplicative come direbbe Kant) sono giudizi analitici? Forse il concetto di corpo può definirsi completamente separato dall’esperienza?
Cominciamo dalla seconda domanda a cui Kant da una qualche risposta nella terza parte in grassetto dove scrive:«ricorrendo di nuovo all'esperienza, dalla quale ho tratto il concetto di corpo, trovo....» L'affermazione ci dice che anche il concetto di corpo, sul quale si sviluppa il giudizio analitico, in realtà deriva dall’esperienza e pertanto il giudizio analitico non può prescindere dalla stessa. Dunque la differenza tra giudizi analitici e sintetici non passa dalla presenza o assenza dell’esperienza ma dalle modalità differenti con le quali la si analizza. Nel caso del giudizio sintetico a posteriori si tratta di un aumento della conoscenza in cui il legame tra le due nozioni risulta accidentale, cioè significa che il legame è il rislutato di un qualche accadimento (in latino accidens) nell’esperienza. Qualcosa che non dipende dall’uso degli strumenti razionali per sé stessi ma da avvenimenti indipendenti da noi.
Una definizione che in fondo è già la risposta all'altra domanda, la prima, alla quale non avevamo dato una soluzione adeguata. I giudizi analitici sono strumenti razionali per sviluppare le definizioni concettuali senza ulteriori contributi dell’esperienza come nei giudizi sintetici. In altri termini, nei giudizi analitici cerco di comprendere e definire nel migliore dei modi esperienze già fatte nei giudizi sintetici inserisco ulteriori informazioni in base alle novità (accidenti) che l’esperienza mi offre. La stessa definizione offerta da Kant ci spinge in questa direzione: «non mi occorre di uscir fuori dal concetto che io unisco alla parola corpo, per trovar legata con esso l'estensione, ma mi basta scomporre quel concetto, cioè prender coscienza del molteplice che io comprendo sempre in esso, per ritrovarvi il predicato, questo è dunque un giudizio analitico». Dunque quando applico il metodo analitico si tratta di una scomposizione concettuale nella quale cerco di individuare tutti gli elementi che compongono il concetto di corpo.
Ora non ci resta che analizzare i giudizi sintetici a priori per completare l’analisi della conoscenza scientifica.
«Ma nei giudizi sintetici a priori questo sussidio manca assolutamente. Se devo uscire dal concetto A, e conoscerne un altro B come legato al primo, su che cosa mi fondo, e da che cosa è resa possibile la sintesi, poiché qui non ho il vantaggio di orientarmi per ciò nel campo dell'esperienza? Si prenda la proposizione: tutto ciò che accade ha la sua causa. Nel concetto di qualche cosa che accade io penso per verità una esistenza, alla quale precede un tempo ecc.; e da ciò si possono trarre giudizi analitici. Ma il concetto di causa sta interamente fuori di quel concetto, e indica alcunché di diverso da ciò che accade, e però non è punto incluso in quest'ultima rappresentazione. Come mai dunque vengo io a riferire, e per di più necessariamente, all'effetto alcunché di affatto diverso, il concetto della causa, sebbene in quello non contenuto? Che cos'è qui l'incognita x, su cui si appoggia l'intelletto, quando crede di trovar fuori del concetto A un predicato B, ad esso estraneo, e che, ciò malgrado, stima con esso congiunto? Non può essere l'esperienza, poiché il principio citato aggiunge questa seconda rappresentazione alla prima, non solo con universalità maggiore di quella che può dare l'esperienza, ma altresì con la nota della necessità, e perciò del tutto a priori, e in base a semplici concetti. Ora tutto lo scopo supremo delle nostre conoscenze speculative a priori si fonda su tali princìpi sintetici o estensivi; perché gli analitici sono, sì, importantissimi e necessarissimi, ma solo per giungere a quella chiarezza dei concetti, che è desiderabile per una sicura ed ampia sintesi, come per una conquista realmente nuova».
La scoperta delle categorie
Il ragionamento kantiano tutto sommato risulta abbastanza chiaro. Il giudizio sintetico a priori non è semplicemente l’unione di un soggetto con un predicato come nel sintetico a posteriori. Si tratta di un particolare modo di unire un soggetto con un predicato che non è incluso nell’unione dei due elementi: nel precedente esempio Kant spiegava come il concetto di gravità aumenti la nostra conoscenza del concetto di corpo ma riguradi un singolo esempio, coiè un fatto che accade (accidenti). Qui invece si tratta di una situazione differente se dobbiamo spiegar perchè un corpo cade, un corpo qualsivoglia, dobbiamo fare riferimento alla teoria della gravità e dunque facciamo riferimento a una spiegazione (perchè cade?) di ordine universale. Spieghiamo il fenomeno con una causa che vale sempre e pertanto, per dirla con Kant, il concetto di causa «sta interamente fuori di quel concetto, e indica alcunché di diverso da ciò che accade, e però non è punto incluso in quest'ultima rappresentazione». La causalità non è riferita a un singolo avvenimento e non è neanche, a ben vedere, la stessa spiegazione di una categoria di fenomeni. La causalità è invece proprio quell’universalità che non riconosciamo nel rapporto tra i fenomeni ma che va ben oltre. Si tratta appunto di quella relazione a priori che Kant considera strategica per spiegare il valore della conoscenza scientifica. Relazioni che sono la base della tavola dei guidizi dalla quale Kant ricava la tavola delle categorie.
