Già a seguito del lavoro svolto nella Dissertazione del '70, Kant e giunto a vedere con chiarezza che se si ritiene sia l'oggetto conosciuto a rendere possibile la rappresentazione conoscitiva è inevitabile la conclusione scettica di Hume, visto che, come ha ben mostrato l'empirismo, noi abbiamo nozione della nostra esperienza della cosa, ma non possiamo mai scavalcare tale esperienza e sapere come la cosa sia in se stessa, indipendentemente dall'esperienza che noi ne facciamo.
Ciò significa che l'impostazione tradizionale della questione della conoscenza non può che condurre alla dichiarazione dell'impossibilità di una conoscenza universale e necessaria, e quindi dell'impossibilità di principio di qualsiasi scienza propriamente detta.
La strada intrapresa da Kant sarà proprio quest'ultima, diretta a spostare il polo della conoscenza dall'oggetto al soggetto: una conoscenza non sarà più da considerarsi "oggettiva" in quanto si fondi sulla supposta realtà in sé della cosa, ma sarà universalmente valida - e in tal senso oggettiva - in quanto fondata sulle strutture conoscitive del soggetto, strutture che sono la condizione generale e imprescindibile del darsi di qualsiasi esperienza. Un oggetto, dunque, per essere oggetto della nostra esperienza (ma è chiaro che a noi non è dato di avere oggetti se non facendone esperienza), dovrà conformarsi a tali condizioni, per cui non è l'oggetto a dare norma al conoscere, ma è il conoscere a dettar legge all'esperienza e all'oggetto che in tale esperienza si rende conoscibile.
Questa complessa rivoluzione filosofica, che capovolge le comuni opinioni del pensiero e i più diffusi e spontanei pregiudizi, trova espressione nella Critica della ragione pura, un'opera, come abbiamo visto, lungamente meditata da Kant, ma poi rapidissimamente stesa, «ponendo - come scrisse Kant stesso -la massima attenzione al contenuto, ma con poca cura della forma e di quanto occorre per essere facilmente inteso dal lettore». Tale trascuratezza e oscurità formale nocque indubbiamente molto all'opera che, sin dal suo primo apparire, venne profondamente fraintesa, sebbene la novità del suo contenuto non mancasse di impressionare e di suscitare ampie discussioni.
Kant, preoccupato di rendere più accessibili e chiare le proprie idee, rielaborò la materia della Ragione pura nei Prolegomeni ad ogni metafisica futura che voglia presentarsi come scienza, opera apparsa nel 1783; nel frattempo aveva ripreso in mano la stessa Critica, apportando qua e là mutamenti (talora considerevoli), non solo di forma, ma anche di contenuto.
Si giunse così, nel 1787, a una seconda edizione della Critica della ragione pura. È nella Prefazione a questa seconda edizione che Kant, riferendosi al capovolgimento gnoseologico dal quale il suo lavoro aveva preso le mosse, lo paragona al capovolgimento operato in campo astronomico da Copernico. Leggiamo dunque le pagine che descrivono quanto verrà da allora inteso come "rivoluzione copernicana" di Kant.
«La metafisica è una conoscenza speculativa della ragione, del tutto isolata, che si innalza totalmente al di sopra dell'ammaestramento dell'esperienza e fa ciò, a dire il vero, mediante semplici concetti (non già, come la matematica, mediante l'applicazione di questi all'intuizione): in essa dunque la ragione stessa dev'essere la scolara di se medesima. [...]
Orbene, da cosa dipende il fatto, che in questo campo non abbia ancora potuto essere trovata alcuna via sicura che porti alla scienza? È forse impossibile trovare tale cammino? Perché allora la natura ha afflitto la nostra ragione con l'incessante aspirazione a seguire le tracce di tale cammino, come si trattasse di uno dei suoi più importanti interessi? Di più, noi abbiamo davvero scarso motivo di riporre fiducia nella nostra ragione, se in questo campo, che è uno dei più importanti per il nostro desiderio di sapere, essa non soltanto ci abbandona, ma ci tiene a bada con miraggi ed alla fine ci inganna! Oppure, se sin ora abbiamo soltanto sbagliato strada, di quali segni possiamo servirci, per sperare, rinnovando le ricerche, che saremo più fortunati di quanto altri siano stati prima di noi?
Dovrei pensare che gli esempi della matematica e delle scienze naturali - le quali sono divenute ciò che sono ora con una rivoluzione prodottasi d'un tratto - siano abbastanza notevoli, per farci riflettere sulle linee essenziali della radicale trasformazione nel modo di pensare, che è stata tanto vantaggiosa per quelle, e per far sì che noi le imitiamo in questo campo, per lo meno a scopo di tentativo, in quanto ciò è permesso dall'analogia di esse, come conoscenze della ragione, con la metafisica. Si è ritenuto sinora che ogni nostra conoscenza debba regolarsi secondo gli oggetti: tutti i tentativi di stabilire su di essi, attraverso concetti, qualcosa a priori, mediante cui fosse allargata la nostra conoscenza, caddero tuttavia, dato tale presupposto, nel nulla. Per una volta si tenti dunque, se nei problemi della metafisica possiamo procedere meglio, ritenendo che gli oggetti debbano conformarsi alla nostra conoscenza. Già così, tutto si accorda meglio con la desiderata possibilità di una conoscenza a priori degli oggetti, la quale voglia stabilire qualcosa su di essi prima che ci vengano dati. La situazione al riguardo è la stessa che si è presentata con i primi pensieri di Copernico: costui, poiché la spiegazione dei movimenti celesti non procedeva in modo soddisfacente, sino a che egli sosteneva che tutto quanto l'ordinamento delle stelle ruotasse attorno allo spettatore, cercò se la cosa non potesse riuscire meglio, quando egli facesse ruotare lo spettatore e facesse per contro star ferme le stelle. Nella metafisica, orbene, si può fare un analogo tentativo, per quanto riguarda l'intuizione degli oggetti. Se l'intuizione dovesse conformarsi alla struttura degli oggetti, io non riesco allora a vedere come di essa si potrebbe sapere qualcosa a priori; ma se l'oggetto (in quanto oggetto dei sensi) si conforma alla struttura della nostra facoltà di intuizione, io posso allora rappresentarmi benissimo questa possibilità. Poiché tuttavia non posso arrestarmi a queste intuizioni, se si vuole che esse diventino conoscenze, ma debbo riferirle in quanto rappresentazioni ad un qualcosa come oggetto, e devo determinare questo mediante quelle, io posso allora, o ritenere che i concetti, attraverso i quali opero questa determinazione, si conformino del pari all'oggetto - ed in tal caso cado ancora una volta nel medesimo imbarazzo, riguardo al modo in cui io possa sapere in proposito qualcosa a priori - oppure penso che gli oggetti o, ciò che è lo stesso, l'esperienza (nella quale soltanto, in quanto oggetti dati, essi vengono conosciuti) si regolino secondo questi concetti. In tal caso io scorgo senz'altro una più semplice prospettiva, poiché l'esperienza stessa è una specie di conoscenza, che rende necessario l'intelletto: la regola di questo debbo presupporla in me, prima ancora che mi siano dati degli oggetti, quindi a priori, e tale regola viene espressa in concetti a priori, ai quali dunque si conformano necessariamente tutti gli oggetti dell'esperienza, e con i quali essi debbono accordarsi»
Se dunque una conoscenza che abbia validità scientifica, in quanto si avvale di strutture a priori (non dipendenti dall'esperienza dell'oggetto, ma determinanti tale esperienza come sue condizioni di possibilità), è possibile solo nella prospettiva di un capovolgimento dei rapporti tra soggetto conoscente e oggetto conosciuto, allora si rende necessario che la ragione avvii una volta per tutte una esauriente analisi di se stessa, istituendo un " tribunale" che le garantisca le sue pretese legittime, ma condanni quelle che non hanno fondamento. E questo tribunale, scrive Kant, «non può essere se non la critica della ragione pura stessa», ossia l'analisi delle facoltà della ragione in generale, riguardo a tutte quelle conoscenze alle quali essa può aspirare di pervenire «indipendentemente da ogni esperienza».
Al secolare fallimento della metafisica Kant risponde dunque inaugurando quel metodo critico che, consentendo di riconoscere finalmente le effettive possibilità conoscitive della ragione e i suoi limiti strutturali, deciderà anche della possibilità o impossibilità di una metafisica in generale. Con questo celebre tema si apre la Prefazione della prima edizione della Ragione pura, nel 1781,che precede quella che abbiamo già analizzato.
«In un genere delle sue conoscenze, la ragione umana ha il particolare destino di venir assediata da questioni, che essa non può respingere, poiché le sono assegnate dalla natura della ragione stessa, ma alle quali essa non può neppur dare risposta, poiché oltrepassano ogni potere della ragione umana.
Essa incorre in questo imbarazzo senza sua colpa. Muove da proposizioni fondamentali, il cui uso è inevitabile nel corso dell'esperienza ed insieme è da questa sufficientemente convalidato. Con tali proposizioni essa sale sempre più in alto (come in verità richiede la sua natura), a condizioni più remote. Ma poiché s'accorge che a questo modo la sua attività deve rimanere ognora senza compimento, poiché le questioni non cessano mai di ripresentarsi, essa si vede allora costretta a rifugiarsi in proposizioni fondamentali, che oltrepassano ogni possibile uso di esperienza e nondimeno sembrano tanto superiori ad ogni sospetto, che anche la comune ragione umana si trova d'accordo su di esse.
Così facendo tuttavia essa cade in oscurità e contraddizioni, dalle quali a dire il vero può inferire che alla base devono sussistere da qualche parte errori nascosti; essa non può tuttavia scoprirli, poiché le proposizioni fondamentali, di cui si serve, non riconoscono più alcuna pietra di paragone nell'esperienza, dal momento che oltrepassano il confine di ogni esperienza. Ebbene, il campo di battaglia di questi contrasti senza fine si chiama metafisica.
Vi fu un tempo in cui essa era chiamata la regina di tutte le scienze, e se si considerano le intenzioni come fatti, essa meritava certo questo nome onorifico a causa dell'importanza preminente del suo oggetto. Ora la moda dell'epoca è incline a dimostrarle un totale disprezzo. [ ... ]
Dopo che sono state tentate invano tutte le vie (come si è persuasi), regnano la svogliatezza ed un totale indifferentismo: il che è madre del caos e della notte nelle scienze, ma è insieme l'origine, per lo meno il preludio, di un vicino mutamento radicale e di un rischiaramento delle medesime, se è vero che esse sono divenute oscure, confuse ed inservibili, per una diligenza male applicata.
È difatti vano il voler fingere indifferenza al riguardo di quelle indagini, il cui oggetto non può essere indifferente alla natura umana. Anche quei pretesi indifferenti, per quanto sperino di rendersi irriconoscibili mutando il linguaggio di scuola in tono popolare, cadono irrimediabilmente, ogni volta che essi pensano qualcosa, in affermazioni metafisiche, contro le quali pur avevano messo in mostra tanto disprezzo. Tuttavia questa indifferenza - che si presenta in mezzo alla fioritura di tutte le scienze e colpisce proprio quella alle cui conoscenze, se si potessero possedere, si rinunzierebbe meno che a tutte le altre - pure è un fenomeno che merita attenzione e riflessione. Essa è evidentemente l'effetto non della leggerezza, bensì della maturata capacità di giudizio dell'epoca, la quale non si fa trattenere più a lungo da un sapere apparente; essa è inoltre un incitamento alla ragione, perché assuma di nuovo la più gravosa di tutte le sue incombenze, ossia quella della conoscenza di sé, e perché istituisca un tribunale, che la garantisca nelle sue giuste pretese, ma possa per contro sbrigarsi di tutte le pretensioni senza fondamento non mediante sentenze d'autorità, bensì in base alle sue eterne ed immutabili leggi. E questo tribunale non è altro se non proprio la critica della ragione pura.
Con ciò peraltro io non intendo una critica dei libri e dei sistemi, bensì la critica della facoltà di ragione in generale, riguardo a tutte le conoscenze, cui la ragione può aspirare indipendentemente da ogni esperienza; intendo quindi la decisione della possibilità o l'impossibilità di una metafisica in generale, e la determinazione tanto delle fonti, quanto dell'ampiezza e dei limiti di essa, il tutto però stabilito sulla base di princìpi»
L’esercizio critico costituisce dunque la via non ancora tentata al fine di dare risposta a quelle questioni che assediano la ragione e che appartengono a quel genere di conoscenze che si chiama metafisica. Tali questioni sono ineliminabili e inaggirabili per la ragione umana (nonostante, dice Kant, la moda corrente tenda a dar mostra di indifferenza verso di esse, salvo poi ricadervi inconsapevolmente e irrimediabilmente) poiché, di fatto, costituiscono la sua naturale e incessante aspirazione: campo di indagine che - come è ribadito anche nella seconda Prefazione - rappresenta uno degli interessi centrali del pensiero.
