Al tempo della fondazione della Georgia (1732), le colonie potevano ormai contare su di una popolazione di 1.500.000 abitanti, profondamente legati alla madrepatria ed ancora poco consapevoli del loro essere americani. Le colonie della Nuova Inghilterra (Massachusetts, Rhode Island, Connecticut, Maine e New Hampshire), le più omogenee dal punto di vista etnico e religioso, erano quelle con maggiori mire espansionistiche verso Ovest e che vivevano dell'attività marinara. La Chiesa rivestiva un ruolo di notevole importanza, soprattutto dal punto di vista educativo, nonostante la rigidità di vita e di costumi del primo periodo si fosse affievolita. Lo sviluppo culturale era già notevole e la schiavitù andava scomparendo.
Le colonie del centro erano invece di gran lunga le più cosmopolite, composte da svedesi, tedeschi, inglesi, olandesi e vari altri gruppi etnici che si erano stabiliti nel New Jersey, in Pennsylvania, nel Delaware ed a New York. L'agricoltura si era sviluppata velocemente ed i proprietari si erano ben presto arricchiti grazie alla varietà delle coltivazioni e ad una migliore capacità di distribuzione dei prodotti, dovuta anche alla presenza di un fiorente commercio. Venivano importati manufatti, tabacco e vino ed esportati legname pellicce e grano. Anche l'artigianato era diffuso e qualche piccola industria cominciava a sorgere specie in Pennsylvania.
La società di New York e Filadelfia era sicuramente la più raffinata e tollerante del paese; amante della cultura e della politica, viveva in belle case, ed era composta da proprietari terrieri, mercanti ed un buon numero di avvocati. Di carattere prettamente rurale erano invece le colonie del Sud, con poche grandi città, territori scarsamente popolati, grandi tenute e immense piantagioni di cotone.
Qui la schiavitù era diffusa a tal punto che il rapporto numerico tra popolazione bianca e di colore era praticamente paritario. Gli schiavi arrivavano in gran parte dalle coste occidentali dell'Africa ed il mercato di Charleston era il più attivo del Nuovo Mondo; venivano comprati a gruppi o barattati con tabacco e riso, vivevano in capanne presso i campi e venivano costretti a lavorare duramente. La scarsa densità della popolazione, disseminata su ampi territori, determinava la necessità delle comunità di essere il più possibile autosufficienti. Ciò aveva provocato l'isolamento della Virginia, del Maryland e della Carolina rispetto alle altre colonie, con la conseguenza che i rapporti commerciali tra esse venivano gestiti direttamente dai grandi proprietari, determinando così l'assenza del ceto mercantile. Di spirito indipendente, i coloni del Sud non davano grande importanza all'aspetto culturale, ma erano appassionati delle scienze e sinceri amanti della politica.
Le caratteristiche delle colonie che si rivoltarono all’egemonia inglese erano quindi quanto mai varie per personalità, cultura e religione. I costi della politica coloniale, sempre maggiori, portarono l’Inghilterra all’imposizione di nuove tasse, le quali, non potendo gravare soltanto sui sudditi della madrepatria, ricaddero anche sui coloni.
Nel 1763 fu imposto lo Stamp Act, o legge sul bollo, un’imposta sulle pubblicazioni a stampa e sui documenti legali, poi fu la volta del tè e degli altri manufatti coloniali. L’introduzione di nuove tasse accrebbe il già latente malcontento, mentre le limitazioni allo sviluppo delle attività commerciali delle colonie resero ancora più grave la situazione. Non erano tanto i provvedimenti a suscitare le proteste americane, quanto piuttosto il modo in cui erano stati promulgati: poteva il parlamento inglese imporre tributi a coloro che in esso non erano rappresentati? La protesta da economica e fiscale divenne così una protesta politica.
Già teatro di violente manifestazioni contro gli inglesi, Boston nel 1770 fu sede di una manifestazione durante la quale cinque coloni vennero uccisi dalle truppe britanniche. Una nuova scintilla divampò nel 1773, quando il Parlamento inglese affidò il monopolio del commercio del tè alla sola Compagnia delle Indie Orientali, escludendo così dagli affari gli intermediari americani. Appoggiati dall’organizzazione dei Figli della libertà, con un manifesto pubblicato a Filadelfia il 27 dicembre 1773 essi invitarono allora i coloni a boicottare la legge e a sabotare le navi inglesi. Il boicottaggio culminò nell’episodio passato alla storia come il Boston Tea Party, in cui un gruppo di aderenti ai Figli della Libertà, travestiti da pellerossa, gettarono a mare l’intero carico di tè di tre navi inglesi agli ormeggi. Per ritorsione, gli inglesi bloccarono il porto e privarono il Massachusetts di ogni autonomia amministrativa.
