Mentre Socrate affidò il suo insegnamento esclusivamente al discorso parlato, Platone, suo discepolo, scrisse trentaquattro dialoghi, che in gran parte hanno Socrate come protagonista. Se si confronta l'ampia produzione platonica con il carattere orale dell'insegnamento socratico, o con l'esiguità dei testi dei filosofi presocratici, si comprende come essa segni una svolta decisiva nelle modalità della comunicazione filosofica.
L'opera di Platone rappresenta infatti il punto di passaggio fra il sapere fondamentalmente orale dei primi filosofi (Socrate incluso) e la fase, che dura fino a oggi, in cui la riflessione filosofica si sedimenta in una tradizione scritta che ha il carattere di un'acquisizione intellettuale stabile, disponibile per generazioni successive di lettori e, quindi, passibile di sempre diverse interpretazioni.
L'opera di Platone presenta tuttavia una singolare contraddizione: fondatore della "letteratura filosofica", egli si esprime infatti in termini assai critici nei confronti della scrittura.
Nel Fedro egli afferma che essa abitua gli uomini a cercare la verità all'esterno, nei segni scritti, e non all'interno di se stessi.
Quindi essa non promuove apprendimento e vera sapienza (sophia): le nozioni fornite dalla pagina scritta, non essendo frutto di un ragionamento personale, non si fìssano solidamente nell'anima e rimangono fluttuanti al livello superficiale dell'opinione (doxa).
Platone sostiene inoltre che il discorso scritto è rigido: esso dice sempre la stessa cosa e non può rispondere a domande e obiezioni. Rivolgendosi sia a chi è in grado di capire, sia agli incompetenti, esso è esposto a fraintendimenti dai quali non può difendersi.
Di tutt'altra natura sono i discorsi "scritti nell'anima", cioè nati e sviluppati nel dialogo orale. A essi il filosofo affiderà ciò che ha di più prezioso, depositando nelle anime adatte i semi di un sapere duraturo. E Platone conferma nella Settima lettera, scritta in tarda età, di avere operato egli stesso in questo modo: «sui principi primi della mia filosofia, egli dichiara, non c'è, né vi sarà, alcun mio scritto.
Perché non è, questa mia, una scienza come le altre: essa non si può nello stesso modo comunicare, ma come fiamma s'accende da fuoco che balza: nasce d'improvviso nell'anima dopo un lungo periodo di discussioni sull'argomento e una vita vissuta in comune, e poi si nutre di se medesima» (Settima lettera, 341 c-d).
Gli studiosi che seguono questa linea interpretativa ritengono che le critiche rivolte da Platone alla scrittura valgano per gli stessi dialoghi i quali, quindi, non vanno considerati espressione dell'intero pensiero di Platone ma rimandano a un contenuto superiore, consistente appunto nelle lezioni Sul bene, che costituisce lo sfondo necessario per la loro comprensione.
Gli studiosi, che negano l'esistenza di una dottrina orale distinta da quanto Platone ha esposto nei dialoghi, ritengono invece che egli intendesse escludere dalla critica alla scrittura la propria opera in quanto essa, grazie alla forma dialogica, riuscirebbe a mantenere nella pagina scritta l'immediatezza e la tensione del colloquio orale.
Il dibattito interpretativo è tuttora aperto; è comunque possibile stabilire, con una certa sicurezza, due punti:
a) in conformità all'insegnamento socratico, Platone ritiene che il luogo di formazione e di trasmissione della verità non sia la pagina scritta ma il vivo colloquio fra persone strette da legami personali e dedite a una costante pratica scientifica in comune. Ciò che avviene in tali colloqui può essere solo approssimativamente riprodotto dalla scrittura, che è dunque, come si afferma nel Fedro, un'immagine o copia del discorso vivente;
b) d'altra parte, esiste uno stretto legame fra il primato che Platone attribuisce al colloquio vivente e la forma dialogica da lui scelta per le sue opere. Essa è superiore a tutte le forme di scrittura poiché, mimando una conversazione reale, non offre al lettore un sapere in sé concluso e sistematicamente organizzato ma, coinvolgendolo nel dibattito fra i personaggi, lo stimola a interrogarsi personalmente e a cercare la verità «nella propria anima».