Per questo motivo, oltre che per lo sconcertante confronto tra il "particolare destino" della metafisica e quello di scienze come la matematica e la fisica, la ragione, appellandosi all'unica autorità del suo stesso giudizio, deve muovere all'indagine dei suoi stessi limiti. Solo per questa via le sarà possibile riconoscere le sue aspirazioni legittime e liberarsi di quelle infondate o fondate su un sapere apparente.
Nella Prefazione all'edizione dell'87, dopo avere delineato il senso "copernicano" del capovolgimento dal quale il suo metodo di indagine prende le mosse, Kant enuncia la prima conseguenza che deriva dalla "rivoluzione" in atto. Se infatti c'è qualcosa che degli oggetti noi possiamo conoscere a priori, e questo qualcosa altro non è «se non quello che noi stessi vi mettiamo» (ossia la forma generale del nostro modus cognoscendi), ciò comporta che tale conoscenza a priori si debba limitare alla conoscenza dei fenomeni (e cioè all'esperienza).
Resta invece esclusa la conoscenza delle cose in sé (o noumeni), le quali esigerebbero una conoscenza incondizionata, cioè indipendente dalle nostre condizioni sensibili e in generale dal nostro peculiare modus cognoscendi, il che è per definizione impossibile e contraddittorio. Alla ragione viene perciò precluso ogni passo nel campo del soprasensibile, e cioè nella direzione della metafisica: la ragione non potrà avventurarsi mai al di là dei limiti dell' esperienza.
Gli oggetti della metafisica non riguardano la scienza, ma la fede Questo risultato può apparire soltanto negativo, ma costituisce invece il primo vantaggio di una critica della ragione, che ci insegna che noi possiamo sì pensare gli oggetti stessi anche come cose in sé, ma non possiamo conoscerli. Proprio il riconoscimento di tale limite è il fondamento dell'indipendenza della morale e della religione rispetto alla scienza : «lo dunque - scrive Kant - ho dovuto sopprimere il sapere per sostituirvi la fede», intendendo dire con ciò che ha dovuto sopprimere quel falso e illusorio" sapere" che è la metafisica (limitando all'esperienza le possibilità conoscitive della ragione umana), per ricondurre gli oggetti della metafisica non a una scienza, a una teologia razionale e simili, ma al loro vero e naturale terreno, che è appunto quello della fede.
Col che il dogmatismo viene definitivamente sconfitto, ma con esso anche il materialismo, l'ateismo, l'incredulità dei liberi pensatori, il fanatismo e la superstizione, e infine lo scetticismo e l'idealismo, tutti atteggiamenti che, pretendendo a loro volta di confutare scientificamente il dogmatismo metafisico, ne trattano gli oggetti come se su di essi la ragione umana potesse esprimersi in maniera rigorosa e definitiva. Kant ritiene invece di poter mostrare che tali oggetti non riguardano il sapere, né in forma positiva né in forma negativa. E questo è, a suo parere, un altro vantaggio della Critica della ragione pura.
Riassunti nelle due Prefazioni gli scopi e i risultati generali dell'opera, Kant affronta, nell'Introduzione, l'esposizione di alcune questioni preliminari concernenti la conoscenza empirica e quella pura o a priori. Le conoscenze empiriche, in quanto basate sull'esperienza e sul procedimento induttivo, non possono mai raggiungere alcuna vera e rigorosa universalità; quando invece una conoscenza appaia dotata di necessità e di universalità, si tratta certamente di una conoscenza a priori. È facile mostrare, dice Kant, che conoscenze di questo tipo esistono, e il modo per mostrarlo è fare un'analisi dei nostri giudizi; si vedrà così che, in un qualsiasi giudizio, la connessione tra il soggetto e il predicato può essere di due tipi: analitica o sintetica.
I giudizi analitici sono quelli nei quali il predicato è già contenuto implicitamente nel soggetto (in quanto non posso pensare quel soggetto senza quel predicato), cosicché è possibile rintracciarlo semplicemente scomponendo analiticamente il concetto del soggetto in questione, senza mai ricorrere all'esperienza. I giudizi analitici, dunque, sono giudizi a priori (non si fondano sull' esperienza, ma sulla semplice analisi logica dei concetti) e perciò sono universali (validi in ogni caso) e necessari (tali che il contrario non è pensabile, ma anzi contraddittorio).
Tuttavia, è evidente che essi non aggiungono nulla alle nostre conoscenze, non sono "aumentativi" delle nostre conoscenze, poiché con essi noi conosciamo più chiaramente e più dettagliatamente, ma non di più di ciò che già conoscevamo prima con il semplice possesso del concetto che funge, in tali giudizi, da soggetto.
I giudizi sintetici, al contrario, aggiungono al concetto del soggetto un predicato che in quello non era affatto pensato e che non era da esso deducibile con nessuna analisi. Ma in questo, come in tutti i casi di giudizi sperimentali, è chiaro che la possibilità di connettere il soggetto con il predicato mi è offerta appunto dall'esperienza, e che questi sono giudizi a posteriori ai quali la semplice analisi logica del concetto non può in alcun caso pervenire.
Come tali, questi giudizi sono" aumentativi" o "estensivi" delle nostre conoscenze (ci insegnano qualcosa di più di ciò che sapevamo con la semplice posizione del soggetto), ma non sono né universali né necessari, in quanto fondati sull'esperienza che ci presenta sempre conoscenze contingenti e mai necessarie per cui, a rigore, si può sempre pensare di imbattersi in casi in cui l'esperienza condotta venga contraddetta da esempi discordanti.
Ora, se le cose stessero solo così, allora avrebbe ragione Hume: la scienza, in quanto non può progredire fondandosi esclusivamente su giudizi a priori, per procedere aumentando le proprie conoscenze deve ricorrere all'esperienza,la quale però fornisce solo conoscenze accidentali e contingenti, mai universali e necessarie; per tale ragione la scienza, nei suoi giudizi e nelle sue leggi, non è né universale né necessaria, non è anzi propriamente neppure" scienza", ma semplice raccolta di regolarità più o meno casuali e più o meno costanti dell'esperienza. Perciò, di fronte per esempio alla proposizione «ogni cambiamento esige una causa», tutto ciò che posso dire è che essa esprime soltanto una mera abitudine psicologica, e nulla di logicamente o universalmente necessario. Eppure quella proposizione dice: "esige", cioè pretende, come ogni giudizio di causa, universalità e necessità, sebbene non si tratti di una proposizione analitica (il concetto di "cambiamento", infatti, non comporta il concetto di "causa", perciò tale proposizione è sintetica). Questo però significa che esistono proposizioni sintetiche non fondate sull'esperienza, giudizi sintetici a priori, che aumentano cioè le nostre conoscenze a priori. Leggiamo dunque il paragrafo IV dell'Introduzione alla Critica della ragione pura, nel quale Kant svolge queste analisi relative ai vari tipi di giudizio, analisi che consentiranno, come vedremo, il definitivo superamento della posizione humeana.
«In tutti i giudizi, nei quali è pensato il rapporto di un soggetto col predicato (considero qui soltanto quelli affermativi, perché poi sarà facile l'applicazione a quelli negativi), cotesto rapporto è possibile in due modi. O il predicato B appartiene al soggetto A come qualcosa che è contenuto (implicitamente) in questo concetto A; o B resta interamente al di fuori del concetto A, sebbene si trovi in connessione col medesimo. Nel primo caso chiamo il giudizio analitico, nel secondo sintetico. Giudizi analitici (affermativi) sono dunque quelli nei quali la connessione del predicato col soggetto viene pensata per l'identità loro; quelli invece nei quali questa connessione viene pensata senza identità, si devono chiamare sintetici. I primi si potrebbe anche chiamarli giudizi esplicativi, gli altri estensivi; poiché quelli per mezzo del predicato nulla aggiungono al concetto del soggetto, ma solo dividono con l'analisi il concetto nei suoi concetti parziali, che erano in esso già pensati (sebbene confusamente); dove, al contrario, questi ultimi aggiungono al concetto del soggetto un predicato, che in quello non era punto pensato e non era deducibile con nessuna analisi. Se dico, per esempio: tutti i corpi sono estesi, questo è un giudizio analitico. Giacché non mi occorre di uscir fuori dal concetto che io unisco alla parola corpo, per trovar legata con esso l'estensione, ma mi basta scomporre quel concetto, cioè prender coscienza del molteplice che io comprendo sempre in esso, per ritrovarvi il predicato, questo è dunque un giudizio analitico. Invece, se dico: tutti i corpi sono gravi; allora il predicato è qualcosa di affatto diverso da ciò che io penso nel semplice concetto di corpo in generale. L'aggiunta di un tale predicato ci dà perciò un giudizio sintetico.
I giudizi sperimentali, come tali, sono tutti sintetici. Infatti sarebbe assurdo fondare sull'esperienza un giudizio analitico, poiché io non ho punto bisogno di uscire dal mio concetto per formare il giudizio, né a ciò mi è d'uopo alcuna testimonianza dell'esperienza. Che un corpo sia esteso, è una proposizione che vale a priori, e non è un giudizio di esperienza. Infatti, prima di passare all'esperienza, io ho tutte le condizioni del mio giudizio già nel concetto, dal quale posso ricavare il predicato soltanto secondo il principio di contraddizione, e acquistare a un tempo coscienza della necessità del giudizio, che l'esperienza non potrebbe mai insegnarmi. Al contrario, se nel concetto di corpo in generale io non includo punto il predicato della gravità, allora quel concetto rappresenta pure un oggetto dell'esperienza mediante una parte di essa, alla quale dunque io posso aggiungere ancora altre parti della stessa esperienza, come appartenenti a quello. Posso prima conoscere il concetto di corpo analiticamente per le note dell'estensione, dell'impenetrabilità, della forma, ecc., che sono tutte pensate in questo concetto. Ma poi estendo la mia conoscenza, e ricorrendo di nuovo all'esperienza, dalla quale ho tratto il concetto di corpo, trovo con le note precedenti legata costantemente anche quella della gravità, e l'aggiungo quindi sinteticamente, come predicato, a quel concetto. Sull'esperienza dunque si fonda la possibilità della sintesi del predicato della gravità col concetto del corpo, perché questi due concetti, sebbene l'uno non sia compreso nell'altro, tuttavia, come parti di un tutto, cioè dell'esperienza, che è essa stessa una connessione sintetica delle intuizioni, convengono l'uno all'altro, benché solo in modo accidentale.
Ma nei giudizi sintetici a priori questo sussidio manca assolutamente. Se devo uscire dal concetto A, e conoscerne un altro B come legato al primo, su che cosa mi fondo, e da che cosa è resa possibile la sintesi, poiché qui non ho il vantaggio di orientarmi per ciò nel campo dell'esperienza? Si prenda la proposizione: tutto ciò che accade ha la sua causa. Nel concetto di qualche cosa che accade io penso per verità una esistenza, alla quale precede un tempo ecc.; e da ciò si possono trarre giudizi analitici. Ma il concetto di causa sta interamente fuori di quel concetto, e indica alcunché di diverso da ciò che accade, e però non è punto incluso in quest'ultima rappresentazione. Come mai dunque vengo io a riferire, e per di più necessariamente, all'effetto alcunché di affatto diverso, il concetto della causa, sebbene in quello non contenuto? Che cos'è qui l'incognita x, su cui si appoggia l'intelletto, quando crede di trovar fuori del concetto A un predicato B, ad esso estraneo, e che, ciò malgrado, stima con esso congiunto? Non può essere l'esperienza, poiché il principio citato aggiunge questa seconda rappresentazione alla prima, non solo con universalità maggiore di quella che può dare l'esperienza, ma altresì con la nota della necessità, e perciò del tutto a priori, e in base a semplici concetti. Ora tutto lo scopo supremo delle nostre conoscenze speculative a priori si fonda su tali princìpi sintetici o estensivi; perché gli analitici sono, sì, importantissimi e necessarissimi, ma solo per giungere a quella chiarezza dei concetti, che è desiderabile per una sicura ed ampia sintesi, come per una conquista realmente nuova.»
Rispetto a queste ultime osservazioni di Kant relative ai giudizi sintetici a priori, Hume si troverebbe certo in profondo disaccordo. Egli negherebbe che il giudizio «tutto ciò che accade esige una causa» possegga il valore universale, necessario e a priori che esso esprime, e lo ricondurrebbe piuttosto a un semplice giudizio sintetico a posteriori (e cioè all' esperienza), interpretando quell’"esige" come una semplice "credenza" soggettiva basata unicamente sull’abitudine.
Ma, sostiene Kant, ciò non toglie che giudizi sintetici a priori esistano: tutti i giudizi matematici, per esempio, sono sintetici e anche certamente a priori, data la necessità e universalità che li contraddistingue (si ricorderà che Kant, negli scritti "precritici", aveva già sottolineato il carattere sintetico, e cioè basato sulla costruzione di concetti, che secondo lui rivestono le operazioni matematiche; oggi si pensa diversamente da Kant circa la natura delle proposizioni matematiche, ricondotte proprio a princìpi analitici: ma la questione è invero assai complessa e forse la differenza è più terminologica che sostanziale).