Le categorie, o concetti puri dell'intelletto, sono perciò la condizione in base alla quale è possibile pensare un oggetto come unificazione del molteplice dato dalla sensibilità, ciò per cui, di fronte a tale molteplice, noi non restiamo "ciechi", ma siamo in grado di "riconoscerlo" e di determinarlo mediante un concetto.
Kant osserva che questa tabella delle categorie è completa e sistematica, a differenza di quella dataci da Aristotele, che egli ritiene "rapsodica" e casuale. La sua, al contrario, ha seguito un "filo conduttore" che ha preso le mosse dall'analisi di tutte le possibili forme di giudizio per giungere solo successivamente a tutte le possibili forme , cioè le categorie stesse. Il punto principale che segna la differenza tra la tavole delle categorie di Aristotele e quella di Kant è nella "rivoluzione copernicana" operata da quest’ultimo, per la quale le categorie designano le funzioni a priori dell'intelletto.
Kant definisce inoltre matematici i primi due titoli delle sue categorie, quantità e qualità, poiché riguardano gli oggetti dell'intuizione; dinamici gli altri due (relazione e modalità) poiché riguardano l'esistenza di tali oggetti in rapporto tra loro o in rapporto all'intelletto. L’analisi delle categorie mostra aspetti interessanti in vista del parallelismo con Platone. Infatti i primi due gruppi matematici rappresentano un interessante suggerimento circa le assonanze tra i due pensatori. Il gruppo della Quantità comprende infatti le seguenti categorie: Unità, Pluralità, Totalità. Mentre il gruppo della Qualità comprende: Realtà, Negazione, Limitazione. La loro profonda assonanza con il Platone dialettico è già manifesta nei caratteri di queste categorie. Ma anche le restanti categorie mostrano i segni palesi dell’assonanza tra i due filosofi. Sarà dunque oggetto della conclusione del parallelismo che andremo a sviluppare.
Andiamo ora ad analizzare un altro punto fondamentale che ci porterà alla conclusione della lunga ricognizione del pensiero kantiano sulle modalità della conoscenza.
La conoscenza è fenomenica
Alla luce di quanto già descritto, se partiamo dal principio generale che non ci può essere conoscenza senza relazione tra intuizoni sensibili (spazio-tempo) e intelletto (categorie) dobbiamo concludere che la nostra conoscenza altro non è se non l’incontro tra la nostre capacità conoscitive ed il mondo esterno. Ora, poichè questo incontro avviene partendo dalla sensibilità, cioè dall’esperienza spazio temporale, e si sviluppa con l’attività delle categorie dell’intelletto, dobbiamo concludere che la conoscenza pur essendo a priori si debba limitare alla conoscenza dei fenomeni. Fenomeno è esattamente il modo con cui definiamo l’esperienza della realtà. Dunque la realtà è lo sfondo dal quale le nostre capacità conoscitive afferrano i fenomeni. Resta dunque esclusa la conoscenza delle cose in sé (o noumeni), le quali esigerebbero una conoscenza incondizionata, cioè indipendente dalle nostre condizioni sensibili e in generale dal nostro peculiare modus cognoscendi, il che è per definizione impossibile e contraddittorio.
Ma la duplice operazione della conoscenza che contraddistingue l’acquisizione dei fenomeni deve scontrarsi con un’ultima difficoltà scaturita dalla constatazione che il fenomeno richiede in primo luogo le intuizioni sensibili e successivamente l’attività razionale dell’intelletto. La difficoltà nasce dal fatto che le intuizioni sensibili sono passive cioè ricevono il materiale dell’esperienza che diventa, in virtù del loro modo di riceverla, esperienza spazio-temporale. Dall'altra l’intelletto, grazie alle dodici categorie, sviluppa attivamente la sua capacità razionale di dare unità al molteplice, cioè di applicare una regola razionale al materiale sensibile. Come scrive Kant,
«Nessuna di queste due facoltà è da anteporre all'altra. Senza sensibilità nessun oggetto ci sarebbe dato, e senza intelletto nessun oggetto pensato. I pensieri senza contenuto sono vuoti, le intuizioni senza concetto sono cieche. È quindi necessario tanto rendersi i concetti sensibili (cioè aggiungervi l'oggetto nell'intuizione), quanto rendersi intelligibili le intuizioni (cioè ridurle sotto concetti). Queste due facoltà o capacità non possono scambiarsi le loro funzioni. L'intelletto non può intuire nulla, né i sensi nulla pensare. La conoscenza non può scaturire se non dalla loro unione. Ma non perciò si devono confondere le loro parti; ché, anzi, si ha grande ragione di separarle accuratamente e di tenerle distinte. Noi distinguiamo dunque la scienza delle leggi della sensibilità in generale, l'estetica, dalla scienza delle leggi dell'intelletto in generale, la logica».