Presentando la propria filosofia in forma dialogica, Platone trasmette un'immagine del sapere come ricerca intersoggettiva e confronto fra punti di vista diversi. Quest'osservazione ci consente di rintracciare le matrici storiche del dialogo platonico: esse stanno innanzitutto nella sofistica, che come sappiamo aveva dedicato particolare attenzione all'arte del discorso e alla tecnica della persuasione, e più immediatamente nel dialogo socratico, che si era misurato sul medesimo terreno della sofistica e aveva affrontato i medesimi temi. Il dialogo platonico rappresenta tuttavia un punto di rottura rispetto all'esperienza filosofica dei sofisti e dei retori: proprio nel dialogo, infatti, Platone individua la procedura che consente di superare il divario fra realtà e linguaggio apertosi con la sofistica e di restituire al discorso umano la funzione di svelare la vera natura delle cose. La discussione dialettica che avviene nel dialogo (dialèghesthai = ragionare, discorrere insieme) e il discorso retorico quindi si contrappongono, in quanto rispecchiano due diverse concezioni del linguaggio: veritativa la prima, persuasiva la seconda.
Come si ricorderà, la retorica nasce dalla convinzione che l'uomo non possa raggiungere una verità definitiva: ciò che egli può e deve fare, è muoversi nell'ambito delle opinioni cercando di individuare quelle più probabili o più utili, e di sostenerle mediante argomentazioni plausibili.
L'ambito naturale del discorso retorico non è quindi quello della verità e della scienza, ma quello della verosimiglianza e dell'opinione. Anche la discussione dialettica appare immediatamente come un confronto di opinioni: leggendo un dialogo di Platone, siamo immersi in un clima che ricorda le Antilogie di Protagora e i discorsi di Gorgia; assistiamo allo scontro fra tesi diverse; ci troviamo coinvolti in strategie persuasive di stampo tipicamente retorico, attuate non di rado dallo stesso Socrate. Tuttavia, ciò che caratterizza il dialogo platonico e ne fa un momento decisivo nel costituirsi della razionalità occidentale, è il tentativo di introdurre nella discussione particolari procedure logiche e linguistiche mediante le quali quest'ultima supera la contrapposizione dei punti di vista particolari e tende a un sapere valido per tutti, trasformandosi così da dibattito di opinioni a luogo di costruzione della scienza (epistème). Assumendo quale punto di riferimento i dialoghi giovanili e della prima maturità, possiamo individuare almeno tre di queste procedure argomenta- tive: la confutazione, la ricerca della definizione, l'omologhìa.
Come abbiamo visto, la confutazione è lo strumento con cui Socrate demolisce le false opinioni dei suoi interlocutori. Essa consiste in una serie di domande che Socrate, nel ruolo di interrogante, pone al suo interlocutore sollecitando chiarimenti sulla posizione che questi ha inizialmente sostenuto.
Le domande poste inducono chi risponde ad affermazioni che alla fine si riveleranno contrastanti con la sua tesi iniziale: egli si sarà quindi contraddetto e autoconfutato. Già Zenone aveva utilizzato uno schema analogo per difendere la filosofia di Parmenide dagli attacchi avversari; i Sofisti avevano poi a loro volta adoperato il metodo della confutazione, inteso però in senso esclusivamente distruttivo: essa serviva infatti a demolire le opinioni avversarie, senza però contrapporvi una verità superiore.
Per Socrate, invece, proprio il fatto che tutte le opinioni siano confutabili indica la necessità di oltrepassarle verso un'esperienza conoscitiva di ordine diverso: la confutazione serve dunque a rendere l'interlocutore consapevole della propria ignoranza e a istituire in lui una tensione verso la verità.
Platone fa un passo ulteriore: per lui, la confutazione è la procedura discorsiva che, segnando il passaggio dal piano della doxa al piano della scienza (epistème), permette in questo modo l'emergere di un autentico sapere.
Nel Gorgia, dialogo che appartiene alla prima maturità di Platone, appare chiaramente come la confutazione, che nei dialoghi giovanili serviva a evidenziare gli errori logici degli interlocutori di Socrate senza però che venisse loro proposta una soluzione in positivo, non sia più fine a se stessa: nel criticare le posizioni degli avversari, infatti, Socrate li costringe contemporaneamente ad accettare il proprio discorso, che si presenta come l'unico inconfutabile, perché scientificamente fondato. La confutazione permette il passaggio dalla molteplicità del discorso opinabile all'unicità del discorso scientifico: è dunque lo strumento logico che permette di discriminare il vero dal falso, o dal semplicemente probabile.