Così, prosegue Kant, 7+5=12 è una proposizione sintetica nella quale io raggiungo il predicato "12" solo mediante la sintesi indicata dal soggetto "7+5". Può sembrare che io conosca già il"predicato "12" quando penso "7+5", e che perciò tale giudizio sia analitico; ma ciò, secondo Kant, accade solo perché il risultato di tale somma mi è familiare; non accadrebbe lo stesso, infatti, se io pensassi una somma più complicata: in quel caso dovrei "ricavare"mediante sintesi il risultato, il quale è tanto poco analitico che io potrei anche commettere errore senza immediatamente accorgermene, mentre nei giudizi analitici un predicato diverso da quello espresso appare immediatamente impensabile e contraddittorio.
La stessa cosa deve dirsi delle proposizioni geometriche, nonché di quelle che costituiscono i princìpi della fisica, detta perciò "pura" (ovvero, per Kant, i princìpi della fisica newtoniana); e la stessa cosa deve dirsi anche della metafisica (almeno in via di pretesa, poiché abbiamo visto che essa non merita ancora affatto il nome di scienza), come si mostra, per esempio, nella proposizione: «il mondo deve avere un primo principio», che è certamente sintetica a priori, sebbene non possiamo ancora dire se essa sia valida così come invece riconosciamo sicuramente valide le proposizioni matematiche.
Così, i problemi della "critica della ragione" enunciati nelle due prefazioni si trovano ora ricondotti sotto una medesima domanda, relativa a come siano possibili giudizi sintetici a priori. Solo la soluzione di questa domanda potrà consentire la risposta alle conseguenti questioni: come è possibile una matematica pura? Come è possibile una fisica pura? O, più in generale, come è possibile la scienza, al di là delle obiezioni scettiche di Hume?
Solo per questa via, infine, sarà finalmente possibile dare risposta alla domanda, secolarmente problematica, su come e se sia possibile una metafisica come scienza, una volta appurato che lo sia in quanto disposizione naturale della ragione umana. Il problema dei giudizi sintetici a priori costituisce perciò quello che Kant indica come il «problema generale della ragione pura», così esposto nelle pagine introduttive della sua Critica:
«Si progredisce già moltissimo, quando una grande quantità di ricerche può essere ridotta alla formula di un unico problema. In tal modo, difatti, non soltanto si facilita il proprio lavoro, in quanto lo si determina con precisione, ma si aiuta altresì chiunque altro voglia esaminarlo, a giudicare se il nostro proposito è stato realizzato sufficientemente o no. il problema vero e proprio della ragione pura, orbene, è contenuto nella domanda: Come sono possibili giudizi sintetici a priori?
Che la metafisica sia rimasta finora in una situazione così vacillante di incertezza e di contraddizioni, è semplicemente da attribuirsi al fatto che questo problema, e forse persino la distinzione tra giudizi analitici e sintetici, non sono stati presi in considerazione prima. Orbene, la risoluzione di questo problema, oppure una dimostrazione soddisfacente che in realtà non si verifica affatto la possibilità che esso esige di saper spiegata, è questione di vita o di morte per la metafisica. David Hume, che pure si accostò più di ogni altro filosofo a questo problema, ma fu ben lungi dal pensarlo in modo sufficientemente determinato e nella sua universalità, arrestandosi piuttosto semplicemente alla proposizione sintetica della connessione dell'effetto con le sue cause (Principium causalitatis), credette di dedurre che una tale proposizione a priori è del tutto impossibile. Secondo le sue conclusioni, tutto ciò che noi chiamiamo metafisica si ridurrebbe ad una semplice illusione di comprendere razionalmente, a quanto pretendiamo, quello che in realtà è soltanto preso a prestito dall'esperienza, e attraverso l'abitudine ha preso l'apparenza della necessità. Se egli avesse tenuto presente il nostro problema nella sua universalità, non sarebbe mai caduto in una tale asserzione, che distrugge ogni filosofia pura, poiché avrebbe allora compreso che, secondo il suo argomento, non potrebbe neppure sussistere una matematica pura, dal momento che questa contiene certamente delle proposizioni sintetiche a priori: in tal caso, il suo buonsenso l'avrebbe senza dubbio trattenuto da quest'ultima asserzione.
La risoluzione del suddetto problema porta al tempo stesso con sé la possibilità dell'uso puro della ragione, nel fondare e nel condurre a compimento tutte le scienze che contengono una conoscenza teoretica a priori di oggetti, ossia porta con sé la risposta alle domande: Come è possibile la matematica pura? Come è possibile la scienza naturale pura?
Orbene, poiché queste scienze sono realmente date, si addice certo il domandare riguardo ad esse come siano possibili; che debbano essere possibili, difatti, è dimostrato dalla loro realtà. Per quanto concerne invece la metafisica, il suo misero procedere sino a questo momento e il fatto che di neppure una delle metafisiche sin qui esposte si possa dire che essa sussiste realmente, per ciò che riguarda il suo scopo essenziale, devono far giustamente dubitare chiunque della sua possibilità.
Tuttavia questa specie di conoscenza, in un certo senso, deve anche considerarsi come data, e la metafisica, anche se non è reale come scienza, lo è però come disposizione naturale (metaphysica naturalis). La ragione umana infatti, senza essere mossa a ciò dalla semplice vanità di un vasto sapere, avanza irresistibilmente, spinta da un proprio bisogno, sino a delle questioni tali, che non possono in alcun modo trovar risposta attraverso un uso di esperienza della ragione, e mediante i princìpi di qui ricavati. E così, una qualche metafisica è realmente esistita sempre in tutti gli uomini, non appena la ragione si è estesa in essi sino alla speculazione, ed una qualche metafisica esisterà sempre negli uomini. Ed ora, anche riguardo ad essa si presenta la domanda: Come è possibile la metafisica, in quanto disposizione naturale? Ossia, come sorgono dalla natura della ragione umana universale le questioni, che la ragione pura propone a se stessa, e rispetto alle quali essa è spinta dal suo proprio bisogno a dare una risposta, soddisfacente quanto le è possibile?
Peraltro, dato che si sono ritrovate sempre delle contraddizioni inevitabili, in tutti i precedenti tentativi di fornire una risposta a queste domande naturali - per esempio, alla questione se il mondo abbia un cominciamento, oppure sussista sin dall'eternità, ecc. - non ci si può accontentare allora della semplice disposizione naturale verso la metafisica, cioè della pura facoltà di ragione come tale, onde sorge pur sempre una certa metafisica (qualsivoglia possa essere), ma occorre poter giungere con tale disposizione ad una certezza, o nel conoscere o non conoscere gli oggetti - cioè nel decidere sugli oggetti di questi problemi - oppure nel dare un qualche giudizio sulla capacità e incapacità della ragione riguardo a tali oggetti, e quindi deve essere possibile o estendere con sicurezza la nostra ragione pura, o porle delle barriere determinate e salde. Quest'ultima domanda, che dipende dal suddetto problema generale, sarebbe a buon diritto la seguente: Come è possibile la metafisica in quanto scienza?
Alla fine, dunque, la critica della ragione conduce necessariamente alla scienza, mentre l'uso dogmatico della ragione, senza critica, porta ad asserzioni infondate - cui si possono contrapporre altre asserzioni, suggerite allo stesso modo dall'apparenza - e quindi allo scetticismo. D'altronde, questa scienza non può avere una grande ampiezza, tale da scoraggiare, poiché essa non ha a che fare con oggetti della ragione, la cui molteplicità è infinita, qui piuttosto la ragione si occupa semplicemente di se stessa, cioè di problemi che sgorgano totalmente dal suo interno e non le sono presentati dalla natura delle cose, le quali sono differenti da essa, bensì dalla sua propria natura. In tal caso, se la ragione ha imparato dapprima a conoscere compiutamente la sua propria capacità riguardo agli oggetti, che possono presentarsi ad essa nell' esperienza, deve risultare facile la determinazione completa e sicura dell'ambito e dei limiti del suo uso, tentato al di là dei confini dell' esperienza.»
Dare risposta alla serie di domande che scaturiscono dalla constatazione dell'esistenza di giudizi sintetici a priori comporta dunque la necessità di un'analisi della ragione "pura", ossia della ragione in quanto contiene i princìpi per conoscere qualche cosa assolutamente a priori.
Ma poiché, come si era visto, non si dà conoscenza che non sia fenomenica (cioè relativa agli oggetti di esperienza), i princìpi della ragione pura, che tale conoscenza rendono appunto possibile, non saranno semplicemente a priori, ma anche trascendentali: saranno cioè indipendenti dall'esperienza poiché non derivano da essa, ma anzi, proprio per ciò, sono costitutivi dell'esperienza, in quanto determinano le strutture generali del suo darsi per il soggetto. «Chiamo trascendentale - dice Kant - ogni conoscenza che si occupa non degli oggetti, ma del nostro modo di conoscenza degli oggetti, in quanto questa deve essere possibile a priori».
Dopo le due Prefazioni e l'Introduzione, la Critica della ragione pura si organizza in due grandi sezioni: l'Estetica trascendentale e la Logica trascendentale, a sua volta distinta in Analitica (dei concetti e dei principi) e Dialettica.
L’Estetica (dalla parola greca aisthesis, che significa "sensazione") svolge un'analisi trascendentale della conoscenza sensibile, in quanto essa è condizione di ogni altro genere di conoscenza. L’atto della conoscenza sensibile è detto da Kant intuizione, atto con il quale ci è dato immediatamente un oggetto. Tale intuizione, tuttavia, è per noi uomini possibile solo a condizione che l'oggetto ci sia dato, in quanto modificazione della nostra "recettività", ossia della nostra sensibilità.
Tutti gli oggetti infatti ci sono dati per mezzo della sensibilità ed essa sola ci fornisce intuizioni, le quali potranno poi venir pensate dall'intelletto, ma mai prodotte autonomamente da esso poiché, come Kant ribadirà sempre con estrema chiarezza, l'intelletto umano non è in alcun modo una facoltà intuitiva: ogni pensiero deve perciò, direttamente o indirettamente, riferirsi infine all'intuizione sensibile, senza la quale non si dà all'uomo oggetto alcuno (e quindi alcuna conoscenza).
L’oggetto dell'intuizione si chiama fenomeno e nel fenomeno Kant chiama materia ciò che corrisponde alla sensazione (ovvero il contenuto materiale della stessa: questo "rosso", questo "ruvido", questo "dolce" e simili). Si chiama invece forma ciò che conferisce unità ai dati sensibili inserendoli in determinati rapporti (in termini simili, si ricorderà, Kant si era già espresso nella Dissertazione del '70). Tali rapporti sono sempre nell'ordine dello spazio e del tempo, da cui deriva che spazio e tempo non possono essere a loro volta sensazioni, ma devono essere forme a priori, ossia pure condizioni del sentire.
La pura forma dei fenomeni è dunque ciò che la sensibilità può fornire indipendentemente dal dato di esperienza: io posso infatti sapere a priori che, qualunque sia il contenuto materiale dell'intuizione sensibile, esso dovrà presentarsi qui e ora, cioè in uno spazio e in un tempo determinati - e, più precisamente, nello spazio e nel tempo della mia intuizione - perché io quel contenuto possa intuirlo. Spazio e tempo non sono dunque qualità delle cose, ma condizioni della nostra intuizione di esse e, in particolare, lo spazio sarà condizione dei fenomeni "esterni" (ovvero sarà la forma del senso esterno), il tempo di quelli "interni" (forma del senso interno).
In quella che egli chiama "esposizione trascendentale" dello spazio e del tempo, Kant mostra come essi non siano "realtà" nel senso oggettivo e assoluto della fisica newtoniana, ma siano forme trascendentali. Che non si tratti di dati né di qualità di dati lo conferma il fatto che, in una successione di dati, tolti i dati stessi, anche la loro successione temporale e la loro collocazione spaziale svaniscono, non restano lo spazio e il tempo di quegli oggetti: infatti, noi non intuiamo il tempo e lo spazio di una sensazione, ma intuiamo una sensazione nel tempo e nello spazio. Ogni fenomeno, in altre parole, è una determinazione spazio-temporale, una "materia"sensibile la cui intuizione è resa possibile per il soggetto dalle (e solo nelle) forme trascendentali dello spazio e del tempo.
A ciò Kant aggiunge tuttavia che «il tempo è la condizione formale a priori di tutti i fenomeni in generale», intendendo con ciò che anche lo spazio, in ultima analisi, si riduce al tempo; infatti lo spazio designa la forma dei fenomeni del senso esterno, ma ogni rappresentazione, per essere intuita in quanto modificazione delle mie facoltà, deve divenire oggetto anche, e anzi prima, del senso interno e perciò tradursi in una successione temporale di fenomeni, in un "prima" e in un "poi", che lo spazio successivamente collega e proietta all'esterno nella contemporaneità del "dove".