Sull’onda delle polemiche con l’Inghilterra, seguite all’intransigenza del re Giorgio III nel concedere sgravi fiscali e benefici economici ai coloni, nel settembre 1774 si riunì a Filadelfia il primo Congresso continentale, al quale parteciparono i delegati delle tredici colonie atlantiche. Essi si attribuirono il potere esclusivo di legiferare sui propri affari, decidendo anche di sospendere i rapporti commerciali con l’Inghilterra. Ogni colonia si dotò di una costituzione propria, formando ciascuna uno stato a sé stante. Ogni tentativo di mediazione con la madrepatria fallì e lo scontro divenne inevitabile. Preceduto dal boicottaggio delle merci inglesi e da scaramucce verificatesi a Boston fin dal 1770, il conflitto esplose il 18 aprile 1775.
Il 4 luglio 1776 i delegati delle tredici colonie britanniche si riunirono a Washington per proclamare l’indipendenza degli Stati Uniti d’America.
Il testo della Dichiarazione d’Indipendenza era stato preparato da un comitato del quale facevano parte Thomas Jefferson (1743-1826), John Adams (1735-1826) e Benjamin Franklin. Ispirata ai principi filosofici dell’Illuminismo, che ormai aveva varcato l’oceano, la dichiarazione fu redatta per lo più da Jefferson, futuro presidente della Confederazione.
Intanto l’esercito regolare inglese e le milizie coloniali si affrontarono a Lexington, nei pressi di Boston.
Nel mese di giugno il Congresso delle colonie allestì un vero e proprio esercito al comando del generale George Washington (1732-1799). Le vicende della guerra si susseguirono con alterne vittorie fino al 1778, quando, su incitamento di Benjamin Franklin, la Francia intervenne schierandosi dalla parte dei coloni, seguita un anno più tardi dalla Spagna. Olanda, Russia e Svezia mantennero nel conflitto la neutralità. Con l’appoggio delle truppe e della flotta francese, Washington costrinse gli inglesi ad arrendersi a Yorktown il 19 ottobre 1781. Travolta dall’infelice esito bellico, l’Inghilterra fu costretta a firmare la resa. I preliminari di pace furono stipulati nel 1782 a Versailles; l’anno successivo il Trattato di Parigi sancì definitivamente l’indipendenza degli Stati Uniti d’America dalla Corona britannica. Era nato un nuovo stato, formato da europei ma situato al di fuori del Vecchio Continente, di là da un oceano.
Nel settembre 1787 fu approvata la Costituzione americana, che è pressappoco quella tutt’oggi in vigore. Ogni stato manteneva la propria autonomia nell’amministrazione della giustizia, nella regolamentazione dei culti religiosi e dell’ordine pubblico, aderendo invece ad un unico potere centrale per la politica estera, commerciale, monetaria e di difesa. Presidente, Congresso e Corte Suprema erano i tre poli attorno ai quali ruotava l’intero sistema istituzionale. Nel 1789 fu eletto il primo presidente degli Stati Uniti d’America, George Washington, in carica per due mandati consecutivi.
Otto anni più tardi gli succederà John Adams (1735-1826) e poi Thomas Jefferson (1743-1826), il principale estensore della Dichiarazione d’Indipendenza del 1776.
Tra i padri fondatori degli Stati Uniti d’America, Thomas Jefferson (1743-1826) occupa un posto di primissimo piano. Deista e simpatizzante del partito francese dei girondini, egli fu, assieme a Franklin, l’espressione più alta del pensiero illuminista americano. Il suo carattere multiforme si esercitò non soltanto in politica, ma anche nel campo dell’architettura e della progettazione di mobili e di argenti. Fiducioso nei confronti del futuro, versatile, attento ad ogni genere di attività e di progresso umano, egli espresse nel testo della dichiarazione tutto il suo talento letterario e la sua immensa cultura. Convinto sostenitore dei diritti democratici e nemico di ogni forma di privilegio e di potere autoritario, rappresenta, nel gruppo degli intellettuali che gettarono le basi della nuova nazione, l’espressione più avanzata di un’ideologia libertaria, fino al punto di giustificare la lotta armata contro l’oppressione di un governo ingiusto. È chiara l’influenza delle teorie antiassolutiste espresse dall’Illuminismo francese, ed in particolare dal Contratto sociale di Jean-Jacques Rousseau, che in Jefferson si trasformano da princípi astratti in concreta prassi politica, secondo un pragmatismo tipicamente americano. Le sue asserzioni delineano un'America che afferma un desiderio di nazionalismo e sanciscono quei principi fondamentali che saranno sempre alla base della politica americana. I fondamenti democratici del suo pensiero furono applicati al testo della Dichiarazione d’Indipendenza del 1776, di cui proprio Jefferson fu l’estensore materiale. L'unica opera letteraria di Jefferson è Notes on the State of Virginia nella quale esprime la convinzione che l'agricoltura avrebbe risparmiato agli americani il difficile destino europeo. La sua fiducia nella natura benigna e nella buona indole dell'uomo creò la base per la filosofia di Emerson e dei trascendentalisti del diciannovesimo secolo, ma fornì anche i presupposti di un’ ambiguità morale che costituirà un tema ricorrente della letteratura americana.