Accanto al momento critico della confutazione, vi è quello positivo della ricerca della definizione. Essa per Platone consiste nel ricercare l'elemento comune a una molteplicità di casi, l'identico che permette di raccoglierli tutti sotto un unico concetto. Ma mentre per Socrate tale elemento comune è il risultato di un'operazione intellettuale che consente di unificare mentalmente esperienze diverse, per Platone esso coincide con l'essenza (ousia) della cosa, o, per utilizzare un termine chiave del vocabolario platonico, con la sua idea (eidos).
Per Platone, l'idea è la vera natura dell'oggetto, ciò che l'oggetto è in sé, e che la ragione può cogliere al di là dell'apparenza sensibile in cui l'oggetto si manifesta. Quando perciò nel dialogo ci si chiede che cos'è un determinato oggetto, e si cerca di definirlo, non si compie solo un'operazione linguistica ma, muovendo da una riflessione sulle parole, ci si interroga sulle cose.
Il nesso fra essere e linguaggio, che era stato spezzato dai sofisti, viene pertanto ricomposto: la definizione infatti, oltre a farci conoscere l'essenza di un oggetto, permette di stabilire una volta per tutte il valore dei termini, vincolandoli a un contenuto preciso: il significato del termine "ape", per esempio, è fissato una volta per tutte quando si è compreso che cos'è un'ape, quando cioè si è individuata l'idea di ape.
Sottratte all'ambiguità e alle oscillazioni di significato che la retorica aveva evidenziato e valorizzato, le parole diventano quindi lo specchio delle idee, quindi dell'essere, perciò il linguaggio nel suo insieme diviene uno strumento mediante il quale è possibile conoscere il mondo.
L'omologhìa, infine, è il momento che, nel dialogo, sancisce l'accordo fra i partecipanti, dunque la convergenza in una verità riconosciuta da entrambi.
Anche su questo punto, il dialogo platonico e il discorso retorico evidenziano una matrice comune: per entrambi, infatti, l'intersoggettività e la comunicazione sono gli ambiti imprescindibili entro i quali si misura l'efficacia del discorso, il quale, quindi, raggiunge il suo scopo unicamente nel consenso.
Mentre il retore cerca un'adesione di tipo emotivo, che prescinda dal contenuto di verità delle tesi formulate (Platone la designa con il termine synchoresis), l'omologhìa è invece un assenso razionale, che si verifica quando l'argomentazione dell'uno viene realmente compresa, riconosciuta come vera e fatta propria dall'altro.
Essa si verifica, quindi, quando due individui attraverso il dialogo concordano su di un logos universale che, come diceva Eraclito, è il "mondo comune" degli uomini.
Affinché ciò si verifichi, è indispensabile che il discorso risponda a determinati criteri. In primo luogo, occorre che le tesi non vengano semplicemente enunciate, ma motivate: non basta cioè affermare che le cose stanno così, ma bisogna spiegare perché stanno così, e non in un altro modo. In secondo luogo, occorre mostrare che, poste certe premesse, le cose stanno così e non possono stare altrimenti.
Affinché un'argomentazione possa produrre nell'altro un assenso razionale, essa deve dunque esibire i propri fondamenti, mentre, reciprocamente, solo l'assenso razionale garantisce che quanto viene detto non è espressione di una prospettiva particolare, ma di una verità necessaria, riconoscibile da tutti.
L'omologhìa, d'altra parte, può realizzarsi solo fra individui singoli, non fra un individuo e una folla. Una moltitudine di persone, infatti, può essere persuasa da un retore; può venire sedotta da un dittatore o da un tiranno; ma soltanto l'individuo può comprendere le ragioni dell'altro, rielaborarle nella propria mente, produrre obiezioni razionali oppure ritrovarsi razionalmente d'accordo.