L’impostazione trascendentale del rapporto tra materia e forme dell'intuizione sensibile risolve anche, una volta per tutte, il problema della matematica e della geometria, due scienze a priori che tuttavia mostrano di potersi applicare all' esperienza con universale efficacia. Galileo, che per primo aveva attivamente operato tale applicazione, se ne era giustificato appellandosi a Dio (che avrebbe dato all'uomo una "ragione matematica" avendo creato un "mondo matematico") e, dopo di lui, il discorso era rimasto sostanzialmente immutato (per esempio con Cartesio ).
Ora invece Kant non ha più bisogno di ricorrere a Dio: poiché lo spazio e ancor più il tempo sono le condizioni trascendentali, ossia le forme universali di ogni fenomeno, si comprende come siano possibili i giudizi sintetici a priori della geometria e della matematica, i quali appunto mi danno una conoscenza universalmente valida circa i fenomeni che incontrerò nell'esperienza, semplicemente esplicitando la mia disposizione ad essere modificato dagli oggetti secondo le forme proprie del senso esterno e di quello interno.
Per intenderci, oggi noi potremmo dire: sebbene ancora nessun uomo sia andato su Marte e sebbene sia perciò impossibile determinare anticipatamente la materia o il contenuto delle sensazioni che il primo esploratore del pianeta proverà, è possibile nondimeno dire a priori che egli farà delle esperienze spaziali e temporali, che incontrerà cioè dei fenomeni spazio-temporali perché questa è una condizione che egli reca con sé, che non appartiene ai fenomeni di Marte più o meno che ad altri e al di fuori della quale non c'è per lui alcuna possibilità di sensazione (o ricezione sensibile). E possiamo anche dire, quindi, che a tali fenomeni egli potrà applicare per principio la matematica e la geometria, in quanto scienze che si fondano sulle intuizioni pure e soggettive del tempo e dello spazio, dalle quali i fenomeni dipendono.
Con ciò, precisa Kant, non si vuole affatto dire che spazio e tempo siano pure illusioni e i fenomeni che noi intuiamo siano mere parvenze. Sostenendo che spazio e tempo sono forme soggettive non si vuole infatti misconoscere il carattere di realtà che inerisce ai fenomeni: s'intende, carattere di realtà della e nella esperienza.
In altri termini, proprio ciò che è condizione soggettiva del darsi dell' esperienza acquista validità oggettiva (cioè universale e necessaria) per tutti i soggetti che intuiscono, poiché essi non potrebbero intuire in altro modo. Scrive Kant: «Le nostre osservazioni dimostrano quindi la realtà empirica del tempo, cioè la sua validità obiettiva rispetto a tutti gli oggetti che possano mai esser dati ai nostri sensi. E poiché la nostra intuizione è sempre sensibile, così non può esserci dato mai nell'esperienza un oggetto che non sia soggetto alle condizioni del tempo. D'altra parte, noi contestiamo al tempo ogni pretesa a realtà assoluta», appunto perché esso riguarda i fenomeni e non le cose in sé o noumeni, che restano per principio al di fuori della nostra esperienza.
Nello stesso senso, geometria e matematica sono scienze oggettive in quanto riguardano i fenomeni, così come ai fenomeni e mai alle cose in sé si riferisce la scienza in generale, la quale non ha nulla da chiedersi intorno a ciò che per definizione non cade nella nostra esperienza.
Leggiamo di seguito alcuni passaggi dell'Estetica trascendentale nei quali Kant svolge l'''esposizione trascendentale" dei concetti di spazio e di tempo, sottolineando in forma di "corollari" gli aspetti derivanti dalla sua inedita impostazione del problema della ragione pura.
«Mediante il senso esterno (una delle proprietà del nostro spirito) noi ci rappresentiamo gli oggetti come fuori di noi, e tutti insieme nello spazio. Quivi sono determinate, o determinabili, la loro forma, grandezza e reciproche relazioni. Il senso interno, mediante il quale lo spirito intuisce se stesso, o un suo stato interno, non ci dà invero nessuna intuizione dell'anima stessa, come di un oggetto; ma c'è tuttavia una forma determinata per la quale soltanto è possibile l'intuizione del suo stato interno, in modo che tutto ciò che spetta alle determinazioni interne, vien rappresentato in rapporti di tempo. Il tempo non può essere intuito esternamente, come non può essere intuito lo spazio quasi qualcosa che sia in noi. Che cosa sono dunque lo spazio e il tempo? Sono entità reali? O sono soltanto determinazioni, o anche rapporti delle cose, ma in modo che appartengano ad esse anche in sé, ancorché non intuite, oppure sono tali che appartengono soltanto alla forma dell'intuizione, e perciò alla costituzione soggettiva del nostro spirito, senza la quale codesti predicati non potrebbero esser riferiti a veruna cosa? [...]
1. Lo spazio non è un concetto empirico, ricavato da esperienze esterne. [...]
2. Lo spazio è una rappresentazione necessaria a priori, la quale sta a fondamento di tutte le intuizioni esterne. Non si può mai formare la rappresentazione che non vi sia spazio, sebbene si possa benissimo pensare che in esso non si trovi nessun oggetto. Lo spazio vien dunque considerato come la condizione della possibilità dei fenomeni, non come una determinazione dipendente da essi, ed è una rappresentazione a priori, la quale è necessariamente a fondamento dei fenomeni esterni.
3. Lo spazio non è un concetto discorsivo o, come si dice, universale dei rapporti delle cose in generale, ma una intuizione pura.[...]
La geometria è una scienza che determina le proprietà dello spazio sinteticamente e, nondimeno, a priori. Quale dev'essere dunque la rappresentazione dello spazio, affinché sia possibile di esso una tale conoscenza?
Originariamente dev'essere un'intuizione; perché da un semplice concetto non possono derivare proposizioni che lo oltrepassino, come accade in geometria. Ma tale intuizione dev'essere in noi a priori, cioè prima di ogni percezione di un oggetto; e perciò intuizione pura, non empirica. Le proposizioni geometriche, infatti, sono tutte quante apodittiche, cioè congiunte con la coscienza della loro necessità. [...]
Come dunque può essere nello spirito una intuizione esterna, che preceda gli oggetti stessi, e nella quale il concetto di questi possa essere determinato a priori? Evidentemente solo ad un patto, che essa abbia sua sede soltanto nel soggetto, come sua disposizione formale ad essere modificato dagli oggetti, e a conseguire per tal modo la loro immediata rappresentazione, cioè l'intuizione, dunque soltanto in quanto forma del senso esterno in generale.
Solo la nostra definizione pertanto rende comprensibile la possibilità della geometria, come conoscenza sintetica a priori. [...]
a) Lo spazio non rappresenta punto una proprietà di qualche cosa in sé, o le cose nel loro mutuo rapporto; ossia, non è una determinazione di esse, che appartenga agli oggetti stessi, e che rimanga anche se si faccia astrazione da tutte le condizioni soggettive dell'intuizione. [...]
b) Lo spazio non è altro se non la forma di tutti i fenomeni del senso esterno, cioè la condizione soggettiva della sensibilità, a cui soltanto ci è possibile un'intuizione esterna. [...]
Le nostre osservazioni dunque ci insegnano la realtà (cioè la validità oggettiva) dello spazio, rispetto a tutto ciò che può venirci innanzi nel mondo esterno come oggetto; e a un tempo l'idealità dello spazio, rispetto alle cose, se dalla ragione esse siano considerate in se stesse, cioè senza riguardo alla natura del nostro senso. Noi affermiamo dunque la realtà empirica dello spazio (rispetto a tutta l’esperienza esterna possibile) e nondimeno l'idealità trascendentale di esso, ossia che lo spazio non è più nulla, appena prescindiamo dalla condizione della possibilità di ogni esperienza, e lo assumiamo come qualcosa che stia a fondamento delle cose in se stesse. [...]
1. Il tempo non è un concetto empirico, ricavato da una esperienza. La simultaneità o la successione non cadrebbe neppure nella percezione, se non vi fosse a priori a fondamento la rappresentazione del tempo. [...]
2. Il tempo è una rappresentazione necessaria, che sta a base di tutte le intuizioni. Non si può, rispetto ai fenomeni in generale, sopprimere il tempo, quantunque sia del tutto possibile toglier via dal tempo tutti i fenomeni. li tempo dunque è dato a priori. Soltanto in esso è possibile la realtà dei fenomeni. Questi possono sparire tutti, ma il tempo stesso (come condizione della loro possibilità) non può essere soppresso.
3. Su questa necessità a priori si fonda anche la possibilità di princìpi apodittici dei rapporti di tempo, o assiomi del tempo in generale. [...]
4. Il tempo non è un concetto discorsivo o, come si dice, universale, ma una forma pura dell'intuizione sensibile. [...]
Qui aggiungo ancora che il concetto di cambiamento, e con esso il concetto del movimento (come cambiamento di luogo), è possibile solo nella rappresentazione di tempo; ché, se questa rappresentazione non fosse intuizione (interna) a priori, nessun concetto, quale che sia, potrebbe rendere intelligibile la possibilità di un cambiamento, cioè dell'unione in uno e medesimo oggetto di predicati opposti contraddittori (per esempio, l'essere e il non essere appunto della stessa cosa nello stesso luogo). Solo nel tempo, ossia una dopo l'altra, possono incontrarsi insieme in una cosa due determinazioni opposte contraddittorie. Il nostro concetto del tempo ci spiega dunque la possibilità di tante conoscenze sintetiche a priori, quante ce ne propone la teoria generale del moto, che non ne è poco feconda.
a) Il tempo non è qualcosa che sussista per se stesso, o aderisca alle cose, come determinazione oggettiva, e che perciò resti, anche astrazion fatta da tutte le condizioni soggettive della intuizione di quelle: perché nel primo caso sarebbe qualcosa che senza un soggetto reale sarebbe tuttavia reale. [...]
b) Il tempo non è altro che la forma del senso interno, cioè dell'intuizione di noi stessi e del nostro stato interno. [...]
c) Il tempo è la condizione formale a priori di tutti i fenomeni in generale. Lo spazio, essendo la forma pura di tutte le intuizioni esterne, è limitato (come condizione a priori) ai soli fenomeni esterni. Invece, poiché tutte le rappresentazioni - abbiano o no oggetti esterni - pure in se stesse, quali modificazioni dello spirito, appartengono allo stato interno; e poiché questo stato interno rientra sotto la condizione formale dell'intuizione interna, e perciò del tempo; così il tempo è condizione a priori di ogni fenomeno in generale; condizione, invero, immediata dei fenomeni interni (dell'anima nostra), e però mediatamente anche degli esterni.[...]»
In tutte queste osservazioni, la "rivoluzione copernicana" di Kant appare operante e in atto, e in base ad essa il problema dell'oggettività della scienza (dogmaticamente negata o affermata dagli empiristi e dai razionalisti che tenevano fermo l'oggetto come polo di validità del conoscere) si risolve in relazione alle condizioni soggettive dell'intuire, condizioni valide per tutti e necessariamente - per tutti i fenomeni e per tutti i soggetti - e quindi sufficienti a fondare la legittimità della scienza in generale.
Tutta la nostra conoscenza, dice Kant, scaturisce da due fonti, la prima delle quali è la facoltà di ricevere i dati sensibili delle intuizioni, la seconda è la facoltà di pensare tali intuizioni mediante concetti. Ora, come si è visto, all'uomo non è consentito di intuire se non sensibilmente, cioè essendo modificato dagli oggetti dei sensi, sebbene egli possa spontaneamente pensare; e le due facoltà, dell'intuire e del pensare, non sono da confondere o da giudicare l'una superiore all'altra. Quando Leibniz e Wolff giudicavano la sensazione come un pensare oscuro, fraintendevano il proprium del sentire, il quale è qualcosa di eterogeneo rispetto al pensare; quest'ultimo, a sua volta, non è pertanto da considerare come un sentire astratto. Ognuna delle due facoltà è quello che deve essere e svolge la propria funzione. Tuttavia, nel completo atto della conoscenza, esse, pur restando eterogenee, non possono funzionare separatamente, ma devono svolgersi insieme.
Ad una puntuale chiarificazione delle differenze e dei legami che intercorrono tra sensibilità (facoltà studiata dall'Estetica trascendentale) e intelletto (la cui funzione trascendentale è lo specifico campo di indagine della logica in generale) sono dedicate le prime pagine della Logica trascendentale, che di seguito riportiamo:
«La nostra conoscenza scaturisce da due fonti principali dello spirito, la prima delle quali è la facoltà di ricevere le rappresentazioni (la recettività delle impressioni, la seconda quella di conoscere un oggetto mediante queste rappresentazioni (spontaneità dei concetti). Per la prima, un oggetto ci è dato; per la seconda esso è pensato in rapporto con quella rappresentazione (come semplice determinazione dello spirito).
