Sorta nella Magna Grecia quasi contemporaneamente alla scuola di Mileto, la scuola pitagorica ebbe il suo fondatore in Pitagora, nato a Samo intorno al 570.
Figura per molti tratti leggendaria, sembra che Pitagora abbia viaggiato a lungo in Oriente e soprattutto in Egitto prima di approdare a Crotone, nel golfo di Taranto, ove riunì una setta di ispirazione mistico-religiosa, in cui sono evidenti alcuni tratti dell'orfismo.
Era l’orfismo una dottrina che accompagnava la celebrazione dei misteri eleusini, ai quali erano ammessi tutti i greci, uomini e donne, liberi e schiavi. Sappiamo poco di questa tipica espressione della religiosità popolare greca, poiché i suoi adepti erano tenuti al segreto e di fatto in gran parte lo mantennero. Certo si trattava di un'iniziazione e di una rivelazione finale il cui scopo era di assicurare agli iniziati un destino felice dopo la morte. Parte del processo iniziatico era costituito dalla narrazione delle vicende del mitico cantore Orfeo, le cui composizioni poetiche si tramandarono in Grecia oralmente per secoli; in seguito esse vennero raccolte per iscritto, in una vicenda che prese complessivamente più di mille anni. Tipica dell'orfismo era la dottrina dell'immortalità dell’anima: dopo la morte l'anima tornava ad incarnarsi in nuovi corpi, animali o umani, a seconda delle colpe commesse in vita (dottrina della trasmigrazione delle anime o metempsicosi). In queste reincarnazioni l'anima perdeva memoria delle incarnazioni precedenti. Solo la purificazione misterica poteva garantire all’anima un processo di progressiva salvezza dalla ricaduta in corpi e in forme di vita inferiori, sino alla completa liberazione.
I pitagorici sostennero a loro volta la teoria della metempsicosi, ma il loro tratto caratteristico fu di inserire la sapienza come strumento di purificazione. In questo senso la loro scuola fu al contempo una setta mistica e un luogo di formazione della sapienza e della scienza.
A Crotone la fama di Pitagora attrasse allievi da ogni parte della Magna Grecia. La scuola era organizzata gerarchicamente ed era fondata sull'apprendimento della dottrina del maestro, compendiata in brevi aforismi o "dogmi". Pitagora, sembra, li impartiva ai giovani discepoli nascosto da una tenda. Dopo cinque anni di noviziato i discepoli erano ammessi alla presenza di Pitagora e vivevano con lui come amici. Questo tratto "dogmatico" della dottrina pitagorica è ben riassunto dal motto, divenuto celebre, che suonava, tradotto in latino: «Ipse dixit» («Lo ha detto lui» - e quindi è vero).
Come si è già accennato, il processo di apprendimento equivaleva ad un cammino di purificazione dell' anima, cammino nel quale la scienza o sapienza (che forse per primo Pitagora chiamò "filosofia") aveva un ruolo importante. Si trattava, come vedremo meglio tra breve, della dottrina del numero e dei rapporti quantitativi tra le figure geometriche (a Pitagora si attribuisce infatti l'invenzione del teorema che porta ancora il suo nome).
Ma a Pitagora erano anche attribuite doti di taumaturgo, cioè di ispiratore di eventi miracolosi e straordinari, capacità soprannaturali di guarito re ecc. Varie leggende ne divinizzarono la figura nel tempo: si diceva che possedesse il dono dell'ubiquità, che avesse una coscia d'oro e simili.
A Crotone i pitagorici conquistarono anche il potere politico, alleandosi con il partito aristocratico. In seguito la setta e la sua dominazione politica si diffusero anche a Sibari, Reggio, Agrigento, Tauromenio (l'attuale Taormina) e in altre colonie greche della Magna Grecia.
Alla lunga ciò determinò la reazione del partito democratico, che condusse infine alla cacciata violenta dei pitagorici. Prima o subito dopo la distruzione della sua setta a Crotone pare che Pitagora riparasse a Metaponto, ove morì.