Nel valorizzare la dimensione intersoggettiva come luogo di costruzione del sapere, Platone si differenzia dunque nuovamente dai sofisti e dai retori: non le piazze, non i tribunali, non le assemblee dove si affollano le voci dei molti, ma solo la situazione dialogica privata, che raggiunge e coinvolge l'individuo come singolo, può essere per l'uomo occasione di vera conoscenza.
Il dialogo platonico non è solo un insieme di procedure razionali per la soluzione di un problema teorico. Esso è anche discussione fra persone reali e confronto fra atteggiamenti mentali differenti: in breve, è un'esperienza di comunicazione.
Si tratta peraltro di una comunicazione particolare: gli interlocutori dei dialoghi non si incontrano per uno scambio casuale e disimpegnato di opinioni, né per approfondire la conoscenza reciproca, bensì per esaminare un problema e raggiungere, su di esso, un certo grado di conoscenza obiettiva. Affinché questa forma di dialogo (che potremmo definire "scientifico") produca un incremento di sapere, è necessario secondo Platone adottare un corretto atteggiamento sia nei confronti della verità che si ricerca, sia nei confronti dell'altro.
Come leggiamo nel Gorgia, ciò che maggiormente impedisce la maturazione di un atteggiamento di ricerca obiettiva è l'affrontare la discussione in modo conflittuale, temendo che essa si risolva in una diminuzione di sé e in una dimostrazione della superiorità dell'altro.
Chi dialoga in questo stato d'animo non può essere completamente concentrato sull'argomento, né abbandonarsi con totale disponibilità all'esito del ragionamento, in quanto teme che esso possa dargli torto. Questo tipo di interlocutore inoltre non accetterà la confutazione in quanto la vivrà con vergogna, come una diminuzione e una perdita.
L'invito rivolto da Socrate a Gorgia a dialogare in modo onesto e pacifico si pone evidentemente in contrasto con quella concezione agonistica del discorso che era stata propria della cultura sofistica. Secondo questa concezione, scopo del discorso non è cogliere la verità assoluta ma rafforzare il proprio punto di vista e imporlo.
Prevalere sull'avversario, specie in un contesto pubblico, diventa quindi essenziale poiché significa aver costruito un'argomentazione maggiormente efficace, che, sia pure provvisoriamente, è più adeguata a interpretare la situazione, a raccogliere in una sintesi plausibile gli elementi che essa mette in gioco e a suscitare consenso.
Se invece, come pensa Platone, esiste una verità assoluta e l'obiettivo della comunicazione umana è raggiungerla insieme all'altro, la dimensione agonistica perde significato, e il prevalere sull'interlocutore diviene non solo un fatto secondario, ma una preoccupazione che ostacola lo sviluppo del pensiero.
A sua volta la confutazione, che il sofista e il retore tendono a evitare, diventa un'esperienza positiva: poiché il dialogo si svolge in un clima di fiducia nella verità, essere confutati da un compagno più sapiente non sarà un'umiliazione definitiva e senza seguito, ma un passo in direzione del vero e quindi un mezzo per migliorare la propria condizione umana.
L'atteggiamento di disponibilità che così si istituisce consente di valorizzare, nel dialogo, l'importanza dell'altro. L'altro non è il destinatario di uno sforzo di persuasione - quindi di seduzione - come avviene nei lunghi discorsi dei retori, né un nemico da ridurre al silenzio mediante artifici logici, come avviene nelle dispute eristiche.
Se è in grado di muoversi liberamente nel discorso senza soggezioni o timori, egli può con le sue obiezioni o con le sue domande correggere il ragionamento, fornendo un indispensabile stimolo alla comprensione della cosa.
Nel dialogo, bisogna pertanto evitare di giudicare la persona dell'interlocutore, e rimanere invece concentrati esclusivamente sul contributo di pensiero che egli è in grado di offrire. Nel Gorgia, i personaggi tendono talvolta ad abbandonare l'argomentazione dialettica, per formulare critiche o insinuazioni sulla personalità dell'avversario.
Un simile atteggiamento non può che bloccare la discussione in una contrapposizione in cui gli interlocutori manifestano tutte le differenze che li dividono, senza riuscire a utilizzare il punto di vista altrui per ampliare il proprio.
La terza parte del Gorgia, in cui il conflitto fra le rispettive scelte di vita prevale sul ragionamento in senso stretto, e in cui Callicle interrompe bruscamente il colloquio con Socrate senza aver trovato con lui alcun punto di mediazione, illustra efficacemente questo esito possibile, in cui il dialogo si trasforma, da ragionamento comune, in contrapposizione irriducibile fra personalità diverse.