Questa condizione imprescindibile della conoscenza richiede che si chiarisca in quale senso sia possibile far comunicare una facoltà passiva e recettiva con una attiva, vale a dire la sensibilità con l’intelletto. Questo problema occupa un altro capitolo dell’Analitica trascendentale noto come schematismo trascendentale. Ma prima di tutto occorrerà completare la trattazione kantiana sull’attività di pensiero che è legata all’unità della coscienza, quella che Kant chiama deduzione trascendentale. Del termine deduzione bisogna assumere non il significato logico bensì quello giuridico dove significa appunto prova.
La vera "rivoluzione copernicana" dell’a priori si raggiunge solo in virtù dell'attività trascendentale dell'autocoscienza che rende possibile l'unità dell'esperienza: non ci sarebbe esperienza, non ci sarebbero oggetti se ogni io non fosse appunto un'attività sintetica originaria in grado di riferire a sé i dati fenomenici, e quindi di unificarli mediante concetti.
Si fa altresì chiaro che il molteplice dell'intuizione sensibile non sottostà soltanto alle condizioni a priori dello spazio e del tempo, ma anche e anzitutto alle condizioni dell'unità sintetica originaria dell'appercezione. Appercezione è un termine coniato sul fancese s’apercevoir, e che può essere tradotto con precezione di se stessi: utilizzato per la prima volta da Leibniz significa dunque autocoscienza. Ma Kant sposta il significato datogli da Leibniz per intendere la capacità con cui la razionalità stessa si identifica in ciascun uomo.
L'unità della conoscenza: l'io penso
Per capire meglio la portata di quanto Kant ha affermato con l’appercezione trascendentale bisogna riprendere il significato dell’attività dell’intelletto. Secondo Kant l'intelletto è la facoltà di pensare e il pensare è conoscenza per concetti. Mentre la facoltà della sensibilità conosce intuitivamente l'oggetto, l'intelletto ne ha una conoscenza discorsiva: esso si specifica come facoltà di giudicare; i concetti dell'intelletto operano l'unificazione della molteplicità dei fenomeni dell'intuizione predicandone un concetto. Così, per esempio, quando dico" questo è un corpo" di fatto unifico nel giudizio un insieme di fenomeni intuiti spazio-temporalmente (ciò che indico dicendo "questo"), attribuendo loro il predicato "corpo". I concetti dell'intelletto sono dunque predicati di un giudizio possibile (o, che è lo stesso, di un pensiero possibile). Ora è facile vedere che le categorie non sono che l'espressione dei modi unitari mediante i quali l'Io penso, l'autocoscienza, unifica in sé le rappresentazioni nella sintesi del giudizio; dal che deriva la validità di diritto e non soltanto di fatto delle categorie, alle quali deve necessariamente sottostare ogni intuizione per divenire oggetto per me. La semplice forma dell'intuizione sensibile esterna, lo spazio, non fornisce ancora alcuna conoscenza, poiché ogni unificazione delle rappresentazioni (per esempio delle rappresentazioni spaziali) richiede l'unità della coscienza nella sintesi di esse. La conclusione dell’analisi ci porta dire che la sintesi operata dal giudizio dell'intelletto mediante le categorie presuppone un'unità, una sintesi più profonda e più originaria: quella in virtù della quale ogni rappresentazione fenomenica viene anzitutto unificata in una autocoscienza, ciò che Kant chiama io penso, appercezione.
L'unità trascendentale dell'autocoscienza svolge una duplice funzione: da un lato accompagna ogni mia rappresentazione (ed è perciò unità analitica dell'appercezione); dall'altro deve garantire l'identità della coscienza in queste rappresentazioni stesse, e cioè che ogni io che accompagna le rappresentazioni sia sempre il medesimo io (ed è perciò unità sintetica dell'appercezione).
Con ciò siamo giunti al fondo della ricerca kantiana, poiché abbiamo scoperto l'attività sintetica a priori originaria, che è quella dell'autocoscienza che incessantemente si unifica in sé con se stessa nell'operare contemporaneamente la sintesi delle rappresentazioni (o fenomeni).
Il tema, decisamente complesso, merita un’esposizione più ampia che chiarisca i termini del problema.
Che la conoscenza sia soprattutto sintetica è un dato che emerge da quanto detto sin qua: il pensiero e le intuizioni sensibili sono i principi mediante i quali noi sviluppiamo la nostra capacità di comprendere la realtà. Comprendere significa che noi unifichiamo (sintetizziamo) ciò che le sensazioni ci offrono attraverso l’unità spazio temporale (sensibilità) e attraverso il pensiero che si esprime nei giudizi: giudizio è esattamente l’unione di un soggetto con un predicato. Se io affermo il “sole è alto” unifico il soggetto sole con il predicato alto. Naturalmente questo è un giudizio sintetico a posteriori, deriva cioè da una constatazione di fatto che posso sempre fare nella mia esperienza soprattutto se avviene a mezzogiorno. Il giudizio sintetico a priori in questo caso riguarderebbe la teoria astronomica che afferma il perché a quell’ora il sole è alto. In questo secondo caso applico la regola (la categoria) che mi permette di esprimere un giudizio sul fenomeno in questione dichiarando che vi è una causalità precisa tra l’orario in cui rilevo l’altezza del sole e la posizione della terra. Dunque conoscere è unificare secondo regole, in questo caso la regola o categoria è quella di causalità: l’altezza del sole è causata dal movimento della terra.