Intuizione e concetti costituiscono, dunque, gli elementi di ogni nostra conoscenza, per modo che né concetti senza che a loro corrisponda in qualche modo una intuizione, né intuizione, senza concetti, possono darci una conoscenza. Entrambi sono puri o empirici. Empirici, quando contengano una sensazione (che suppone la presenza reale dell'oggetto); puri, invece, quando alla rappresentazione non sia mescolata alcuna sensazione. La sensazione si può dire materia della conoscenza sensibile. Quindi una intuizione pura contiene unicamente la forma in cui qualcosa è intuito, e un concetto puro solamente la forma del pensiero d'un oggetto in generale. Ma le intuizioni e i concetti puri possibili sono a priori, gli empirici soltanto a posteriori.
Se noi chiamiamo sensibilità la recettività del nostro spirito a ricevere rappresentazioni, quando esso è in un qualunque modo modificato, l'intelletto è invece la facoltà di produrre da sé rappresentazioni, ovvero la spontaneità della conoscenza. La nostra natura è cosiffatta che l'intuizione non può essere mai altrimenti che sensibile, cioè non contiene se non il modo in cui siamo modificati dagli oggetti. Al contrario, la facoltà di pensare l'oggetto della intuizione sensibile è l'intelletto. Nessuna di queste due facoltà è da anteporre all'altra. Senza sensibilità nessun oggetto ci sarebbe dato, e senza intelletto nessun oggetto pensato. I pensieri senza contenuto sono vuoti, le intuizioni senza concetto sono cieche. È quindi necessario tanto rendersi i concetti sensibili (cioè aggiungervi l'oggetto nell'intuizione), quanto rendersi intelligibili le intuizioni (cioè ridurle sotto concetti). Queste due facoltà o capacità non possono scambiarsi le loro funzioni. L'intelletto non può intuire nulla, né i sensi nulla pensare. La conoscenza non può scaturire se non dalla loro unione. Ma non perciò si devono confondere le loro parti; ché, anzi, si ha grande ragione di separarle accuratamente e di tenerle distinte. Noi distinguiamo dunque la scienza delle leggi della sensibilità in generale, l'estetica, dalla scienza delle leggi dell'intelletto in generale, la logica.»
La logica trascendentale, come abbiamo anticipato, si distingue in analitica e dialettica. La prima parte dell'analitica prende il nome di "analitica dei concetti", in quanto l'intelletto è la facoltà di pensare e il pensare è conoscenza per concetti. Mentre la facoltà della sensibilità conosce intuitivamente l'oggetto, l'intelletto ne ha una conoscenza discorsiva: esso si specifica come facoltà di giudicare; mentre le intuizioni sensibili si basano su affezioni (o ricezioni), i concetti dell'intelletto si basano su funzioni, cioè su atti propri e spontanei che operano l'unificazione della molteplicità dei fenomeni dell'intuizione predicandone un concetto.
Così, per esempio, quando dico" questo è un corpo" di fatto unifico nel giudizio un insieme di fenomeni intuiti spazio-temporalmente (ciò che indico dicendo "questo"), attribuendo loro il predicato "corpo". I concetti dell'intelletto sono dunque predicati di un giudizio possibile (o, che è lo stesso, di un pensiero possibile).
Per determinare in quanti e in quali modi l'intelletto è in grado a priori di pensare, ossia per determinare quante e quali siano le funzioni dell'intelletto (o i suoi concetti puri o, ancora, le forme trascendentali del pensiero), occorrerà anzitutto esaminare tutte le possibili forme generali di giudizio: tanti sono i tipi di giudizi (ossia i modi in cui concretamente l'intelletto unifica i dati sensibili), altrettante saranno le funzioni pure a priori dell'intelletto. A tale ricerca Kant si dedicò principalmente dal 1770 al 1781, giungendo infine a stendere la seguente "tavola dei giudizi" divisa in quattro titoli, ciascuno dei quali comprende sotto di sé tre momenti:
La tavola raccoglie tutte le funzioni logiche delle quali l'intelletto è capace, cioè tutti i tipi di unificazione o di sintesi che esso può apporre ai molteplici dati dell'intuizione sensibile. A tali funzioni logiche a priori Kant fa corrispondere altrettanti concetti puri, forme a priori della sintesi trascendentale del molteplice dato, alle quali, sull' esempio di Aristotele, dà il nome di categorie. Esse si ordinano dunque, in riferimento alla "tavola dei giudizi", in una "tavola delle categorie":
Le categorie, o concetti puri dell'intelletto, sono perciò la condizione in base alla quale è possibile pensare un oggetto come unificazione del molteplice dato dalla sensibilità, ciò per cui, di fronte a tale molteplice, noi non restiamo "ciechi", ma siamo in grado di "riconoscerlo" e di determinarlo mediante un concetto.
Kant osserva che questa tabella delle categorie è completa e sistematica, a differenza di quella dataci da Aristotele, che egli ritiene "rapsodica" e casuale. La sua, al contrario, ha seguito un "filo conduttore" che ha preso le mosse dall'analisi di tutte le possibili forme di giudizio per giungere solo successivamente a tutte le possibili forme di predicato. S'intende poi che tra le categorie di Kant e quelle di Aristotele si pone il capovolgimento operato dalla "rivoluzione copernicana", per cui mentre le categorie aristoteliche sono soltanto i predicati più generali dell'essere, quelle kantiane designano le funzioni a priori dell'intelletto.
Kant definisce inoltre matematici i primi due titoli delle sue categorie, quantità e qualità, poiché riguardano gli oggetti dell'intuizione; dinamici gli altri due (relazione e modalità) poiché riguardano l'esistenza di tali oggetti in rapporto tra loro o in rapporto all'intelletto.
Si apre a questo punto uno dei problemi più ardui e discussi della Critica della ragione pura, problema che noi esporremo necessariamente solo nelle sue linee generali. Dopo avere individuato i concetti puri originari della sintesi intellettuale ed averli elencati nella "tavola delle categorie", Kant osserva che, mentre l'applicabilità delle forme pure dello spazio e del tempo ai fenomeni non abbisognava di giustificazione, poiché la spazio-temporalità era la condizione necessaria e costitutiva di qualsiasi intuizione empirica al di fuori della quale, appunto, non si dà fenomeno, ciò non può dirsi dei concetti puri dell'intelletto.
Chi mi assicura, in altre parole, che i fenomeni, così come devono sottostare allo spazio e al tempo, debbano anche sottostare necessariamente alle categorie? Poiché infatti i fenomeni possono esserci dati dall'intuizione sensibile secondo criteri di validità oggettiva (connessi all'universalità delle condizioni soggettive dell'intuire) anche indipendentemente dalle funzioni dell'intelletto, non si comprende come le condizioni soggettive del pensare costituiscano a loro volta la condizione di possibilità di ogni conoscenza degli oggetti, acquisendo esse pure validità oggettiva.
Per esempio, dice Kant, a priori non è chiaro perché mai dei fenomeni debbano contenere necessariamente una relazione del tipo di quella espressa dalla categoria di causa (seconda categoria del gruppo della relazione). Se io dicessi che incontro costantemente tale relazione nell'esperienza, non farei che appellarmi a una constatazione di fatto - e Hume potrebbe agevolmente obiettare che ciò che si dà di fatto non può considerarsi né universale né necessario. Occorre invece poter mostrare il sussistere di una necessità o condizione di diritto: occorre cioè (come si dice nella terminologia giuridica) una deduzione attraverso la quale dimostrare che, di principio, la cosa deve stare così e non può stare altrimenti.
Kant tenta perciò una "deduzione trascendentale" dei concetti puri dell'intelletto (o categorie), ossia una dimostrazione del loro carattere di condizioni a priori dell'esperienza, forme di essa costitutive non meno dello spazio e del tempo. L'argomento centrale di tale deduzione muove dall'osservazione che la sintesi operata dal giudizio dell'intelletto mediante le categorie presuppone un'unità, una sintesi più profonda e più originaria: quella in virtù della quale ogni rappresentazione fenomenica viene anzitutto unificata in una autocoscienza, ciò che Kant chiama io penso (o, con un termine derivato da Leibniz e Wolff, appercezione pura).
«L’Io penso deve poter accompagnare tutte le mie rappresentazioni. [ ... ] Quella rappresentazione che può essere data prima di ogni pensiero, dicesi intuizione. Ogni molteplice dunque della intuizione ha una relazione necessaria con l'Io penso, nello stesso soggetto, in cui questo molteplice s'incontra. Ma questa rappresentazione è un atto della spontaneità, cioè non può essere considerata come appartenente alla sensibilità. lo la chiamo appercezione pura, per distinguerla dalla empirica, o anche appercezione originaria, poiché è appunto quella autocoscienza che, in quanto produce la rappresentazione io penso - che deve poter accompagnare tutte le altre, ed è in ogni coscienza una e identica -, non può più essere accompagnata da nessun'altra; l'unità di essa la chiamo pure unità trascendentale dell'autocoscienza, per indicare la possibilità della conoscenza a priori che ne deriva. Giacché le molteplici rappresentazioni, che sono date in una certa intuizione, non sarebbero tutte insieme mie rappresentazioni, se tutte insieme non appartenessero ad una autocoscienza, cioè, in quanto mie rappresentazioni (sebbene io non sia consapevole di esse, come tali), debbono necessariamente sottostare alla condizione in cui soltanto esse possono coesistere in una comune autocoscienza, poiché altrimenti non mi apparterrebbero in comune. [ ... ]
Ora, questo principio della unità necessaria dell'appercezione, è in verità esso stesso una proposizione identica, e perciò analitica, tuttavia chiarisce per necessaria una sintesi del molteplice dato in una intuizione, sintesi senza la quale non sarebbe possibile pensare quella entità universale della auto coscienza. Dall'Io infatti, come semplice rappresentazione, non è dato nessun molteplice; questo può essere dato soltanto nell'intuizione, che è altra cosa, e può essere pensato solo mediate l'unificazione in una coscienza. Un intelletto, nel quale ogni molteplicità fosse data immediatamente dall'autocoscienza, intuirebbe; ma il nostro intelletto può solamente pensare, e deve cercare nei sensi l'intuizione. [ ... ]
Secondo l'estetica trascendentale, il principio supremo della possibilità di ogni intuizione in rapporto alla sensibilità era: ogni molteplice di essa sottostà alle condizioni formali dello spazio e del tempo. Il principio supremo della possibilità stessa in rapporto all'intelletto è: che ogni molteplice dell'intuizione sottostà alle condizioni della unità sintetica originaria della appercezione. Tutte le molteplici rappresentazioni della intuizione sono soggette al primo, in quanto esse ci sono date; al secondo in quanto debbono poter essere unificate in una coscienza; perché senza di ciò niente può essere pensato e conosciuto, perché le rappresentazioni date non avrebbero in comune l'atto appercettivo lo penso, e non sarebbero perciò mai unificate in una autocoscienza.»
In queste pagine centrali dell' analitica Kant osserva dunque che ogni rappresentazione, per esser tale, ossia per essere una "mia" rappresentazione, presuppone l'unità trascendentale dell'autocoscienza, la quale svolge una duplice funzione: da un lato, appunto, accompagna ogni mia rappresentazione (ed è perciò unità analitica dell'appercezione); dall'altro deve garantire l'identità della coscienza in queste rappresentazioni stesse, e cioè che ogni io che accompagna le rappresentazioni sia sempre il medesimo io (ed è perciò unità sintetica dell'appercezione).
Con ciò siamo giunti al fondo della ricerca kantiana, poiché abbiamo scoperto l'attività sintetica a priori originaria, che è quella dell' auto coscienza che incessantemente si unifica in sé con se stessa nell'operare contemporaneamente la sintesi delle rappresentazioni (o fenomeni).
La vera "rivoluzione copernicana"può dirsi interamente compiuta solo a questo punto, perché solo in virtù dell'attività trascendentale (o sintetica a priori) dell'autocoscienza è possibile l'unità dell'esperienza: non ci sarebbe esperienza, non ci sarebbero oggetti se io non fossi appunto un'attività sintetica originaria in grado di riferire a sé i dati fenomenici, e quindi di unificarli mediante concetti.
Si fa altresì chiaro che il molteplice dell'intuizione sensibile non sottostà soltanto alle condizioni a priori dello spazio e del tempo, ma anche e anzitutto alle condizioni dell'unità sintetica originaria dell' appercezione. La semplice forma dell'intuizione sensibile esterna, lo spazio, non fornisce ancora alcuna conoscenza, poiché ogni unificazione delle rappresentazioni (per esempio delle rappresentazioni spaziali) richiede l'unità della coscienza nella sintesi di esse.
