La dimensione tecnica delle arti plastico-figurative
Anticamente tutte le arti plastico-figurative, cioè architettura, scultura e pittura, rientravano nell'ambito della tecnica, termine indicante ogni attività umana che, connessa all'uso delle mani e alla trasformazione di materiali, è fondata sulla conoscenza di regole e sulla capacità, acquisibile con l'esercizio, di metterle in pratica.
Le arti plastico-figurative non si distinguevano, perciò, in nulla da ciò che oggi chiamiamo mestieri e, risolvendosi nella pura esecuzione materiale di ben precise regole, non avevano nulla di creativo, tant'è che i Greci alla nostra idea di creazione opponevano quella di mimesis, imitazione, che sul piano tecnico si configura come azione secondo un canone.
Il Canone di Policleto e il De architectura di Vitruvio
Il canone più famoso dell'epoca classica è quello redatto dallo scultore Policleto (v secolo a. C), che associava la corretta rappresentazione artistica della figura umana al concetto di proporzione, intendendo con ciò quella congruenza tra le parti e il tutto che rende possibile al molteplice sensibile di raccogliersi in unità e di assurgere, così, allo splendore di una forma armonica e, quindi, bella. È comunque nel trattato De architectura dell'architetto romano Vitruvio - pubblicato intorno al 25 a. C - che possiamo trovare le notizie più esaustive su ciò che gli antichi intendevano per proporzione in quanto del Canone di Policleto sono rimasti solo pochi frammenti.
Intesa come una serie di rapporti ordinati secondo la legge dell'equivalenza (a : b = c : d), la proporzione è alla base dell'idea classica del bello come armonia. Tale idea consiste, quindi, nella rigorosa osservanza di proporzioni fisse e matematicamente esplicitabili, pensate come la traduzione numerica dell'ordine che i Greci credono di scoprire nella natura. Il bello, dunque, è una prerogativa della natura, considerata il modello di bellezza più perfetto di cui l'uomo disponga e al quale deve ispirarsi nell'arte. Sotto questo punto di vista la mimesis, intesa come adesione al canone, assume il significato di imitazione della natura.
L'arte come inganno e produzione di apparenze
L'arte greco-classica ammette, comunque, la possibilità di correggere le proporzioni fissate dal canone, in modo da adattarle alle esigenze visive e al punto di vista dello spettatore. Una rigida applicazione delle proporzioni stabilite potrebbe, infatti, comportare delle deformazioni ottiche, rendendo la rappresentazione di un oggetto distante dalla naturale percezione ottica e, quindi, irriconoscibile allo sguardo sensibile. In questa esigenza naturalistica si insinua il potere illusionistico dell'arte, capace di trasformarsi in una mi mesi così aderente all'aspetto sensibile della realtà, da far credere allo spettatore che l'artista abbia prodotto non una semplice immagine della cosa imitata, ma questa cosa stessa, inducendolo all'inganno.
Il bello ideale
Su questa duplice valenza del concetto di imitazione si sofferma, fin dalle origini, la riflessione filosofica, assumendo due posizioni contrapposte.
I sofisti, attivi in Grecia nel v secolo a. C, valorizzano le arti plastico-figurative proprio in quanto tecniche dell'effetto e della simulazione: il loro scopo non è rispecchiare la realtà, ma produrre apparenze e illusioni che, finalizzate unicamente a produrre piacere, emancipano il fare artistico da qualsiasi vincolo imitativo per diventare puro artificio.
Contro tale concezione muove l'intera riflessione greca che, a partire da Socrate (470-399 a. C), ripristina il valore imitativo della pittura e della scultura. Esse non devono riprodurre l'aspetto superficiale delle cose per sedurre lo spettatore attraverso un gioco compiaciuto di apparenze, ma rappresentare la loro essenza, in modo da offrire un'immagine che, per la sua perfezione, non ha un equivalente in natura e presuppone un modello ideale di essa.
