Il conflitto noto come la "lotta per le investiture", che, così a lungo, aveva profondamente diviso le due massime autorità riconosciute del mondo occidentale, non poteva ormai proseguire senza creare dei seri problemi ad entrambi i contendenti. Si affermarono così le tesi di coloro che, nei due opposti schieramenti - quello pontificio e quello imperiale - potevano essere accomunati dalla volontà di mediazione. Di fatto, riconoscendo la duplice natura delle funzioni proprie dei vescovi, spirituali e civili, si poteva ammettere un'investitura da parte dell'impero, che avrebbe interessato però soltanto le questioni ed i poteri temporali, dopo che il vescovo fosse stato consacrato nel pieno rispetto dei canoni ecclesiastici. Questa ipotesi fu all'origine degli accordi siglati a Worms, nel settembre del 1122, dall'imperatore Enrico V e dal pontefice Callisto II: da allora, l'elezione dei vescovi e degli abati dei monasteri più importanti avrebbe dovuto seguire esclusivamente le norme canoniche che prevedevano un elettorato composto esclusivamente dai membri dell'alto clero e dai monaci. L'intervento dell'imperatore sarebbe stato ammesso soltanto dopo questa prima fase e, proprio per sottolineare il carattere terreno dell'autorità conferita, si era previsto per il sovrano l'uso di uno scettro e non quello del pastorale e dell'anello, prerogativa e simbolo della dimensione divina del potere pontificio.
Alla fine del primo millennio, la Chiesa attraversava un difficile momento di transizione. Anche se è possibile che la decadenza dell'istituzione ecclesiastica in quest'epoca sia stata esagerata da molti predicatori desiderosi di mettere in evidenza la drammatica necessità di una riforma, è incontestabile che nei secoli precedenti il clero si fosse fin troppo organicamente inserito nella società, finendo per trovarsi coinvolto nelle dispute di potere e negli affari secolari. I compromessi con i potentati politici e l’attaccamento ai beni materiali, oltre alla corruzione assai diffusa fra gli ecclesiastici (particolarmente grave era la piaga del concubinaggio, il cosiddetto "nicolaismo"), avevano fatto perdere alla Chiesa molto del suo prestigio. Come se ciò non bastasse, i vescovi, che avrebbero dovuto essere uomini della Chiesa in quanto responsabili di una diocesi, spesso si trovavano ad esercitare funzioni di governo civile, come uomini dell’imperatore, del re o del signore che li aveva imposti nella carica. Oltre al loro ufficio, poi, essi ricevevano dalle autorità laiche il beneficio di terre, con annessa l’organizzazione e il controllo del lavoro dei contadini, nonché, sempre nelle terre che avevano in concessione, il diritto di alloggio e sostentamento per sé e per il loro seguito. I ministri di Dio, in altre parole, si vendevano al potere più forte e facevano mercato delle cariche ecclesiastiche (pratica comunemente indicata con il termine di "simonia"). Questi comportamenti, peraltro, non erano limitati ai vescovi, ma coinvolgevano talvolta gli abati dei monasteri e addirittura i semplici preti, che, nell’affannoso tentativo di assicurarsi solide posizioni patrimoniali, trascuravano deliberatamente la cura delle anime.