Proprio l'accenno allo scontro fra Socrate e Callicle consente tuttavia di sottolineare lo scarto fra le regole del dialogo istituite da Platone.
Esse possono probabilmente funzionare in una discussione privata fra individui accomunati dall'amore per la ricerca e la situazione comunicativa, ma non in una situazione caratterizzata da forti tensioni politiche, come quella che contrassegnava la vita ateniese ai tempi di Gorgia e che troviamo raffigurata nel dialogo.
Lo scarto fra le regole ideali dell'argomentazione e i contesti comunicativi concreti, segnati dalle passioni degli uomini, trova riscontro nella stessa opera di Platone. Nella sua produzione scritta, infatti, destinata a diffondere la sua filosofia in tutto il mondo di lingua greca, egli è retore assai più di quanto i suoi attacchi alla retorica farebbero pensare.
Osserviamo, per esempio, come egli costruisce il personaggio di Socrate: Socrate afferma che è positivo venire confutati, ma di fatto non lo è mai; si dice disposto a collaborare con l'interlocutore, ma non è mai posto da Platone su un piano di effettiva parità con gli altri; l'invito alla discussione docile e obiettiva vale solo per i suoi avversari, in quanto si suppone che egli non ne abbia bisogno; infine, egli invita a discorrere secondo la brachilogia (= discorso breve, dove si avvicendano rapidamente le domande e le risposte) perché ciò consente di controllare rigorosamente tutti i passaggi dell'argomentazione, ma poi si produce spesso in macrologi (= discorsi lunghi) di sapore retorico e non disdegna l'uso di sofismi. Socrate, insomma, stabilisce le regole del corretto dialogare, ma nello stesso tempo le trasgredisce.
Ciò ha un preciso significato: in Socrate, Platone vuole rappresentare non una dottrina particolare, bensì il punto di vista della filosofia, cioè del vero sapere, e mostrare che questa forma di sapere, in quanto conoscenza assoluta del vero, è superiore a tutte le altre.
Per imporre questa prospettiva contro il relativismo dei sofisti e dei retori, Platone non esita a ricorrere alle stesse armi degli avversari.
Fondatore delle regole dialogiche contro gli abusi del discorso retorico, Platone è dunque anche retore: una contraddizione che aiuta a comprendere più precisamente la figura del grande filosofo. Egli, infatti, nel momento in cui impone nuove regole al discorso razionale, raccoglie l'eredità della precedente cultura filosofica e ne riutilizza le strategie comunicative.
Oltre a segnare una tappa fondamentale nello sviluppo del pensiero, i dialoghi di Platone sono concordemente ritenuti opere di grande valore letterario. Nei confronti della poesia, e in particolare della tradizione epica e tragica, che dominava la cultura greca, Platone si esprime però in termini critici.
Nel X libro della Repubblica (il maggiore e il più importante dei dialoghi platonici), egli definisce i poeti come "imitatori" i quali, essendo sprovvisti di vera conoscenza, non riproducono ciò che veramente è, ma l'apparenza esterna e superficiale delle cose.
La vera conoscenza proviene invece dalla filosofia, e in particolare dalla dialettica come scienza delle idee: essa è la "medicina" che permette all'uomo di smascherare gli inganni dei poeti e di distinguere le false immagini che essi propongono dalla vera realtà. Inoltre, la filosofia abitua a vivere secondo ragione e a dominare le passioni, mentre la poesia fa leva sulla parte emotiva dell'anima e asseconda gli impulsi irrazionali. A causa di queste differenze, afferma Platone, «fra arte poetica e filosofia esiste un antico disaccordo» (Repubblica, X, 607b).
La critica di Platone ai poeti si può intendere come una battaglia culturale, finalizzata a contrastare il primato di Omero e dei tragici, che erano considerati la principale fonte di educazione intellettuale e morale del popolo greco, sostituendovi quello della filosofia. Tuttavia, il rapporto fra Platone e la tradizione poetica non si esaurisce in questa contrapposizione: fra i dialoghi e le opere d'arte che Platone disapprova esistono, infatti, profonde affinità.