Nell'ambito dell'antichità due sono stati i modi di intendere tale ideale. Secondo una prima visione esso è il frutto di una electio, cioè di una selezione, operata su individui concreti, delle loro parti più belle, per poi comporre in un'unica immagine. Una visione diversa intende il bello ideale come un mo- . dello presente Q priori nella mente dell'artista, il quale, senza ricorrere all'esperienza, attinge le sue immagini direttamente dalle forme ideali da cui la natura deriva. Appoggiandosi alla dottrina delle idee elaborata da Platone (428-347 a. C), questa tesi trova la sua formulazione più compiuta nella riflessione filosofica di Plotino (204-270 d. C), secondo il quale l'artista non imita le cose visibili, ma le loro forme ideali che, nella loro perfezione, trascendono l'esistenza corporea e, accessibili unicamente all'occhio della mente, hanno il loro principio nell'Uno divino, da cui derivano tutte le cose.
Naturalismo e antinaturalismo
I due diversi modi di concepire il bello ideale comportano modalità artistiche differenti. La teoria dell'electio conduce, infatti, a una forma che, originata dall'imitazione delle cose visibili, non si oppone alla materia, ma trova in essa la via alla sua compiuta realizzazione, dando così vita a un'arte che, pur volendo rappresentare l'idea eterna delle cose al di là di ogni loro contingenza particolare, non disgiunge tale idealità dalla plasticità organica delle forme naturali. Completamente diversa è l'arte che nasce dall'altra concezione. In quanto realizzazione di una forma ricavata dalla contemplazione diretta delle idee soprasensibili, l'arte si svincola da ogni istanza naturalistica e sarà tanto più perfetta quanto più si allontanerà dal modo in cui le cose appaiono ai sensi. Il pittore deve quindi eliminare dalla propria rappresentazione ogni impressione accidentale. Un oggetto, ad esempio, se guardato da una certa distanza, sembra più piccolo di quello che è e dotato di un colore meno intenso; se guardato da un certo punto di vista, risulta oscurato dall'ombra. L’artista deve, invece, rappresentare gli oggetti come se si trovassero tutti in primo piano, nella stessa pienezza di luce, con i loro colori esatti, senza alcun gioco di ombre, così che risultino privi di profondità, senza massa e peso. Queste modalità rappresentative vengono sviluppate dall'arte bizantina e da quella medievale, ponendo la riflessione di Plotino come il punto di congiungimento e di fusione tra l'idea greca di bellezza edi arte e il mondo cristiano.
Le arti plastico-figurative nel pensiero medievale
Il pensiero medievale, infatti, riprende la concezione classica di arti plastico-figurative come imitazione della natura, ritenuta tuttavia bella non per virtù propria come pensavano gli antichi -, ma perché creata da Dio e, quindi, recante in sé le tracce del suo creatore. Ne deriva una concezione allegorica del bello come figura di Dio, cioè come segno di una verità spirituale che trascende la sua apparenza sensibile. Il valore dell'arte consiste, pertanto, nella sua funzione di guida morale e religiosa, che si realizza attraverso l'imitazione dell’'ordine divino del creato: la percezione estetica dei suoi prodotti deve fare tutt'uno con la disciplina religiosa cui è subordinata, e che deve a sua volta ispirare nella vita di ogni uomo.
L’artista, in quanto imitatore, mantiene nel Medioevo il ruolo di semplice artigiano, spogliato di qualsiasi diritto all'originalità. Ogni tentativo di attribuire un ruolo liberamente inventivo al fare artistico è, infatti, considerato come l'indebita assunzione di una prerogativa che appartiene esclusivamente a Dio, in quanto creatore, e non all'uomo, in quanto creatura.