Forse mai come allora la Chiesa era stata dilaniata da una così profonda crisi che l'agitava al suo interno, dovuta al degrado morale delle gerarchie ecclesiastiche lamentato da molti. Tutto sembrò avviarsi ad una risoluzione quando, nel 1061, venne eletto papa Alessandro II, uno dei più strenui fautori del movimento di riforma della Chiesa: la terra cominciava a tremare sotto i piedi di tutti quei prelati che sapevano di aver ottenuto la loro carica per vie illecite, non ultima quella dell'acquisto (simonia). Sembrava questo il caso del vescovo fiorentino Pietro Mezzabarba, vituperato ed accusato proprio per i suoi presunti comportamenti simoniaci. Sentendosi alle strette, il vescovo annunciò la fondazione di un convento: un chiaro messaggio pacificatore destinato a placare gli animi. Al punto però in cui erano giunte le cose, ci sarebbe voluto ben altro: i fiorentini, con l'eccezione della nobiltà, erano ormai schierati in maniera quasi compatta contro il loro vescovo, al fianco invece dei monaci di Vallombrosa che capeggiavano anche qui il partito riformatore e che erano pronti ad approfittare di un'occasione così promettente per la loro causa. La situazione degenerò per il tentativo perpetrato dal Mezzabarba di far arrestare Giovanni Gualberto, futuro santo, provocazione che rischiò di degenerare in una sommossa subito condannata da Roma, che ingiunse ai vallombrosani di allontanarsi dalle città, in ossequio alla regola benedettina. A questo punto, tutto veniva messo in discussione, compresa la stessa autorità romana, finché, sebbene questa pratica fosse stata proibita ormai da tempo, da parte della Chiesa stessa venne deciso che il miglior modo di stabilire, una volta per tutte, la verità doveva essere un'ordalia, ossia un giudizio divino dove sarebbe stata messa alla prova la credibilità degli accusatori. Così, il 13 febbraio del 1068, in un campo vicino alla città gremito di spettatori, venne allestito il rogo tra le cui fiamme avrebbe dovuto transitare il monaco vallombrosano Pietro, uscendone indenne, per intervento divino, soltanto se le tesi contro il vescovo simoniaco fossero state vere. Alla fine di una cerimonia religiosa, Pietro attraversò illeso l'enorme rogo, dimostrando la bontà delle tesi dei riformatori e guadagnandosi l'epiteto di "Igneo", in memoria dell'impresa. Il trionfo morale vallombrosano si tradusse in una riscossa politica: il pontefice e poi la giovane ed attiva contessa Matilde di Canossa avrebbero infatti di lì a poco consolidato il nuovo corso della Chiesa.
Alla metà dell’XI secolo il papato volle rafforzare la sua monarchia universale e riaffermare con forza la sua autorità suprema in tutte le direzioni: contro l’aristocrazia romana, contro le maglie dei rapporti feudali, entro le quali erano irretiti i vescovi simoniaci, e contro l’impero, che, arrogandosi il diritto di nominare i vescovi, li allontanava dalla naturale subordinazione al papa. Nel 1056 a Enrico III succedette il figlio bambino Enrico IV (1056-1106), mentre al soglio pontificio saliva il cluniacense Niccolò II (1058-61). Con l’intenzione di operare un drastico cambiamento nella disciplina ecclesiastica, soprattutto in merito all’elezione dei vescovi e del papa, Niccolò II convocò nel 1059 il Sinodo del Laterano, nel quale decretò il divieto per i laici (e quindi per l’imperatore) di prendere parte alla nomina dei vescovi, impedendo a chiunque di ricevere cariche ecclesiastiche dalla mano di laici, e stabilì che l’elezione del papa fosse affidata al collegio dei cardinali (come avviene ancora oggi); egli condannò inoltre la simonia e ribadì l’obbligo del celibato del clero. Le decisioni del sinodo, tutte ispirate al movimento riformatore partito da Cluny, portavano a conseguenze profondamente rivoluzionarie nella vita del papato e della Chiesa: svincolavano questa dalla tutela degli imperatori germanici sancita dal Privilegium Othonis; proponevano una costituzione interna della Chiesa, sempre più centralizzata attorno al papa, ponendo fine in questo modo alle autonomie locali; infine estromettevano i laici dal governo della Chiesa, accentuando con il celibato ecclesiastico le differenze tra questi e il clero. Era prevedibile che le conclusioni del Sinodo lateranense, ribadite con forza dai successori di Niccolò II - papa Alessandro II (1061-73) e Gregorio VII (1073-85) - non sarebbero passate senza suscitare gravi reazioni sia a Oriente che a Occidente. A Bisanzio, dove da tempo si osteggiava il primato rivendicato dalla sede romana su tutti gli altri vescovi, il patriarca Michele Cerulario (ca. 1000-1058), che già nel 1054 aveva rotto definitivamente ogni rapporto con la Chiesa latina, portò alle estreme conseguenze la scissione morale e materiale tra Oriente e Occidente. Era impensabile infatti che l’impero si lasciasse spogliare dell’elemento più forte del proprio potere (i vescovi-conti) senza dare segni di reazione. Enrico IV al momento non era in grado di reagire, sia per la minore età, sia perché impegnato a domare una ribellione in Sassonia, ma quando Gregorio VII, al secolo Ildebrando di Soana, con il Dictatus papae (1075) proclamò la superiorità del papa su ogni altra autorità terrena (e il diritto del pontefice di deporre gli imperatori), l’urto tra Chiesa e impero fu inevitabile.