Ora è facile vedere che le categorie non sono che l'espressione dei modi unitari mediante i quali l'Io penso, l'autocoscienza, unifica in sé le rappresentazioni nella sintesi del giudizio; dal che deriva la validità di diritto e non soltanto di fatto delle categorie, alle quali deve necessariamente sottostare ogni intuizione per divenire oggetto per me.
È così sormontata anche l'obiezione di Hume: la relazione di causa tra i fenomeni è necessaria perché essa è una condizione a priori del darsi a me dei fenomeni stessi in un'esperienza, e cioè nella coscienza. Hume avrebbe ragione di sostenere l'inapplicabilità della relazione (o categoria) di causa alle cose in sé o noumeni; ma egli non ha visto che gli oggetti dell'esperienza non sono cose in sé, bensì fenomeni, e che in quanto tali dipendono, per essere esperiti, dall'unità dell'autocoscienza, la cui modalità sintetica originaria si espleta secondo modalità sintetiche a priori sue proprie, tra le quali vi è appunto la relazione causale tra i fenomeni, senza la quale, infine, i fenomeni stessi non possono essere esperiti.
In tale prospettiva, dunque, non è vero quanto si era precedentemente detto circa la possibilità dell'intuizione sensibile di intuire i fenomeni del tutto indipendentemente dall'intelletto: se infatti le intuizioni devono potersi riferire a un'autocoscienza, è necessario che l'intelletto eserciti a priori un "influsso sintetico" sulla sensibilità e la disponga all'accordo universale e necessario con le sue categorie, le quali, a loro volta, «non hanno altro uso per la conoscenza delle cose, se non in quanto queste sono prese come oggetti di esperienza possibile». Ma con ciò anche la scienza, purché riferita ai fenomeni ossia all'universalità oggettiva della nostra esperienza, si trova ormai definitivamente garantita.
Rimane invece aperto il problema concernente l'applicazione in concreto - e non più solo come possibilità di diritto - delle categorie al molteplice della sensibilità, problema dovuto al fatto che tra categorie e dati sensibili non c'è omogeneità, essendo le prime universali e i secondi individuali.
Nell'''analitica dei princìpi"Kant sostiene dunque la necessità di qualcosa di intermedio, che sia omogeneo da un lato con la categoria e dall'altro con il molteplice sensibile. Kant chiama schema questo intermediario e ne affida la realizzazione a una facoltà che chiama immaginazione produttiva, facoltà a mezza via tra l'intuire e il giudicare.
Ora, poiché tutte le intuizioni sensibili sono riconducibili in ultima analisi a intuizioni del senso interno, che si costituiscono fenomenicamente in base alla forma pura del tempo, tutti gli schemi sono determinazioni del senso interno, cioè determinazioni del rapporto dell'Io penso con le rappresentazioni sensibili. Esse, infatti, devono necessariamente unificarsi secondo concetti puri (le categorie dell'intelletto) che siano conformi all'unità dell'appercezione: unità che si fonda sull'intuizione pura del tempo.
In tal senso, lo schema costituisce per ciascuna categoria l'ordine di successione temporale secondo il quale le intuizioni sensibili si unificano nelle categorie dell'intelletto; e tale successione si produce proprio nell'apprensione dell'intuizione medesima.
Tuttavia, come emerge dalle pagine che ora leggeremo, quando Kant cerca di scoprire in quale modo operi l'immaginazione produttiva (così come aveva messo in luce l'operare dell'Io penso), deve riconoscere la sua impotenza: la produzione degli schemi ad opera dell'immaginazione, egli dice, «è un'arte nascosta nel più profondo della natura umana» e mai nessuno riuscirà a trarla alla luce. Il problema dello "schematismo" kantiano rimane così, sino ad oggi, uno dei più dibattuti e controversi.
«In ogni sussunzione d'un oggetto sotto un concetto, la rappresentazione del primo dev'essere omogenea con quella dell'ultimo, cioè il concetto deve contenere ciò che è rappresentato nell'oggetto da sussumere sotto di esso. [ ... ]
Ma i concetti puri dell'intelletto, paragonati alle intuizioni empiriche (anzi, sensibili in generale) sono affatto eterogenei, e non possono trovarsi mai in una qualsiasi intuizione. Ora, com'è possibile la sussunzione di queste sotto di quelli, e quindi l'applicazione della categoria ai fenomeni, poiché nessuno tuttavia dirà: questa categoria, per esempio la causalità, può essere anche intuita per mezzo dei sensi, e contenuta nel fenomeno? [ ... ]
Ora è chiaro che ci ha da essere un terzo termine, il quale deve essere omogeneo da un lato con la categoria e dall'altro col fenomeno, e che rende possibile l'applicazione di quella a questo. Tale rappresentazione intermediaria deve essere pura (senza niente di empirico), e tuttavia, da un lato, intellettuale, dall'altro sensibile.
Tale è lo schema trascendentale[ ... ]
Poiché quivi noi abbiamo visto che concetti sono affatto impossibili, né possono avere un qualsiasi significato, ove non sia dato a loro, o almeno agli elementi di cui constano, un oggetto; e che perciò non possono riferirsi alle cose in sé (senza cercare se e come queste possano esserci date); e inoltre, che l'unico modo in cui ci son dati gli oggetti è la modificazione della nostra sensibilità; e infine che i concetti puri a priori, oltre alla funzione dell'intelletto nella categoria, debbono pure contenere a priori condizioni formali della sensibilità (specialmente del senso interno) che costituiscono la condizione generale secondo la quale soltanto la categoria può essere applicata a un oggetto qualunque.
Questa condizione formale e pura della sensibilità, alla quale si restringe il concetto dell'intelletto nel suo uso, la chiameremo schema di questo concetto dell'intelletto, e il modo di comportarsi dell'intelletto con questi schemi, schematismo dell'intelletto puro. [ ... ]
Questo schematismo del nostro intelletto, rispetto ai fenomeni e alla loro semplice forma, è un'arte celata nel profondo dell'anima umana, il cui vero maneggio noi difficilmente strapperemo mai alla natura per esporlo scopertamente innanzi agli occhi. Possiamo dire soltanto questo: l'immagine è un prodotto della facoltà empirica della immaginazione produttiva, lo schema dei concetti sensibili (come delle figure nello spazio) è un prodotto e, per così dire, un monogramma della immaginazione pura a priori, per il quale e secondo il quale le immagini cominciano ad essere possibili: le quali immagini, peraltro, non si riconducono al concetto se non sempre mediante lo schema, che esse designano; e in sé non coincidono mai perfettamente con esso (concetto).
Lo schema, per contro, di un concetto puro intellettuale è qualche cosa che non si può punto ridurre a immagine, ma non è se non la sintesi pura, conforme a una regola dell'unità (secondo concetti in generale), la quale esprime la categoria, ed è un prodotto trascendentale dell'immaginazione, riguardante la determinazione del senso interno in generale, secondo le condizioni della sua forma (il tempo) in rapporto con tutte le rappresentazioni, in quanto queste debbono raccogliersi a priori in un concetto conformemente all'unità dell'appercezione [ ... ]»
Nella seconda edizione della Critica della ragione pura, avvedutosi dei fraintendimenti cui dava luogo la sua teoria trascendentale dell'esperienza, Kant aggiunse all'analitica dei princìpi una "confutazione dell'idealismo" che espone argomentazioni alle quali si appellerà anche in seguito, non accettando mai le conclusioni idealistiche che alcuni dei suoi stessi discepoli trarranno dal suo criticismo. Leggiamo dunque il fulcro dell' argomentazione confutatoria di Kant:
«L'idealismo (intendo quello materiale) è la teoria che dichiara l'esistenza degli oggetti nello spazio, fuori di noi, o semplicemente come dubbia e indimostrabile, oppure come falsa e impossibile. Il primo è l'idealismo problematico di Cartesio, il quale dichiara come indubitata una sola asserzione (assertio) empirica, cioè: io sono. Il secondo è l'idealismo dogmatico di Berkeley, il quale dichiara lo spazio - con tutte le cose cui esso inerisce quale condizione inscindibile - come un qualcosa che è in se stesso impossibile, e perciò dichiara anche le cose nello spazio come semplici immaginazioni. L'idealismo dogmatico è inevitabile, se si considera lo spazio come una proprietà, che debba toccare alle cose in se stesse; in tal caso, difatti, lo spazio - con tutto ciò cui esso serve di condizione - è un non ente. il fondamento di questo idealismo, tuttavia, è stato da noi soppresso nell'Estetica trascendentale. L'idealismo problematico, che non asserisce nulla al riguardo, ma sostiene soltanto la nostra incapacità di dimostrare con l'esperienza immediata un'esistenza all'infuori della nostra, è ragionevole e conforme ad un solido modo filosofico di pensare: tale modo di pensare non ammette alcun giudizio decisivo, prima che sia stata trovata una dimostrazione sufficiente. La dimostrazione richiesta deve quindi provare che, riguardo alle cose esterne, noi abbiamo altresì esperienza, e non soltanto immaginazione; il che non potrà certo avvenire, se non dimostrando che persino la nostra esperienza interna - indubitata secondo Cartesio - è possibile solo quando si presupponga un'esperienza esterna.
Teorema
La semplice coscienza - ma empiricamente determinata - della mia propria esistenza dimostra l'esistenza degli oggetti nello spazio fuori di me.
Dimostrazione
lo sono cosciente della mia esistenza come determinata nel tempo. Ogni determinazione di tempo presuppone qualcosa di permanente nella percezione. Questo permanente non può tuttavia essere qualcosa in me, poiché appunto la mia esistenza nel tempo può essere determinata soltanto mediante questo permanente. La percezione di questo permanente è quindi possibile solo attraverso una cosa fuori di me, e non già mediante la semplice rappresentazione di una cosa fuori di me. Di conseguenza, la determinazione della mia esistenza nel tempo è possibile solo mediante l'esistenza di cose reali, che io percepisco fuori di me. La coscienza del tempo, orbene, è necessariamente congiunta con la coscienza della possibilità di questa determinazione temporale, e perciò è anche necessariamente collegata con l'esistenza delle cose fuori di me, intesa come condizione della determinazione temporale. Ossia, la coscienza della mia propria esistenza è al tempo stesso una coscienza immediata dell'esistenza di altre cose fuori di me.»
A seguito di tale dimostrazione, Kant può concludere con una triplice osservazione. In primo luogo, egli nota che la rappresentazione io sono, in quanto autocoscienza che accompagna ogni pensiero, mentre racchiude immediatamente l'esistenza di un soggetto, tuttavia non esprime in alcun modo una conoscenza del soggetto (cioè un'esperienza di esso); infatti ogni conoscenza richiede un'intuizione (in questo caso l'intuizione interna del tempo) rispetto alla quale un oggetto (in questo caso il soggetto in questione) deve essere determinato; ma poiché ogni intuizione (anche quella interna del tempo) richiede il darsi di un oggetto esterno, allora il teorema enunciato e la sua dimostrazione risultano ulteriormente avvalorati.
In secondo luogo, in netto contrasto con l"'idealismo problematico" di Cartesio, Kant sottolinea come la coscienza che il soggetto pensante ha nella rappresentazione dell'io non sia affatto un'intuizione, ma semplicemente una rappresentazione intellettuale della spontaneità del pensiero; di conseguenza, «questo io non ha neanche il minimo predicato dell'intuizione», la quale ha infatti solo natura sensibile e richiede perciò il darsi di oggetti esterni.
In terzo luogo e infine, Kant osserva che da quanto dimostrato non deriva tuttavia che ogni rappresentazione intuitiva di cose esterne implichi necessariamente la loro esistenza «poiché tale rappresentazione può certo essere il semplice effetto della capacità di immaginazione (tanto nei sogni quanto nella follia)»; col che Kant intende ribadire come, al di là di ogni valutazione relativa all'esperienza interna in generale e a quella esterna in generale, solo l'analisi critica delle determinazioni e dei criteri specifici di ogni esperienza reale consenta di distinguere effettivamente un' esperienza presunta da una semplice immaginazione.
Queste osservazioni annunciano inoltre le precisazioni che Kant apporterà in un ulteriore capitolo dell'analitica, a proposito di come si debba correttamente intendere la generale distinzione di tutti gli oggetti in fenomeni e noumeni, modificando profondamente le posizioni assunte nella Dissertazione del'70.
Il noumeno infatti non deve essere inteso in senso positivo come l'oggetto di un'intuizione non sensibile ma puramente intellettuale, poiché sappiamo che tale tipo di intuizione non ci appartiene; esso deve invece essere inteso in senso negativo, come ciò che non è oggetto della nostra intuizione sensibile. Noumeno è quindi soltanto un «concetto limite per descrivere le pretese della sensibilità e di uso perciò puramente negativo. Esso tuttavia non è foggiato ad arbitrio, ma si connette con la limitazione della sensibilità, senza perciò porre nulla di positivo al di fuori del dominio di essa».