Questa attività sintetica è esattamente il processo della conoscenza umana. La deduzione trascendentale consiste nel provare che non c’è conoscenza senza l’attività di sintesi che è il principio dell’attività dell’intelletto. L’intelletto è il principio unificatore attraverso l’attività delle categorie: unificare è dunque sinonimo di attività intellettuale. Da qui il concetto di appercezione trascendentale con cui Kant individua il concetto di Io penso. Percezione trascendentale signifca che stiamo parlando della condizione a priori dell’attività di pensiero e di giudizio. Noi pensiamo nel momento in cui applichiamo le categorie all'esperienza che ci arriva attraverso le intuizioni sensibili. Dunque l’io penso così come Kant lo individua ci dice tre ordini di cose:
1. Io penso significa semplicemente che se noi unificihiamo l’esperienza attraverso i giudizi abbiamo la possibilità di pensare, cioè di unificare l’esperienza. Sarebbe a dire che abbbiamo la possibilità di dare una spiegazione unitaria a una molteplicità di intuizioni sensibili spazio temporali. Per proseguire con l’esempio di poc'anzi, la teoria astronomia è una teoria che unifica tutti i fenomei legati ai comportamenti della terra nel sistema solare. Sviluppa tramite l’intelletto e le sue categorie l’unità del sapere che chiamiamo astronomia. L’appercezione trascendentale è la consapevolezza che la condizione di possibilità di un pensiero razionale sulle intuizioni sensibili si origina dunque nell’io e nel suo pensiero. Su questo si basa l’analitica trascendentale e lo sviluppo della tavola delle categorie.
2. In secondo luogo l’io penso dell’appercezione trascendentale dice anche che dietro ogni pensiero razionale c’è un io e che questo io non è un fatto accidentale ma è un fulcro dell’attività conoscitiva. Ogni io penso, cioè ogni uomo pensante, è consapevole della sua attività di pensiero nel senso che riconosce in se stesso e nella proprio attività intellettuale il principio della razionalità e del suo sviluppo nella scienza. Questo è il principio dell’unità sintetica: l’io penso è il principio dell’unità sintetica perché rende unitaria l’attività pensante. Da non confondere dunque col fatto che il pensiero è unificazione mediante le categorie perché questo è il principio dell’analitica. Qui unità è in senso forte l’identità di un io che pensa: unità significa che è sempre lo stesso io che pensa quando svolge la sua attività. Sono io il soggetto della mia attività razionale.
3. Ma quest’ultima affermazione deve essere immediatamente precisata. Quando affermiamo l’appercezione trascendentale, cioè la consapevolezza a cui ognuno può giungere della propria facoltà di pensiero, non ci riferiamo alla coscienza di noi stessi e dei nostri pensieri immediatamente colti. Questa coscienza immediata che noi possediamo del fluire dei pensieri ma anche dell’immaginazione, degli stati d’animo e del nostro corpo non è la coscienza trascendentale dell’io penso. In questo caso concreto dobbiamo ricordare la legge generale che Kant ha imposto alla conoscenza: c’è conoscenza vera, cioè scienza sperimentale, solo nell'unione delle categorie con l’esperienza. Dunque solo attraverso lo spazio e il tempo. Nel caso dell’esperienza interiore non cambia nulla. Il principio dell’intuizione sensibile è necessario anche per l’esperienza di noi stessi che Kant attribuisce al tempo. La nostra coscienza immediata è un fluire, nel tempo, di stati d’animo, pensieri ecc. Dunque passa attraverso l’intuizione sensibile del nostro io. Mentre l’io penso come disegnato da Kant esprime, esattamente come le categorie, la condizione di possibilità del pensiero che sintetizza e che procede unitariamente nella sua attività all'interno di ogni singolo io. Questo non significa dunque che noi siamo immediatamente consapevoli di questo fatto nell'esperienza che abbiamo di noi stessi perché questa esperienza è legata all'intuizione sensibile (tempo) e non è la coscienza di un puro pensiero. Il pensiero come possibilità noi lo scopriamo trascendentalmente, verificando cioè la realtà razionale che applichiamo all'esperienza e risalendo a ritroso sino a capire da dove scaturisce la nostra capacità razionale.