L'artista come uomo di scienza
L'età moderna, che si apre alla fine del Quattrocento, rappresenta un momento decisivo per la costituzione dell'immagine dell'artista come figura distinta da quella dell'artigiano. Una premessa determinante è l'invenzione della prospettiva per opera dell'architetto Filippo Brunelleschi (1377-1446), il primo a elaborare precise regole geometrico-matematiche per riprodurre correttamente la tridimensionalità degli oggetti sulla superficie bidimensionale del quadro. Il risultato è una rappresentazione capace di restituire la realtà esattamente come se noi la osservassimo da una finestra. La teoria della prospettiva rende possibile due cose: la rinascita, in opposizione alla tradizione medievale, del naturalismo, e una concezione dell'artista come uomo di scienza che, esperto di matematica e geometria, nonché studioso di ottica e di anatomia, è in grado di scoprire attraverso la sua ragione l'ordine razionale della realtà osservata e di dame quindi una corretta rappresentazione.
La ripresa della teoria dell'electio
Emblematica a questo proposito la riflessione dell'architetto e umanista Leon Battista Alberti (1404-72) che, nel momento in cui codifica per la prima volta le regole della prospettiva elaborate da Brunelleschi, riprende la teoria dell'electio ed eleva la figura dell'artista dal ruolo di semplice artigiano a quello di intellettuale. Se il fine dell'arte è il bello, il mezzo di cui essa si serve per raggiungerlo è l'imitazione della natura che, concepita tradizionalmente come il modello di bellezza più perfetto di cui l'uomo disponga, offre i parametri in base ai quali rappresentare la realtà. La bellezza artistica è quell'armonia di masse e colori che, trovando nella proporzione matematica il suo principio, rende l'opera fedele alla realtà non solo nel suo aspetto sensibile, ma anche nel suo ordine razionale, accessibile alla ragione dell'artista attraverso l'osservazione visiva. Tuttavia, per quanto imitazione della natura, l'opera viene al tempo stesso concepita dall'AIberti come creazione dell'artista, il quale, pur seguendo i parametri offerti dalla natura, compie nel disegno una libera scelta di quanto vi è di più bello. Il risultato è un'immagine che, seppur aderente al vero, è più bella della natura e, per l'elemento propriamente ideativo che il disegno comporta, è espressione dell'individualità dell'artista.
L'artista come alter deus
Il riconoscimento dell'intrinseca creatività delle arti plastico-figurative trova ulteriori impulsi grazie alla rinascita del neoplatonismo, promossa da Marsilio Ficino (1433-99) con la fondazione a Firenze di un'accademia platonica. Ficino riprende il concetto di arte come imitazione delle forme ideali in base alle quali Dio ha plasmato la materia sensibile. L'artista attinge le idee direttamente dal proprio spirito in virtù di una vera e propria illuminazione divina. L'arte plastico-figurativa è un dono di Dio e l'artista è considerato un genio, un vero e proprio alter deus capace, al pari di Dio, di dominare la materia e di concentrare nella propria opera l'intelligenza divina che ha prodotto tutte le cose.
L'artista come ispirato divino
Le teorie di Ficino trovano piena espressione nella prima metà del Cinquecento, soprattutto grazie all'opera di Michelangelo (1475-1564), secondo il quale la bellezza terrena non è altro che il «mortai velo» attraverso cui traspare la forma divina. Spetta all'artista realizzare quella forma che, racchiusa nella materia, egli riconosce perché già presente in atto nel suo intelletto per grazia di Dio. All'interno di questa concezione, Michelangelo elabora la sua idea di scultura come tutto ciò che procede in «forza di levare», cioè di togliere. La forma imprigionata nel marmo è come l'anima imprigionata nella scorza della materia: l'attività dello scultore fa tutt'uno con la titanica lotta dell'uomo per la propria liberazione dal peso della materia, che tuttavia l'artista non deve sublimare in una forma astratta, come avveniva nell'arte medievale, bensì dominare-plasticamente come un dio.
Con Michelangelo si delinea la figura dell'artista moderno che, pervenuto attraverso la concezione albertiana del disegno alla consapevolezza della propria spontaneità, legittima il proprio strapotere creativo attraverso l'origine divina della propria ispirazione.