La seconda parte della Logica è da Kant dedicata alla" dialettica" intesa, alla maniera dell'antica sofistica, come una logica dell'apparenza o dell' errore. Si entra cioè in un terreno caratterizzato dalla manifesta impossibilità, per la ragione umana, di pervenire a conoscenze solide e sicure, ovvero in un orizzonte di cognizioni illusorie che sempre di nuovo deludono le aspettative della ragione.
Non si tratta tuttavia qui di sofismi qualsiasi o di banali illusioni che un'accorta confutazione possa rimuovere e vanificare una volta per tutte; si tratta piuttosto di un'illusione trascendentale, cioè costitutiva della stessa ragione e derivante dalla sua peculiare natura, sì da essere destinata a risorgere al di là della" critica", rinnovando la propria forza di attrazione che è basata su un'esigenza insopprimibile dell'animo umano. Il terreno della dialettica, come si vedrà, è infatti quello proprio della metafisica. La dialettica concerne l'ambito specifico della "ragione pura"in quanto questa si pone al di sopra della sensibilità e dell'intelletto, avanzando esigenze sue proprie. Come l'intelletto raccoglie l'insieme delle funzioni del giudicare, ossia l'unità sintetica dei fenomeni, così la ragione raccoglie l'insieme dei princìpi, ossia l'unità sintetica delle categorie.
La ragione opera dunque un'unificazione delle categorie, sicché la sua forma espressiva non è il giudizio, ma il sillogismo. Mentre le sintesi dell'intelletto sono rivolte al condizionato, cioè ad elementi finiti e spazio-temporalmente determinati, la ragione esige invece la totalità delle condizioni da cui muovono le sintesi intellettuali, cioè l'intera serie delle stesse, e perciò l'incondizionato.
Nel fare questo la ragione non si può evidentemente riferire all'esperienza (ove tutto è condizionato), ma la oltrepassa senz'altro facendo dei concetti puri dell'intelletto non un uso empirico (uso che è invece quello proprio dell'intelletto, in quanto esso li applica sempre ai fenomeni), bensì un uso trascendente. Per tale motivo l'unità intellettuale dei fenomeni si distingue nettamente dalla loro unità razionale, dove razionale equivale a dialettico, ossia illusorio.
«Ogni nostra conoscenza sorge dai sensi, indi va all'intelletto e finisce nella ragione, al di sopra della quale non c'è nulla di più alto per elaborare la materia della intuizione e sottoporla alla più alta unità del pensiero. Ora, se io debbo dare una definizione di questa suprema potenza conoscitiva, mi trovo in qualche imbarazzo. Di essa, come dell'intelletto, c'è un uso semplicemente formale, cioè logico, in cui la ragione astrae da ogni contenuto di conoscenza, ma c'è anche un uso reale, poiché essa contiene l'origine di certi concetti e di certi principi, che non ricava né dai sensi né dall'intelletto. [ ... ]
Noi definimmo nella prima parte della nostra Logica trascendentale l'intelletto come la facoltà delle regole; qui da esso distinguiamo la ragione, dicendola la facoltà dei principi. [ ... ]
Se l'intelletto può essere una facoltà dell'unità dei fenomeni mediante le regole, la ragione è la facoltà dell'unità delle regole dell'intelletto sottoposte a principi. Essa dunque non si indirizza mai immediatamente all'esperienza o a un oggetto qualsiasi, ma all'intelletto, per imprimere alle conoscenze molteplici di esso un'unità a priori per via di concetti; unità che può dirsi unità razionale, ed è di tutt'altra specie da quella che può essere prodotta dall'intelletto. Questo è il concetto generale della facoltà della ragione, per quanto esso s'è potuto spiegare nella mancanza assoluta di esempi (come quelli che solo in seguito potranno darsi). [ ... ]
Ora, tutti i concetti puri in generale hanno a che fare con l'unità sintetica delle rappresentazioni, ma i concetti della ragion pura (idee trascendentali) con l'unità sintetica incondizionata di tutte le condizioni in generale. Per conseguenza, tutte le idee trascendentali si possono ridurre sotto tre classi, di cui la prima comprende l'assoluta (incondizionata) unità del soggetto pensante, la seconda l'assoluta unità della serie delle condizioni del fenomeno, la terza l'assoluta unità della condizione di tutti gli oggetti del pensiero in generale.
Il soggetto pensante è l'oggetto della Psicologia; il complesso di tutti i fenomeni (il mondo), l'oggetto della Cosmologia; e la cosa, che contiene la condizione suprema della possibilità di tutto ciò che può essere pensato (l'essenza di tutte le essenze), l'oggetto della Teologia. La ragion pura dunque fornisce l'idea per una dottrina trascendentale dell'anima (psychologia rationalis), per una scienza trascendentale del mondo (cosmologia rationalis), e, infine, anche per una conoscenza trascendentale di Dio (theologia trascendentalis). Lo stesso semplice disegno di una o dell'altra di queste scienze non proviene punto dall'intelletto, quand'anche esso si unisca al più elevato uso logico della ragione, ossia a tutti i raziocinii immaginabili per spingersi da uno dei suoi oggetti (fenomeno) a tutti gli altri, fino ai membri più remoti della sintesi empirica; ma è unicamente un puro e schietto prodotto o problema della ragion pura.»
I concetti razionali puri, che prescrivono alla ragione la direzione verso l'unità del tutto assoluto e incondizionato, sono detti da Kant idee, appunto perché l'unificazione che essi propugnano «non è se non un'idea», qualcosa che non potrà divenire mai contenuto di un' esperienza attuale e perciò qualcosa di trascendente così come trascendenti erano le idee di Platone.
Le idee della ragione, in quanto forme a priori della pretesa conoscenza dell'incondizionato, fondano il complesso delle" scienze" metafisiche, le quali si sono tradizionalmente organizzate in sistema (come per esempio in Wolff) distinguendosi in psicologia razionale, cosmologia razionale e teologia razionale, rispettivamente in riferimento alle idee di anima, di mondo e di Dio.
La psicologia razionale pretende infatti di pervenire alla conoscenza dell' anima come soggetto incondizionato (o, che è lo stesso, assoluto) in quanto libero dalle condizioni fenomeniche e inteso come pura sostanza metafisica semplice, libera e immortale; la cosmologia razionale pretende di conoscere il mondo nella sua totalità assoluta (l'universo) e di dirci se esso ha avuto o no inizio nel tempo, se ha o no un fine ultimo, se è o no divisibile all'infinito ecc.; la teologia razionale pretende di dimostrarci l'esistenza di Dio in quanto ente incondizionato e assoluto per definizione, ente che Kant chiama l' «ideale della ragione pura».
Tale scienza dell'incondizionato, nella sua triplice partizione, è però una scienza impossibile e illusoria (o, nella terminologia kantiana, "dialettica") in quanto pretende di estendere le nostre conoscenze al di là dell'esperienza e cioè di ricavare un sapere dalla pura ragione senza l'ausilio della sensibilità: le tre idee della ragione, infatti, non sono categorie e, diversamente dai concetti puri dell'intelletto, non hanno un corrispondente molteplice sensibile da unificare o al quale applicarsi.
Esse non possono quindi fornirci alcuna conoscenza in atto, né possono in alcun modo determinare a priori la forma dei fenomeni, pretendendo di rivolgersi alla conoscenza dell'incondizionato noumenico; se non che, come sappiamo, là dove l'intuizione sensibile non lo soccorre e non gli offre il materiale sul quale esercitare la propria spontaneità di pensiero, l'uomo è incapace di conoscenza, come dimostrano e confermano i sofismi dialettici nei quali si imbatte immancabilmente la ragione ogni volta che si sforzi di definire scientificamente l'anima, l'universo e Dio.
Kant mostra perciò come la psicologia razionale inevitabilmente incappi in un paralogismo (o "ragionamento sbagliato") consistente nell'assumere l'io come qualcosa di indipendente dal mondo dei fenomeni e dalle rappresentazioni del senso interno, facendone una "sostanza"metafisica (ossia un'anima) immortale e indipendente dal corpo fenomenico.
Ora, l'Io penso è certamente indipendente dalle rappresentazioni fenomeniche, nel senso che esso è una funzione trascendentale; ma tale funzione è comunque e sempre rivolta a unificare il molteplice delle rappresentazioni date nell'esperienza, in ciò appunto espletandosi come funzione. Il paralogismo della psicologia razionale opera quindi un indebito scambio tra quella che è una funzione trascendentale e quella che sarebbe un' esistenza trascendente, sulla quale, del resto, non è possibile sapere niente, poiché ogni volta che riflettiamo sul nostro io lo troviamo impegnato nelle sue funzioni trascendentali, a contatto con il mondo fenomenico e anzitutto con le rappresentazioni interne del nostro corpo. Né ha senso applicare alla funzione trascendentale dell'io il concetto di sostanza (o, che è lo stesso, di anima), dato che la sostanza è appunto una categoria, un modo di unificazione dei fenomeni, attuato dall'Io penso mediante la sintesi a priori. È dunque chiaro che dell'io non si dà conoscenza metafisica (o incondizionata o noumenica), ma solo conoscenza fenomenica, ristretta e connessa ai limiti dell'esperienza.
La cosmologia razionale sfocia invece nelle antinomie dialettiche, ossia in dimostrazioni illusorie che prevedono sempre un' opposta dimostrazione, altrettanto legittima della prima in apparenza, altrettanto illusoria in sostanza. Tali antinomie sono la conseguenza inevitabile della pretesa della ragione di non attenersi ai limiti della fisica sperimentale e di estendere le proprie conoscenze all'universo nella sua totalità.
Così, alla tesi secondo cui «il mondo nel tempo ha un cominciamento e, per lo spazio, è chiuso dentro limiti» si contrappone l'antitesi che dimostra come «il mondo non ha né cominciamento né limiti spaziali, ma è, così rispetto al tempo come allo spazio, infinito»: è questa la prima antinomia della ragione. La seconda riguarda la contrapposizione tra la tesi secondo cui «ogni sostanza composta nel mondo consta di parti semplici, e non esiste in nessun luogo se non il semplice o ciò che ne è composto», e l'antitesi che invece nega l'esistenza di parti semplici.
Nella terza antinomia la tesi afferma l'insufficienza, per spiegare i fenomeni del mondo, del principio di causalità secondo le leggi di natura, e pone invece la necessità di ammettere una «causalità per libertà»; l'antitesi nega l'esistenza di qualsiasi tipo di libertà. La tesi della quarta antinomia afferma che «nel mondo c'è qualcosa che, o come sua parte o come sua causa, è un essere assolutamente necessario»; l'antitesi che «in nessun luogo esiste un essere assolutamente necessario, né nel mondo, né fuori del mondo, come sua causa».
Le antinomie dimostrano dunque che, quando si applichi l'idea della totalità assoluta, dell'universo (idea che è valida solo in riferimento alle cose in sé, delle quali noi nulla possiamo conoscere) al mondo dei fenomeni, la ragione incorre in irresolubili conflitti con se stessa: quei conflitti che, dice Kant, fanno della cosmologia, e della metafisica di cui la cosmologia è parte, una storia di inutili battaglie dialettiche, senza che per principio si dia possibilità di conoscenza scientifica e perciò durevole.
Il supremo sforzo della ragione si esprime infine nella teologia razionale, che pretende di dimostrare l'esistenza dell' essere supremo. Kant esamina la prova fisico-teologica dell' esistenza di Dio, la quale muove dall'ordine e dall'armonia del mondo per inferire l'esistenza necessaria di un artefice intelligente; ma è di fatto impossibile ricavare dal così detto ordine della natura un'adeguata concezione di Dio come onnisciente, onnipotente ecc., perché la natura non ci suggerisce niente di simile.
D'altro canto, la prova cosmologica, che muove dall'esistenza contingente delle cose per risalire all'esistenza dell'essere necessario, abbisogna per sostenersi della preventiva dimostrazione che all'essere necessario competa a priori l'esistenza; a tal fine però, l'unica prova concludente e autosufficiente che può essere addotta è la cosiddetta prova ontologica di Anselmo d'Aosta (e poi, moderatamente, di Cartesio), da Kant così riassunta: «Il concetto dell' essere realissimo contiene in sé ogni realtà; ora, nella realtà è compresa anche l'esistenza; quindi l'esistenza è compresa nel concetto d'un tale essere realissimo, e se la si nega si cade in contraddizione». Con questa argomentazione la dimostrazione ontologica tratta il predicato dell'esistenza come qualcosa di analitico, cioè di ricavabile a priori dall'analisi del concetto: il concetto di Dio in quanto essere perfettissimo non può infatti mancare di alcuna "perfezione", dal che deriva che ad esso pertiene anche il predicato dell'esistenza.