L'unità della conoscenza: lo schematismo
Resta aperto il problema dell'applicazione delle categorie al molteplice della sensibilità, problema dovuto al fatto che tra categorie e dati sensibili non c'è omogeneità,essendo le prime universali e i secondi individuali. Nell'''analitica dei princìpi" Kant sostiene dunque la necessità di qualcosa di intermedio, che sia omogeneo da un lato con la categoria e dall'altro con il molteplice sensibile. Kant chiama schema questo intermediario e ne affida la realizzazione a una facoltà che chiama immaginazione produttiva, facoltà a mezza via tra l'intuire e il giudicare. L’immaginazione produttiva si distingue da quella che Kant chiama immaginazione riproduttiva. La distinzione non è difficile da capire ma presuppone la precedente considerazione kantiana sull'io penso come unità sintetica, cioè principio del pensiero razionale. La sintesi a priori dell’io penso è una pura sintesi intellettuale che giustifica l’esistenza delle categorie. Ma ad essa Kant affianca un’altro momento che definisce sintesi figurata:
«Questa sintesi del molteplice dell'intuizione sensibile che risulta possibile e necessaria a priori, può esser detta figurata (synthesis speciosa), per distinguerla da quella pensata nella semplice categoria rispetto al molteplice di un'intuizione in generale, che prende il nome di congiunzione intellettuale(synthesis intellectualis); l'una e l'altra sono trascendentali, non solo perché procedono a priori, ma anche perché fondano la possibilità di altra conoscenza a priori»
In altri termini, siccome la «congiunzione intellettuale» individuata nell’io penso riguarda il puro e semplice requisito dell’attività razionale di ogni io pensante, per spiegare il modo in cui questa attività si unisce a sua volta col materiale sensibile, ricevuto atraverso lo spazio e il tempo, Kant suppone un’altro prerequisito che si affianca a quello dell’unità sintetica della ragione e che considera come una sorta di strumento mediante il quale il materiale dei sensi diventa per davvero fenomeno, valea dire ciò che appare a noi. Per apparirci integralmente deve entrare in contatto con la razionalità. Ma senza uno strumento che produca immagini, e dunque che entri in contatto definitivamente con ciò che ci appare, non siamo in grado di sviluppare nessun tipo di ragionamento e di sintesi razionale. Non siamo in grado di applicare le categorie universali e necessarie alla particolarità di “questa” esperienza.
Questo strumento che costruisce i modelli concettuali con i quali strutturiamo la nostra conoscenza si chiama appunto schematismo trascendentale. In virtù di questa dottrina secondo Kant a ogni categoria del pensiero (sintesi intellettuale) corrisponde uno schema da applicare al materiale delle intuizioni sensibili (sintesi figurata), sebben questo non significhi che ci sia un’immedita corrispondenza tra categorie e schemi.
Lo schema dunque non è un’immagine ma piuttosto l’insieme delle regole che serve per produrre immagini. Come ha scritto Ernst Cassirer, un filosofo di tradizione kantiana morto nel 1945, «lo schema non è il fantasma sbiadito di un oggetto empirico e concreto, ma per così dire l'archetipo e il modello per gli oggetti possibili dell'esperienza» (sottolineature nostre). Ci piace notare che i due termini adottati da Cassirer per spiegare le intenzioni di Kant ci riportano a questioni ben note allo stesso Platone. Se per esempio disegno un triangolo, ne ho l'immagine: ma questa simboleggia solo quel determinato triangolo (poniamo isoscele) e non il concetto generale di triangolo. Al contrario, lo schema del concetto di triangolo contiene i rapporti formali che caratterizzano il triangolo, ed è quindi modello valido per tutti i tipi di triangolo; è lo schema, infine, che permette di applicare il concetto di triangolo agli oggetti dell'intuizione.
Ma come si trova la giustificazione concreta per questi schemi? La risposta kantiana è data dalla percezione del tempo. Il tempo assieme allo spazio è una delle due intuizioni sensibili.Ma il tempo rappresenta non solo un carattere della percezione del mondo esterno ma soprattutto rappresenta la percezione del nostro mondo interiore. Dunque tutte le intuizioni sensibili sono riconducibili in ultima analisi a intuizioni del senso interno, perciò tutti i fenomeni, esteriori o interiori, sono percepibili per noi in base alla forma pura del tempo. A questo aggiungiamo un altro fattore importante e cioè, come già detto, che le categorie, in quanto sono i principi dei giudizi con i quali giudichiamo la realtà cioè mediante i quali organizziamo la conoscenza razionale delle cose, hanno una funzione discorsiva nel senso che sono il risultato di un’attività unificatrice che applica le categorie. Perciò esiste una discorsività che, come indica i termine stesso discorrere, implica il fluire (discorrere) della nostra attività intellettuale. Da questo deriva che tutti gli schemi sono determinazioni del rapporto dell'Io penso con le rappresentazioni sensibili cioè sull'intuizione pura del tempo.
Lo schema costituisce per ciascuna categoria l'ordine di successione temporale secondo il quale le intuizioni sensibili si unificano nelle categorie dell'intelletto; e tale successione si produce proprio nell'apprensione dell'intuizione medesima: la discorsività delle categorie è condizionata dal rapporto con la dimensione intuitiva del tempo che plasma ogni esperienza e la sottopone all'intelletto stesso.
L'unità della conoscenza: l'immaginazione scientifica
Per esemplificare: lo schema delle categorie di quantità (unità, pluralità, totalità) è il numero (infatti un oggetto è pensabile come "quantità" solo attraverso la misurazione, che implica l'addizione di unità nel tempo). Lo schema delle categorie di qualità (realtà, negazione, limitazione) è il grado di intensità (cioè il variare dell'intensità della sensazione nel tempo).