Altri pitagorici fondarono però altrove nuove comunità, come Archita a Taranto, Filolao a Tebe ed Eurito a Fliunte, dando vita a un cosiddetto secondo pitagorismo. Ciò ha creato agli studiosi vari problemi, perché dai frammenti rimastici non è facile differenziare nettamente le dottrine del primo e del secondo periodo della scuola, che si estese ben oltre l'età dei presocratici.
Analogamente bisogna riconoscere che non sappiamo nulla di preciso circa la dottrina direttamente ed effettivamente impartita da Pitagora, dottrina che gli allievi dovevano tra l'altro custodire in segreto.
Come riferisce Aristotele, i pitagorici scorsero nel numero quel principio o arché che, meglio degli elementi naturali come l'acqua o il fuoco, può spiegare le trasformazioni dei fenomeni della natura e l'essenza delle cose. Nulla può essere compreso senza il numero, dicevano i pitagorici: esso incarna l'armonia del tutto ed è principio di saggezza per l'uomo.
Per comprendere questa dottrina del numero bisogna ricordare che i pitagorici non distinguevano ancora tra aritmetica e geometria (donde il termine "aritmogeometria" attribuito dai moderni alla loro dottrina).
Essi concepivano l'unità come un'entità discreta e reale. Simbolicamente la raffiguravano con una pietruzza (in latino calculus, donde l'accezione moderna del termine "calcolare"). La serie dei numeri si formava quindi per la combinazione di unità concrete che davano luogo a figure geometriche. Il numero due, per esempio, equivaleva a una linea, il tre al triangolo, il quattro al tetraedro, cioè a una piramide, e così via, sino a comprendere tutte le figure piane e solide.
Il numero era pertanto concepito come una figura spaziale. È comprensibile allora che i pitagorici vedessero nei numeri, così intesi, l'essenza profonda e il modello delle cose esistenti in natura, riducendo queste ultime alla loro figura geometrica costitutiva o alle combinazioni di più figure.
Filolao, il grande pitagorico della seconda generazione, spiegava la differenza tra gli elementi naturali (terra, acqua, aria, fuoco ed etere, cioè l'elemento che compone i corpi celesti) con la diversità della forma geometrica delle parti di materia che caratterizzavano gli elementi stessi.
D'altra parte, se il numero è l'essenza profonda delle cose, allora le proprietà numeriche sono anche proprietà delle cose: per esempio l'opposizione tra pari e dispari, uno e molteplice, limitato e illimitato ecc. si rispecchiano in vari fenomeni della natura.
Ne è un esempio l'attribuzione del dispari al maschile e del pari al femminile: il dispari disegna una figura perfetta, cioè definita, in quanto la divisione delle sue pietruzze non può procedere all'infinito, arrestata dall'ultima pietruzza. Il pari invece non può arrestare la divisione infinita tra le sue pietruzze, perché, per esempio, tra le pietruzze del due non c'è arresto in una terza pietruzza.
Bisogna tener presente che secondo la mentalità greca, a differenza dalla nostra, la perfezione appartiene a ciò che è ben determinato e definito (péras), mentre l'infinito o l'indefinito ha una natura inquietante e imperfetta. Ne vedremo una conseguenza nella stessa dottrina pitagorica.
Inoltre i pitagorici consideravano l'uno non come un numero, ma come il principio generatore della serie dei numeri. L'unità, infatti, ha in sé sia la natura del pari sia quella del dispari; esso è pertanto "parimpari". Aggiunto a un numero qualsiasi, l'uno lo rende pari (se è dispari) e viceversa. La serie comincia dunque con l'opposizione del due e del tre. Poiché il due è il femminile ed il tre il maschile, la loro somma, il cinque, esprime l'accoppiamento o il "matrimonio". Di tali analogie la dottrina pitagorica era fertilissima.
In particolare i pitagorici trassero dalla serie numerica un elenco di opposizioni o di categorie che riprendevano in modo nuovo i contrari di Anassimandro. Questa serie di opposizioni diede luogo a dieci categorie fondamentali cui ricondurre tutti fenomeni; esse erano così concepite: pari e dispari, uno e molteplice, limite e illimitato, sinistra e destra, femmina e maschio, stasi e movimento, curva e retta, oscurità e luce, male e bene, rettangolo e quadrato.