Ma, come Kant aveva già sottolineato in uno scritto precritico (l’unico argomento possibile per una dimostrazione dell'esistenza di Dio, del 1763), l'esistenza non è una qualità che arricchisce il significato di un concetto, non è il predicabile di un concetto "logico", ma qualcosa che indica la "posizione reale" di quel concetto, non riguardando la sua essenza bensì il suo modo di sussistere come esistente o non esistente. Ogni giudizio di esistenza è un giudizio sintetico e comporta perciò un ricorso all'esperienza. Negare il predicato dell'esistenza ad un concetto (per esempio al concetto di "essere realissimo" o "necessario") non può mai implicare contraddizione, poiché questa riguarda soltanto i giudizi analitici e i predicati logici, e l'esistenza non è tra questi, dato che «sia quale e quanto si voglia il nostro concetto di un oggetto, noi dobbiamo sempre uscire da esso per conferire a questo oggetto l'esistenza», dobbiamo cioè ricorrere alle sintesi dell' esperienza. In altri termini, si potrebbe dunque dire che l'esistenza si mostra e non si dimostra, sicché io posso giudicare dell' esistenza non mediante un ragionamento a priori, ma solo in virtù di un'intuizione spazio-temporale. «Tutta la fatica e lo studio - conclude Kant - posto nel tanto famoso argomento antologico dell' esistenza di un essere supremo sono stati dunque perduti, e un uomo, mediante semplici idee, potrebbe arricchirsi di conoscenze né più né meno di guanto un mercante potrebbe arricchirsi di quattrini se egli, per migliorare la propria condizione, volesse aggiungere alcuni zeri alla sua situazione di cassa». La medesima valutazione vale per tutta la metafisica: con la sua pretesa di conoscere qualcosa a priori e in riferimento alle pure idee della ragione, essa aggiunge all'effettiva scienza umana soltanto degli zeri.
Se dunque la scienza è possibile in quanto fondata sull'uso empirico delle facoltà trascendentali della sensibilità e dell'intelletto, la metafisica non è né sarà mai possibile come scienza, in quanto fondata sull' uso trascendente delle categorie dell'intelletto, arbitrariamente assunte dalle idee della ragione per operare sintesi impossibili perché senza oggetto.
Ciò non significa tuttavia che le idee della ragione non abbiano alcuna funzione positiva. Esse infatti danno anzitutto luogo a un'illusione che, come abbiamo più volte sottolineato, non è estirpabile dalla natura umana; in secondo luogo, proprio in quanto espressione di problemi irrinunciabili per l'uomo, le idee della ragione, pur non svolgendo una funzione costitutiva di conoscenza, possono svolgere una funzione regolativa fondamentale ai fini delle conoscenze dell'intelletto, spronando l'uomo a coordinarle ed estenderle secondo un "ideale", appunto, di totalità e incondizionatezza. Essendo stato chiarito lo scambio dogmatico operato dalla metafisica, che pretende di assumere l'oggetto delle idee come una realtà, tale oggetto rivela finalmente il suo autentico significato: esso è infatti il fine problematico, ovvero l'ideale della ragione umana.
A conclusione della Dialettica trascendentale Kant colloca una lunga e importante Appendice in cui sviluppa il versante "positivo" della dialettica della ragione. La disposizione naturale del pensiero umano a trascendere i limiti dell'esperienza per pervenire alla totalità, quale si esprime nelle costruzioni teoriche della metafisica, non conduce solo e necessariamente allo scacco e ai fallimenti rivelati dalla dialettica: essa può assolvere, invece, una essenziale funzione conoscitiva. La conoscenza, infatti, è estensiva e unificatrice: la regola che spinge la ragione a risalire lungo la serie delle condizioni alla ricerca di leggi sempre più comprensive e generali sotto le quali unificare il mondo dell'esperienza conduce all'ampliamento del sapere scientifico. Essa fallisce là dove pretende di afferrare la totalità, e qui interviene l'opera limitatrice della critica, che mostra l'illegittimità di un uso costitutivo, ma anche la fecondità dell'uso regolativo delle idee.
«L'esito di tutti i tentativi dialettici della ragion pura non solo conferma tutto ciò che fu oggetto di dimostrazione nell'Analitica trascendentale - cioè che tutti i ragionamenti che pretendono di condurci oltre il campo dell'esperienza possibile sono ingannevoli e infondati -, ma ci impartisce anche un insegnamento particolare, cioè che l'umana ragione ha in sé una spinta naturale a varcare questi limiti e che le idee trascendentali sono per essa non meno naturali di quanto per l'intelletto lo siano le categorie; con la differenza, però, che le ultime conducono alla verità ossia all'accordo dei nostri concetti con l'oggetto, mentre le prime non producono che una mera parvenza, tuttavia irresistibile, il cui inganno può venir a stento rimosso con la critica più penetrante.
Tutto ciò che trova fondamento nella natura delle nostre forze dev'essere conforme a un fine e accordato al giusto uso di esse, purché possiamo evitare il fraintendimento e porre in chiaro la loro direzione. E dunque presumibile che le idee trascendentali abbiano un loro uso proficuo, quindi immanente1; ma quando il loro significato venga travisato ed esse vengano assunte come concetti di cose reali, si rivelano suscettibili di applicazione trascendente e, per ciò stesso, illusoria2. Non l'idea in se stessa ma il suo uso può infatti, rispetto all'intera esperienza possibile, essere o esterno (trascendente) o interno immanente, a seconda che si applichi l'idea a un oggetto, che si presume le corrisponda, o solo all'uso dell'intelletto in generale in relazione agli oggetti con cui l'intelletto ha a che fare3. Qualsiasi errore di surrezione4 è in ogni caso da attribuirsi a una manchevolezza del giudizio, non all'intelletto o alla ragione.
La ragione non si riferisce mai direttamente a un oggetto, ma sempre soltanto all'intelletto, attraverso il quale accede al proprio uso empirico. La ragione non crea quindi concetti (di oggetti), ma si limita a ordinarli e a dar loro quella unità che essi possono acquisire nella loro maggior estensione possibile, cioè rispetto alla totalità della serie; a questa totalità l'intelletto non pone mente, avendo di mira soltanto la connessione per la quale si vanno ovunque costituendo serie di condizioni in base a concetti 5. La ragione non ha dunque altro oggetto all'infuori dell'intelletto e dell'impiego appropriato di esso; e allo stesso modo che l'intelletto raccoglie il molteplice nell'oggetto servendosi dei concetti, così la ragione raccoglie il molteplice dei concetti servendosi delle idee, progettando una certa unità collettiva quale scopo delle operazioni dell'intelletto, le quali, altrimenti, non producono che l'unità distributiva6.
Io asserisco dunque che le idee trascendentali sono inadatte a qualsiasi uso costitutivo7, per cui debbano fornire concetti di oggetti; e che se sono intese in questo modo, si risolvono in semplici concetti raziocinanti (dialettici). Esse hanno però un uso regolativo vantaggioso e imprescindibile, consistente nel dirigere l'intelletto verso un certo scopo, in vista del quale le linee direttive delle sue regole convergono in un punto, che - pur essendo null'altro che un'idea (focus imaginarius), cioè un punto da cui non possono realmente provenire i concetti dell'intelletto, perché è fuori dell'esperienza possibile - serve tuttavia a conferire a tali concetti la massima unità ed estensione possibile8 [ .. .]
Si dice allora, ad esempio: le cose del mondo debbono esser considerate, come se9 traessero la loro esistenza da una intelligenza suprema. In tal caso, l'idea è propriamente solo un concetto euristico, per nulla ostensivo; essa non mostra in qual modo un oggetto sia costituito, ma in quale modo noi dobbiamo procedere, sotto la guida di quel concetto, a cercare la costituzione e la connessione degli oggetti dell'esperienza in generale. Pertanto, se si può mostrare che, quantunque le tre idee trascendentali (psicologica, cosmologica e teologica) non importino un riferimento diretto ad alcun oggetto che corrisponda a esse, né una determinazione dell'oggetto, tutte le regole dell'uso empirico della ragione, una volta presupposto l'oggetto nell'idea, portano a un'unità sistematica e ampliano comunque la conoscenza sperimentale, senza mai contrastarla - il procedere in base a tali idee costituisce una massima10 necessaria della ragione. E in ciò consiste la deduzione trascendentale di tutte le idee della ragione speculativa, nella loro qualità non già di princìpi costitutivi per l'estensione della nostra conoscenza a oggetti non compresi nella nostra esperienza, ma di princìpi regolativi dell'unità sistematica del molteplice della conoscenza empirica in generale, che è consolidata e ordinata dentro i suoi limiti; il che non potrebbe aver luogo senza tali idee e col semplice uso dei princìpi dell'intelletto11. Renderò la cosa più chiara. Seguendo le suddette idee in qualità di princìpi, prima di tutto collegheremo (nella psicologia) tutti i fenomeni, le operazioni e la recettività del nostro animo secondo il filo conduttore dell'esperienza interna, come se il nostro animo fosse una sostanza semplice, esistente permanentemente (nella vita, almeno) con identità personale, mentre i suoi stati, in cui quelli del corpo rientrano soltanto come condizioni esterne, sono in costante cambiamento12. In secondo luogo (nella cosmologia), attraverso un'indagine che non potrà mai aver sosta, incalzeremo la serie delle condizioni, tanto dei fenomeni naturali interni come degli esterni, come se essa fosse in sé infinita e sprovvista di un termine primo e supremo, benché ciò non importi da parte nostra la negazione, fuori di tutti i fenomeni, dei fondamenti primi, puramente intelligibili, di essi fenomeni, anche se non ci è mai permesso di inserirli nella connessione delle spiegazioni naturali, visto che non ne abbiamo conoscenza. Infine, in terzo luogo, dovremo (in relazione alla teologia) assumere tutto ciò che può in qualche modo far parte della connessione dell'esperienza possibile, come se questa esperienza desse luogo a un'unità assoluta, e tuttavia pienamente dipendente e pur sempre condizionata rispetto al mondo sensibile, e come se l'insieme di tutti i fenomeni (il mondo sensibile stesso) avesse, fuori di sé, un unico fondamento, supremo o onnisufficiente, cioè una ragione, per così dire, autosufficiente, originaria e creativa, in rapporto alla quale noi disponiamo ogni uso empirico della nostra ragione nella sua massima estensione, come se gli oggetti provenissero da quel prototipo di ogni ragione. Questo vuol dire, che non bisogna far derivare i fenomeni interni dell'anima da una sostanza semplice pensante, bensì gli uni dagli altri, in base all'idea d'un essere semplice; che non bisogna derivare l'ordine e l'unità sistematica del mondo da una suprema intelligenza ma, invece, dall'idea d'una causa sommamente sapiente, occorre ricavare la regola secondo cui la ragione, nella connessione delle cause e degli effetti nel mondo, sia usata nel modo migliore per la propria soddisfazione13.»
1. Cioè all'interno dell'esperienza, secondo la funzione regolativa che verrà illustrata poi.
2. Non dunque le idee in se stesse sono illusorie, ma la loro assunzione acritica (dogmatica) e il loro uso trascendente.
3. Si ricordi che, a differenza delle categorie dell'intelletto, le idee della ragione non si applicano a oggetti, ma solo a concetti. Non possono dunque avere, a differenza delle categorie, una funzione costitutiva del mondo dell'esperienza.
4. L'operazione con cui si assume arbitrariamente un concetto come oggetto.
5. L'intelletto opera connessioni fra i fenomeni all'interno di una serie; la ragione, attraverso catene di sillogismi, tende a costituire la totalità della serie.
6. La ragione, potremmo dire, costruisce il quadro d'insieme di tutti i fenomeni, al cui interno acquistano un posto e un significato i fenomeni particolari sussunti alle categorie dell'intelletto.
7. Come condizione di possibilità di oggetti di conoscenza.
8. L"'unità collettiva" dei fenomeni, cioè la totalità, è dunque una sorta di punto ideale a partire dal quale l'opera dell'intelletto può essere indirizzata verso la massima unità ed estensione. Non è un oggetto, ma un'idea-limite funzionale al nostro sapere, non costitutiva di esso.
9. Questa dottrina del "come se" (als ob) verrà ampiamente ripresa nella filosofia dell'Ottocento. Si tratta di un "punto di vista", di un principio soggettivo di orientamento assunto consapevolmente. Se noi non ci ponessimo dal punto di vista della totalità - ovvero se non operassimo come se questa totalità fosse conseguibile - non potremmo avere un sistema di conoscenze particolari.
10. La massima è un principio soggettivo e se è una massima della ragione che impone la ricerca della totalità delle condizioni, ciò non vuol dire che la totalità stessa sia data oggettivamente.
11. Perché i principi dell'intelletto operano solo sulla determinazione dei fenomeni dati attualmente, quindi settorialmente, non globalmente.
12. I principi della psicologia razionale (unità,permanenza, personalità dell'anima) sono qui reinterpretati da Kant come guide per l'orientamento della conoscenza. Lo stesso accade per le proposizioni della cosmologia e della teologia.
13. Non si deve far derivare l'ordine delle cose dall'idea di Dio o di mondo, ma si deve ricavare da queste idee la regola che consenta la massima estensione e fecondità del sapere.