Fra le categorie di relazione, lo schema della sostanza (inerenza) è «la permanenza del reale nel tempo», mentre lo schema della causalità è la «successione del molteplice, in quanto soggetto a una regola»: il che vuol dire che è possibile applicare la categoria di causalità (concetto puro) ai fenomeni (intuizioni) solo attraverso lo schema di una successione regolare di eventi nel tempo. Kant può così dire che «gli schemi dei concetti puri dell'intelletto sono le vere e sole condizioni che conferiscono loro una relazione con gli oggetti, e con ciò un significato».
Con lo schematismo si è chiarito che la costruzione, da parte del soggetto, del mondo dell'esperienza implica la stretta integrazione fra sensibilità e intelletto e un ineliminabile riferimento alla dimensione temporale. Vediamo ora come tale risultato emerga nella trattazione dei princìpi.
Dato che i princìpi, come abbiamo visto, non sono altro che regole dell'uso oggettivo delle categorie attraverso gli schemi, Kant ne desume il sistema a partire dalle categorie stesse.
a) Il principio degli assiomi dell'intuizione (categorie della quantità) è: «tutte le intuizioni sono quantità estensive». Gli oggetti vengono intuiti nello spazio e nel tempo come aggregazioni di parti, ovvero come "quantità". La quantità, quindi, non è una proprietà dei fenomeni, ma il modo in cui i fenomeni stessi divengono oggetti di esperienza; detto altrimenti, noi conosciamo gli oggetti quantitativamente. Questo principio è di importanza notevole, perché è quello che permette di applicare la matematica alle scienze della natura, come avviene nella fisica matematica.
b) Il principio delle anticipazioni della percezione (categorie della qualità) è: «In tutti i fenomeni il reale che è oggetto della sensazione ha una qualità intensiva, cioè un grado». Questo principio stabilisce la regola per cui è possibile la misurazione delle variazioni qualitative (nell'intensità) di un fenomeno (per esempio la temperatura) dal momento che esiste una continuità del mutamento fisico, cioè nel passaggio da un grado all'altro di intensità. Perciò Kant parla qui di "anticipazioni" della percezione, nel senso che, in forza di questo principio, è possibile prevedere le caratteristiche di percezioni future.
c) Il principio delle analogie dell'esperienza (categorie della relazione) è il seguente: «L'esperienza è possibile soltanto mediante la rappresentazione di una connessione necessaria delle percezioni». Con i due princìpi precedenti si chiariva la possibilità di applicare la matematica ai fenomeni considerati separatamente; qui si tratta invece di fissare i princìpi che rendono possibile la determinazione dei rapporti fra i diversi fenomeni, in una parola le leggi. Il termine "analogia" è desunto dalla matematica, dove esso significa "proporzione", ovvero la possibilità, dati tre termini noti in relazione fra loro, di trovarne un quarto non noto. Le "analogie dell'esperienza" non ci danno il termine ignoto, non ci dicono, per esempio, quale sia la causa di un determinato fenomeno; ci dicono però che, dato un evento, ne esiste un altro che ne è la causa e che si trova con esso in una determinata relazione temporale. I rapporti fra i fenomeni avvengono sempre nel tempo: le "analogie" sono le regole che permettono di fissare rapporti oggettivi temporali fra i fenomeni e, in quanto tali, rendono possibile la conoscenza scientifica. Tre ordini di rapporti sono istituibili tra i fenomeni: di permanenza, di successione e di simultaneità; di qui le tre analogie dell'esperienza.
Prima analogia (principio della permanenza della sostanza): «In ogni cambiamento di fenomeni la sostanza, permane e la quantità di essa nella natura non aumenta né diminuisce». È un presupposto dell'intera scienza della natura, che risulterebbe impossibile se non riconoscessimo nelle nostre percezioni nel tempo elementi di mutamento e altri di continuità.
Seconda analogia (principio della legge temporale secondo la legge delle causalità): «Tutti i mutamenti accadono secondo la legge della connessione di causa ed effetto». Qui Kant tenta la risposta al "problema di Hume", mostrando che la legge di causa-effetto non è ricavata dall'esperienza di eventi in successione, ma è, al contrario, il presupposto della costruzione di qualsiasi serie temporale di eventi. Solo il principio di causalità dà oggettività alla percezione soggettiva di eventi in successione: esso è dunque un requisito necessario non solo per l'esperienza scientifica, ma anche per quella ordinaria.
Terza analogia (principio della simultaneità secondo la legge dell'azione vicendevole o comunanza): «Tutte le sostanze, in quanto percepibili nello spazio come simultanee, si trovano fra loro in un'azione reciproca universale». Questo principio rende possibile la formulazione di leggi empiriche riguardo a fenomeni coesistenti; dalla successione causale unidirezionale (Seconda analogia) si passa qui alle relazioni causali reciproche fra fenomeni, per cui ciascun fenomeno condiziona gli altri e ne è al tempo stesso condizionato. Con questo principio si fonda dunque la possibilità della conoscenza di un insieme di fenomeni naturali (come per esempio accade nella legge di gravitazione universale di Newton).