Un'antica testimonianza narra che Platone da giovane scriveva tragedie, che poi bruciò dopo l'incontro con Socrate, e certo i dialoghi recano tracce consistenti di questa originaria passione per il teatro.
La prima caratteristica da evidenziare è la loro forma drammatica: i dialoghi platonici non espongono sistematicamente i risultati di una ricerca, ma trasformano quest'ultima in una vicenda, vissuta da personaggi ben caratterizzati sul piano umano e ambientata in un preciso contesto spazio-temporale.
Al pari dell'epica e della tragedia, il dialogo platonico organizza dunque i propri contenuti entro un impianto narrativo. Del tutto diversa dalla tradizione è invece la materia che i dialoghi platonici rappresentano: mentre i poeti epici e tragici rielaboravano le storie di dèi ed eroi che costituivano il patrimonio mitico-religioso dei greci, Platone rifiuta questa tradizione popolare, che ritiene una forma di falsificazione della realtà, e pone al suo posto gli unici oggetti che il filosofo deve "imitare": la verità (cioè la conoscenza delle idee) e la vita filosofica che a essa si ispira. L'oggetto dell’imitazione platonica andrà pertanto rintracciato a due livelli.
In primo luogo, avremo il dramma di Socrate: la sua unicità di individuo, il suo conflitto con la città, la lotta per affermare fino in fondo i propri valori, la morte. In questo unico dramma, che si ripropone in ogni dialogo e che sostituisce la pluralità dei miti tradizionali, Socrate in parte vive, e in un certo senso riassume, le stesse contraddizioni patite dagli eroi tragici, ma mentre questi ultimi vi rimangono irrimediabilmente implicati, testimoniando così la dolorosa ambiguità della condizione umana, Socrate le supera alla luce del logos, che è in grado di orientare l'uomo e di conferire un senso positivo alla sua esistenza.
A un secondo e più profondo livello, l'oggetto della mimesis platonica è appunto la ricerca del vero sapere, lo sforzo dell'uomo per dominare, mediante i concetti, il caos dell'esperienza. La tensione dialettica che anima i personaggi e li muove alla ricerca di un ordine razionale è il nucleo drammatico delle opere platoniche, ciò che tiene avvinto il lettore e che conferisce, a ciascun dialogo, la sua unità.
Per mantenere viva questa tensione, Platone non si affida soltanto allo sviluppo logico del discorso, ma ricorre alla sua abilità di drammaturgo. Mediante l'ambientazione dei dialoghi e l'accurata differenziazione dei caratteri, egli riesce infatti a presentare la ricerca filosofica come un evento che, pur rappresentando un momento privilegiato dell'esperienza, non si può separare dalla vita concreta ed è pertanto in grado di coinvolgere profondamente chiunque. Nello stesso tempo egli, avvicinandosi ancor più ai poeti, illumina i punti più oscuri e difficili dei suoi dialoghi attraverso un grande numero di miti.
I miti che incontriamo nei dialoghi platonici differiscono da quelli tradizionali non solo per la loro origine (Platone non li attinge dalla tradizione popolare ma li riprende dalla religione orfica, oppure li inventa personalmente) ma soprattutto perché rimandano sempre a una verità filosofica che Platone, in alcuni momenti del dialogo, sceglie appunto di esporre per immagini anziché per concetti.
Il mito è dunque un espediente narrativo, una favola che facilita la comprensione di contenuti troppo difficili; nello stesso tempo è anche l'occasione in cui Platone, passando dall'argomentazione razionale all'invenzione poetica, esprime la bellezza della verità filosofica, la possibilità che essa si mostri all'uomo non solo in forma concettuale ma anche come simbolo e figura.
L'impianto drammatico e la presenza del mito rivelano dunque, nei dialoghi platonici, non il "disaccordo antico" fra poesia e filosofia, ma, al contrario, il profondo legame che ancora unisce, nell'età di Platone, queste due espressioni dell'attività simbolica dell'uomo.
Questo legame, che la ricca personalità di Platone consente di evidenziare, andrà smarrito quando la riflessione filosofica avrà stabilizzato il proprio lessico e le proprie categorie e avrà definitivamente guadagnato la distinzione fra linguaggio poetico e linguaggio logico proprio del pensiero razionale.