Numero perfetto era considerato il dieci, chiamato la divina tetraktys, sulla quale i pitagorici erano soliti giurare. La perfezione della sua figura stava in ciò: che essa componeva un triangolo equilatero di quattro pietruzze per lato. Inoltre comprendeva il parimpari, cioè l'uno, e successivamente i primi tre numeri della serie, con le loro fondamentali figure e qualità (1+2+3+4=10).
Straordinariamente audaci e innovative erano l'astronomia e la cosmologia della scuola. I pitagorici enumeravano dieci corpi celesti fondamentali, calcolati in base a quella perfezione della quale la tetraktys, cioè il numero 10, era il modello.
Vero è che allora i corpi conosciuti (Terra, Luna, Sole e i principali pianeti) erano solo nove. Ma i pitagorici vi aggiunsero l'antiterra che essendo pensata come antipodale alla terra, per questo non era osservabile. L'antiterra mostrava però la sua presenza e la sua efficacia nelle eclissi, frapponendosi appunto fra la Terra e il Sole o la Terra e la Luna, che ne rispecchiavano l'ombra. Sagace soluzione che, mentre rispettava la divina regola del dieci, cercava nel contempo di fornire una spiegazione razionale e "matematica" del fenomeno delle eclissi, liberandolo dalle tradizionali interpretazioni superstiziose che lo consideravano invece espressione di interventi degli dèi, segno di punizioni celesti, presagio di sventure ecc.
I corpi celesti sono in movimento intorno a un grande fuoco centrale. Il geniale Filolao ebbe l'audacia di concepire anche la Terra in movimento, sia di rotazione sul suo asse, sia di rivoluzione intorno al fuoco centrale. Essa non è posta immobile al centro dell'universo, come tutta l'antichità la concepì: intuizione che richiederà ben due millenni per essere ripresa in considerazione dalla scienza moderna.
Nel loro moto vorticoso i corpi celesti producono un suono accordato secondo proporzioni perfette. L'insieme genera l’“armonia delle sfere”: una musica divina che si spande per tutto l'universo, ma che l'orecchio umano non percepisce perché il suono non è mai intervallato da silenzi.
La relazione tra astronomia e musica istituita dai pitagorici continuerà a influenzare per secoli la storia della cultura. Si narra d'altronde che Pitagora intuì l'importanza del numero proprio osservando la relazione tra altezza del suono e lunghezza delle corde che lo emettono. La metà di una corda posta in vibrazione produce infatti il medesimo suono della corda intera, ma all'ottava superiore; due terzi della corda, il quinto suono della scala; tre quarti, il quarto e così via. Ciò mostrava che la qualità del suono dipendeva dalla quantità numerabile della lunghezza della corda. Di qui la supposizione che tutti i fenomeni qualitativi della natura fossero riducibili a puri rapporti di quantità. Intuizione che basta da sola a mostrare la grande fecondità del pitagorismo per la nascita di una mentalità razionale e scientifica.
Anche l'anima era ricondotta dai pitagorici all'armonia numerica: essa custodisce il numero che regola la vita delle componenti del corpo e, quando il corpo si decompone con la morte, l'anima, cioè la sua armonia numerica, gli sopravvive immortale.
La dottrina pitagorica dei numeri, la loro caratteristica aritmogeometria, si dice che entrò in crisi quando i pitagorici scoprirono l'incommensurabilità del rapporto tra la diagonale e il lato del quadrato. Non esiste infatti un numero intero che possa essere contenuto esattamente un determinato numero di volte nella diagonale e nel lato.
I pitagorici si scontrarono così con il problema dell'infinito matematico al quale la scienza antica non seppe mai dare una soluzione accettabile: bisognerà per questo attendere l'età moderna (e taluni aspetti problematici del concetto di infinito sono tuttora discussi tra gli studiosi).
Narra la leggenda che la scoperta dell'incommensurabilità della diagonale e del lato venne a lungo tenuta nascosta e segreta dai pitagorici, sino a che Ippaso, un pitagorico dissidente cacciato dalla setta, se ne vendicò rendendola palese. Da questo episodio sarebbe derivata la crisi del primo pitagorismo.