Con le tre analogie, quindi, Kant giustifica la possibilità di una natura come oggetto d'esperienza, ovvero come connessione necessaria di fenomeni secondo leggi: le tre analogie - commenta Kant - ci dicono che «tutti i fenomeni hanno luogo in una sola natura e vi debbono avere luogo, poiché, in mancanza di questa unità a priori, non sarebbe possibile alcuna unità dell'esperienza e quindi neppure una determinazione degli oggetti all'interno di essa».
d) L'ultimo gruppo dei princìpi dell'intelletto, i postulati del pensiero empirico (categorie della modalità), non aggiunge nulla quanto al contenuto della conoscenza, ma indica i rapporti esistenti fra conoscenza e mondo dell'esperienza: «allorché il concetto di una cosa è già del tutto completo, mi è pur sempre lecito chiedermi se tale oggetto sia semplicemente possibile o anche reale e, nel secondo caso, se sia anche necessario». Ora, possibile è «ciò che è in accordo con le condizioni formali dell'esperienza». Reale è «ciò che si connette con le condizioni materiali dell'esperienza (della sensazione)», cioè l'insieme dei contenuti della percezione connessi secondo le analogie dell'esperienza. Necessario, infine, è ciò «la cui connessione con il reale è determinata secondo le condizioni universali dell'esperienza», ovvero quel fenomeno la cui esistenza è ricavabile da una legge empirica universale (come può essere la formula newtoniana della gravitazione).
Questa strutturazione dell'attività schematizzante resta un punto molto complesso del pensiero kantiano.
Nonostante gli sforzi è Kant stesso a riconoscere che non si possa chiarire sino in fondo quale sia il modo con cui si organizzano gli schemi attraverso l'immaginazione produttiva, così come invece era riuscito a fare nell’analisi dell'Io penso. Si tratta di uno sforzo destinato a raggiungere risultati trascendentalmente meno lineari di altri capitoli della Critica della ragion Pura e per il quale occorre accontentarsi di quanto ottenuto:
«Questo schematismo del nostro intelletto, rispetto ai fenomeni e alla loro semplice forma, è un'arte celata nel profondo dell'anima umana, il cui vero maneggio noi difficilmente strapperemo mai alla natura per esporlo scopertamente innanzi agli occhi. Possiamo dire soltanto questo: l'immagine è un prodotto della facoltà empirica della immaginazione produttiva, lo schema dei concetti sensibili (come delle figure nello spazio) è un prodotto e, per così dire, un monogramma della immaginazione pura a priori, per il quale e secondo il quale le immagini cominciano ad essere possibili: le quali immagini, peraltro, non si riconducono al concetto se non sempre mediante lo schema, che esse designano; e in sé non coincidono mai perfettamente con esso (concetto). Lo schema, per contro, di un concetto puro intellettuale è qualche cosa che non si può punto ridurre a immagine, ma non è se non la sintesi pura, conforme a una regola dell'unità (secondo concetti in generale), la quale esprime la categoria, ed è un prodotto trascendentale dell'immaginazione, riguardante la determinazione del senso interno in generale, secondo le condizioni della sua forma (il tempo) in rapporto con tutte le rappresentazioni, in quanto queste debbono raccogliersi a priori in un concetto conformemente all'unità dell'appercezione».
Il problema dello "schematismo" kantiano rimane così, sino ad oggi, uno dei più dibattuti e controversi.
Questa lunga e complessa ricognizione nei principi della conoscenza scientifica kantiana esige una conclusione che ci permetta di trarre un primo bilancio.
Per Kant la conoscenza scientifica esige la certezza e l’universalità del suo metodo. Solo così si sfugge all'obiezione di Hume e si giustifica l’ideale della scienza come conoscenza razionalmente certa fatta di leggi la cui necessità è nella logica razionale con cui sono sintetizzate dall'intelletto.
Naturalmente siamo sul piano della scienza post-galileiana che parte dalle qualità primarie dell’esperienza e Kant pone come premessa della conoscenza le intuizioni sensibili pure a priori per giustificare la percezione intuitiva dei fenomeni spazio-temporali sui quali fonda la geometria e l’aritmetica. Ma anche l’aspetto propriamente attivo e razionale dell’a priori che giunge trascendentalmente alle categorie e allo stesso io penso, come principio unitario sintetico della conoscenza razionale si completa attraverso la dottrina dello schematismo trascendentale nella quale la sintesi diventa figurata nel senso che si sviluppa creando le regole per la comprensione razionale dell’esperienza in termini matematico-geometrici secondo il metodo sperimentale così come Galilei lo ha concepito.
Se dovessimo immaginare di costruire una linea della conoscenza, secondo lo schema elaborato da Platone ne La repubblica, dovremmo pensare a una concettualizzazione che dovrebbe seguire questa sequenza.
In primo luogo la conoscenza sensibile, la doxa platonica. Platone parlava di conoscenza apparente su due livelli distinti ma entrambi al di sotto della conoscenza scientifica che era di natura puramente razionale. Questa posizione della conoscenza sensibile è estranea al pensiero di Kant per il quale anche la sensibilità e le sue intuizioni pure, spazio-tempo, sono parte integrante della conoscenza scientifica, ne sono il punto di partenza oggettivo nell’esperienza attraverso la geometria e l’aritmetica. L’esperienza per Kant, a differenza di Platone, è misurabile, fatta di quelle qualità primarie teorizzate da Galilei.