Il quadro della cristianità, alla vigilia del secondo millennio, non si esauriva nella decadenza dei costumi del clero e nel malessere spirituale e dottrinario che agitava il popolo di Dio. All'interno della società cristiana, lievitavano anche forze positive, tendenti ad una ricomposizione delle divisioni, alla moralizzazione dei comportamenti dei religiosi e alla riforma della stessa istituzione ecclesiastica. Dalle comunità di chierici riunite intorno ai vescovi, dagli eremi e dai monasteri, primo fra tutti quello borgognone di Cluny, andava già da tempo irradiandosi un ideale di ritorno alla purezza e alla semplicità della Chiesa primitiva che, nella seconda metà dell'XI secolo, ispirò anche la condotta dei pontefici. Lo slancio innovatore che allora si produsse è passato alla storia come "riforma gregoriana", in omaggio all'azione svolta da papa Gregorio VII prima e durante il suo pontificato (1073-1085). Fino a poco tempo fa, gli storici consideravano quella gregoriana come una semplice riforma dei costumi del clero; oggi si è concordi nel sostenere che essa riguardò l’intera struttura ecclesiastica, a partire dai rapporti tra il papa e l’imperatore. Il nesso fra le diverse questioni da risolvere, del resto, era lucidamente presente nella riflessione degli intellettuali dell'epoca. Così ci si rendeva ben conto che la stessa simonia affondava le sue radici nella consuetudine di permettere ai laici l'investitura dei sacerdoti. Nel caso dei vescovi, per esempio, le antiche prescrizioni stabilivano che l'elezione del vescovo spettasse prima al clero e poi al "popolo", con la successiva approvazione del "principe"; al contrario, la prassi vigente disponeva la scelta nelle mani di conti, duchi, marchesi, re, o in quelle dell'imperatore, e alla volontà dell'autorità secolare dovevano adeguarsi gli ecclesiastici e il resto della cittadinanza. Era la stessa autonomia della Chiesa a essere gravemente minata e, per recuperarla, Gregorio VII e i papi succedutisi nei decenni a cavallo fra XI e XII secolo non esitarono a impegnarsi in un duello senza esclusioni di colpi con l'autorità imperiale.
In due concili, convocati nel 1074 e nel 1075, papa Gregorio VII dichiarò decaduti tutti i sacerdoti che si erano macchiati di simonia o di concubinaggio e minacciò di scomunica chiunque accettasse la carica vescovile dalle mani di un laico. Dinanzi alla provocatoria risposta dell'imperatore Enrico IV (1050-1106), che conferì la nomina all'arcivescovo di Colonia, il pontefice rispose con il Dictatus papae (1075), un elenco di proposizioni con il quale egli affermava con forza l'infallibilità della Chiesa romana e la superiorità del potere spirituale su quello temporale, compreso il diritto del papa di deporre i sovrani che si fossero resi colpevoli di atti ostili nei confronti della Chiesa e della dottrina cristiana. L'inevitabile scontro che seguì, conosciuto come "lotta per le investiture", fu scandito da gesti spettacolari puntualmente registrati dai cronisti, il più celebre dei quali fu compiuto da Enrico IV, recatosi a implorare il perdono di Gregorio VII al castello di Canossa (1077). L'anno prima, il giovane imperatore aveva convocato un sinodo a Worms dove i vescovi germanici dichiararono decaduto Gregorio VII. La lotta era entrata nella fase più acuta e drammatica. Alla deposizione dichiarata da Enrico IV a Worms, Gregorio VII rispose immediatamente con la scomunica che minacciò di sfasciare l’impero. Se infatti Gregorio VII, forte del suo immenso prestigio spirituale, non risentì della fittizia deposizione di Worms, l’imperatore si trovò in una situazione gravissima perché la scomunica scioglieva tutti i vassalli dal giuramento di fedeltà e tutti i sudditi