Tuttavia anche per Kant c’è una conoscenza opinabile secondo lo schema ipotizzato da Platone. Si tratta anche qui di una forma di immaginazione, come l’eikasia platonica, che in Kant è l’immaginazione riproduttiva, da non confondersi con l’immaginazione produttiva dello schematismo trascendentale, come scrive lo stesso Kant:
«Ora, per ciò che l'immaginazione possiede di spontaneità, io la designo talvolta anche col nome di immaginazione produttiva, distinguendola così dalla riproduttiva, la cui sintesi ubbidisce semplicemente a leggi empiriche, cioè a quelle dell'associazione, la quale non è in grado di dare alcun contributo alla spiegazione della possibilità della conoscenza a priori, e rientra, anziché nella filosofia trascendentale, nella psicologia».
Questa immaginazione, ripetiamo, non è ovviamente quella produttiva dello schematismo perciò è fuori dalla scienza, dal trascendentale. Allo stesso modo, per analogia, si può ritrovare un livello di conoscenza sensibile paragonabile alla pistis, credenza, che può essere individuato nel giudizio sintetico a posteriori. Sono tali i giudizi che si formulano solo dopo aver fatto esperienza e per questo, essendo collegati alla sensibilità, non hanno universalità e necessità ma sono estensivi della conoscenza. Questo è il tipo di giudizio usato da Hume che considera pertanto la scienza solo abitudine e credenza.
Dunque la conoscenza opinabile di Platone ritrova i suoi riferimenti anche in Kant nei due livelli che abbiamo individuato. Certo rispetto alla visione della conoscenza de La Repubblica diventa difficile, a tutta prima, ricollocare la struttura della conoscenza trascendentale kantiana, visto il suo stretto legame tra sensibilità e intelletto. La conoscenza razionale platonica, l’episteme, riguarda infatti la pura conoscenza razionale suddivisa in dianoetica e noetica. La prima in Platone simboleggia la conoscenza matematica la seconda la dialettica. Quest’ultima sarà oggetto del confronto nelle pagine successive, partendo dalla dialettica trascendentale della ragione in Kant. Mentre la prima, la conoscenza dianoetica, stimola ulteriori riflessioni nell’accostamento tra le due visioni della conoscenza. Per Platone la conoscenza discorsiva, dianoetica, è rappresentata dal procedimento ipotetico deduttivo della geometria che implica una dimensione deduttiva e dunque un antecedente e un conseguente. Questa struttura razionale in Kant è sempre legata in qualche misura alla capacità di conoscere razionalmente l’esperienza in quella scienza mista che sta proprio esattamente a metà strada tra doxa ed episteme platonica. A dire il vero quella scienza media come doxa vera si ritrova nel lungo lavoro di affinamento ed approfondimento delle idee che Platone sviluppa nei dialoghi dialettici a partire dalle riserve critiche del Parmenide. Ma per ciò che interessa il confronto con Kant, partendo dalla questione della scientificità, i parametri de La repubblica sono già molto ricchi di implicazioni critiche.
Visto il ruolo e il senso che la conoscenza dianoetica assume all'interno dell’impalcatura della scienza kantiana ipotizziamo che questo ruolo discorsivo spetti di diritto alle categorie e all'io penso. L’insieme delle categorie e della deduzione trascendentale, che culmina nell’io penso quale principio sintetico del pensiero, ha i caratteri di discorsività che Platone attribuiva alla conoscenza dianoetica della geometria perché ne mantiene la valenza e il significato ordinatore nei confronti dell’esperienza. Sono il piano razionale superiore al quale Kant affida, attraverso l’analisi trascendentale, il compito di dare universalità razionale all'esperienza. Esattamente quel compito che discorsivamente anche per Kant esercitano le categorie.
Se infine affidiamo all'immaginazione produttiva il compito di scienza media, visto che produce schemi da applicare all'esperienza, si può dire che la linea del sapere kantiano può essere così riassunta:
doxa composta da eikasia (immaginazione riproduttiva di ordine psicologico) e pistis (giudizio sintetico a posteriori non necessario ma semplice incremento della conoscenza senza alcuna necessità).
Scienza media o mista nella quale si ritrova l’immaginazione produttiva capace di dare regole costruttive per raggiungere l’esperienza attraverso modelli di spiegazione definiti con la dottrina dello schematismo trascendentale.
Infine Episteme come pura conoscenza discorsiva ottenuta attraverso l’impiego delle categorie e della loro deduzione trascendentale in quanto basate su giudizi sintetici a priori. Manca del tutto una riflessione sulle dinamiche razionali delle unificazioni prodotte dalle categorie e una trattazione della dialettica in senso positivo perché, come vedremo, per Kant, almeno qui nella Critica della ragion pura, la dialettica e sinonimo di illusione ingannevole e non possiede alcuna rilevanza scientifica.