dall’obbligo di obbedienza: i signori laici avrebbero colto al volo il pretesto per sciogliersi dal vincolo di sudditanza. Per scongiurare questo rischio - e la minaccia della nomina di un altro imperatore - Enrico IV doveva ad ogni costo riconciliarsi col papa. Quasi in incognito si recò allora a Canossa, dove il papa si era ritirato sotto la protezione della contessa Matilde di Toscana, e per tre giorni, nel rigidissimo gennaio 1077, implorò l’assoluzione in veste di penitente. Tuttavia, una volta ottenuta la revoca dalla scomunica, Enrico IV domò la rivolta dei suoi feudatari e riprese la lotta per la supremazia, che gli costò una nuova scomunica nel 1080. Questa volta Enrico IV lasciò da parte il saio e prese le armi, assediando il papa in Castel Sant’Angelo, da dove il pontefice fu liberato grazie all’intervento dei Normanni di Roberto il Guiscardo. Gregorio VII si spense nel 1085, ma la contesa tra papato e impero continuò anche con il suo successore, il francese Urbano II (1088-99), che riprese il programma di riforma ecclesiastica, sostenuto anche dall'ardente rinascita religiosa che proprio in quegli anni trovò una delle sue manifestazioni più travolgenti nella grandiosa impresa delle crociate. Si trattò anche di un conflitto lungo, che andò ben oltre l'esistenza terrena dei protagonisti iniziali. Spettò, infatti, al pontefice Callisto II (1119-1124) e al figlio del penitente di Canossa, Enrico V (1106-1125), firmare quasi cinquant'anni dopo (1122), a Worms, il compromesso con il quale si distingueva fra l'investitura spirituale dei vescovi, esclusivamente spettante al papa, e quella temporale, che l'imperatore poteva concedere insieme con le funzioni pubbliche che vi erano connesse. Quello che era stato inizialmente un movimento per la riforma della Chiesa e si era poi trasformato in lotta fra papato e impero ebbe il risultato di produrre una nuova e più netta distinzione fra potere spirituale e potere temporale; al tempo stesso ribadì la centralità della Chiesa romana e il primato del papa, vescovo di Roma, su tutti gli altri vescovi della cristianità.
Con l’elezione di Innocenzo III (1198-1216) giunse al soglio pontificio il massimo rappresentante del pensiero teocratico, ossia di quella concezione che rivendicava al papa il potere assoluto su tutti i governi della terra. Egli si considerava, infatti, non più come il vicario di san Pietro, ma del Cristo stesso sulla terra. Sosteneva, inoltre, che il papa e l’imperatore, chiamati da Dio ad esercitare rispettivamente il potere spirituale e il potere temporale, erano paragonabili al sole e alla luna creati da Dio per illuminare il giorno e la notte. Come però la luna riceve la luce dal sole, così l’imperatore derivava il proprio potere dall’autorità del papa, al quale perciò doveva sottomissione e obbedienza. Il programma di Innocenzo III non rimase sulla carta. Innanzitutto egli recuperò terre e diritti relativi al patrimonio di San Pietro, il futuro Stato Pontificio, sul quale regnò come un qualsiasi monarca temporale. Quindi riuscì a diventare un punto di riferimento per l'impero, del quale giunse ad influenzare la politica in materia di successione, e delle altre monarchie europee. Infine, utilizzò i rapporti vassallatici come strumento per diffondere l'influenza papale sui vari regni europei. A questo proposito, riuscendo a dare applicazione al principio che i re dovessero essere feudatari del pontefice, ottenne l'omaggio dei sovrani di Castiglia, Aragona, Portogallo, Sicilia, Polonia e Inghilterra. Agli inizi del XIII secolo, il papato assunse effettivamente quel ruolo teorizzato un secolo prima da Gregorio VII con il Dictatus papae: il papa era davvero l'autorità più importante della terra.
La seconda metà del XIII secolo vide la crescente influenza sul papato della monarchia francese, che aveva sperimentato una fase di forte consolidamento, e degli Angioini, chiamati nel Mezzogiorno come vassalli della Chiesa, ma che avevano cominciato a comportarsi da padroni anche a Roma. Una decisa inversione di tendenza si registrò con l'elezione a papa di Bonifacio VIII (1294-1303), che aveva un altissimo senso del primato spirituale e temporale del papato. Membro della potente famiglia romana dei Caetani, Bonifacio VIII pose al centro delle sue preoccupazioni la riaffermazione del potere papale, sia all'interno dello Stato Pontificio, sia nel governo della Chiesa, sia nei rapporti con gli altri stati; senza accorgersi di quanto l'idea che il papa fosse il capo anche politico, oltre che religioso, della cristianità fosse ormai anacronistica. Confidando eccessivamente nelle sue forze, Bonifacio VIII vietò, con un’apposita bolla papale, la tassazione del clero senza la preventiva autorizzazione pontificia. Con questo provvedimento egli intendeva colpire i re di Francia e d’Inghilterra, i quali, per sostenere le loro guerre, avevano imposto tributi ai sacerdoti dei rispettivi paesi. Per reazione, Filippo IV il Bello vietò l’esportazione di metalli pregiati e denaro dalla Francia, così da impedire ai titolari delle chiese transalpine di inviare a Roma le tasse che dovevano pagare alla cancelleria pontificia. Nel 1301, poi, i contrasti tra papato e impero si acuirono, perché il papa convocò un concilio per condannare il comportamento del re francese. Nobiltà, clero e borghesia, riuniti per la prima volta nella storia di Francia nei cosiddetti "stati generali", espressero il loro consenso e sostegno al re nel conflitto con la Santa Sede. Bonifacio, a sua volta, emanò una bolla, la Unam Sanctam, nella quale ribadiva le idee teocratiche e universali che erano state di Gregorio VII e di Innocenzo III e aggiungeva che il potere spirituale e temporale del papato era superiore a quello di tutti i sovrani. A questo punto, Filippo IV il Bello pensò di far destituire da un concilio straordinario il pontefice e diede l’incarico a una schiera di armati, capeggiati da Guglielmo di Nogaret, di scendere in Italia e catturarlo. Con l’aiuto dei Colonna, tradizionalmente nemici dei Caetani, il Nogaret penetrò nel 1303 ad Anagni, dove il papa si era rifugiato, e lo arrestò, minacciandolo di morte se non avesse abbandonato il proposito di scomunicare il re francese e rinunciato al soglio pontificio. Liberato dopo tre giorni da una rivolta popolare e tornato a Roma, Bonifacio VIII morì portando con sé nella tomba il grande sogno teocratico di un papato universale.
L'"oltraggio di Anagni" non segnò il culmine dell'umiliazione del papato ad opera della monarchia francese. Morto Bonifacio VIII nel 1303, infatti, l'ingerenza dei sovrani d'Oltralpe nella vita della curia pontificia e della Chiesa si accrebbe. Così Clemente V (1305-1314), benché francese di nascita, si vide ridotto a passivo esecutore delle direttive di Filippo IV il Bello. Tale sudditanza venne sanzionata, nel 1309, dal trasferimento della Santa Sede da Roma ad Avignone, dove le pressioni dei sovrani francesi erano anche più facili. La lunga permanenza della curia papale in Francia - settant'anni, dal 1309 al 1377 - è passata alla storia, in ricordo del periodo di uguale durata in cui gli ebrei furono trattenuti in schiavitù a Babilonia, col nome di "cattività avignonese". L'espressione è forse eccessiva. Lontani da Roma, considerata ormai in tutto l’Occidente cristiano un luogo di intrighi politici, corruzione e nepotismo, i pontefici che si susseguirono ad Avignone vissero una stagione di notevole floridezza economica e la città divenne in quegli anni un centro commerciale e finanziario di primo piano. Di contro, però, il papato pagò tale splendore con una sostanziale perdita della sua influenza sull’Italia. I territori della Chiesa, in particolare la Romagna e le Marche, caddero nelle mani dei signori locali, come i Malatesta a Rimini, gli Ordelaffi a Forlì, i Manfredi a Faenza e i Montefeltro a Urbino. L’intenzione di ristabilire l’autorità della Chiesa su queste terre e di riportarvi la pace facilitò allora il ritorno a Roma della sede pontificia. L’iniziativa è da ascrivere a papa Gregorio XI (1370-1378) il quale, influenzato sia da Brigida di Spagna che da Caterina da Siena, decise nel 1377 di lasciare Avignone e di tornare in quella che Caterina considerava la "sede naturale" dei papi: Roma.