Il rifiuto manierista delle regole codificate
L’idea dell'artista divinamente ispirato determina la crisi del culto primo-rinascimentale della proporzione. Con l'arte manierista - che trova espressione tra il1530 e il 1610 - l'artista si svincola dalle leggi della corretta rappresentazione in favore di una licenza creativa. Nasce, così, l'idea dell'artista come creatore delle regole, che determina un generale clima di sperimentazione. Compaiono dipinti dalle scene affollate che rompono l'unità prospettica per far posto a più centri visivi; i corpi si allungano e si contorcono come se non avessero ossa e articolazioni. È l'avvento della cosiddetta «figura serpentinata» che, paragonata a una lingua di fiamma, conferisce alla composizione una tensione drammatica sconosciuta all'equilibrio quattrocentesco. Separato dalla natura e sospinto verso Dio, l'artista è abilitato a creare un nuovo cosmo intelligibile e a gareggiare con la natura.
Un nuovo universo
Un ulteriore contributo all'idea dell'artista come autonomo soggetto creatore è offerto dalla rivoluzione cosmologica realizzata dalle scoperte astronomiche di Niccolò Copernico (1473-1543), Keplero (1571-1630) e Galileo Galilei (1564-1642): non è il Sole a girare intorno alla Terra, ma è quest'ultima a girare intorno al Sole, in un universo che non è finito, ma infinito
In connessione all'avvento del nuovo universo infinito si assiste a una svalutazione della sensibilità come fonte di conoscenza delle cose: quale potere conoscitivo possono avere i sensi, se la percezione visiva ha indotto a credere che il Sole si muovesse?
Secondo il filosofo francese Cartesio (1596-1650) quel mondo variopinto di colori, sapori, suoni e odori che è offerto dai nostri sensi è una realtà assolutamente soggettiva, che non corrisponde affatto alla natura delle cose.
La natura delle cose è indagabile unicamente dall'intelletto, al quale la realtà esterna si presenta come un mondo di pura estensione in movimento, privo di qualsiasi qualità percettiva e regolato da leggi che si concentrano unicamente sugli elementi quantitativi.
Una pari svalutazione viene condotta nei confronti dell'immaginazione dal cartesiano Nicolas Malebranche (1638-1715) nell'opera intitolata Ricerca della verità (1674).
Come l'uomo, attraverso la sensibilità, trasferisce sui corpi ciò che è una sua esperienza soggettiva, allo stesso modo, con l'immaginazione, è incline a proiettare sull'universo la propria vita affettiva.
Ne deriva la creazione di una natura antropomorficamente concepita come qualcosa di vivente, dotato di intelligenza, sentimenti e intenzioni, che assume paganamente contorni divini.
Ciò che quindi distingue l'universo inaugurato dalla scienza moderna da quello precedente è il fatto che quest'ultimo era un universo poetico, cioè inventato dalla nostra sensibilità e immaginazione.
Arte barocca e immaginazione
Sullo sfondo della nuova cosmologia nasce l'arte barocca. Riprendendo l'idea manierista dell'artista come colui che genera una nuova natura in base a un'idea liberamente plasmata dal suo spirito, l'artista barocco trova nel mondo scialbo e meccanico della scienza moderna le condizioni per esaltare il carattere inventivo dell'immaginazione - riconosciuta come facoltà specifica dell'arte - e per rompere con qualsiasi regola che possa disciplinare la sua produzione. In quel nuovo spazio infinito ormai sprovvisto di un punto di vista privilegiato da cui guardarlo, egli scopre la possibilità non solo di dar forma a nuovi mondi possibili mai visti e conosciuti, ma anche di organizzare liberamente quanto vede secondo prospettive plurime, stupefacenti e imprevedibili. Si tratta dell'artificio pittorico dell'anamorfosi: ciò che da un determinato punto di vista appare come un volto, da un altro può rivelarsi come qualcosa di assolutamente diverso, un paesaggio, ad esempio. La realtà viene in tal modo riorganizzata secondo un processo metamorfico infinito che annulla la distanza tra realtà e finzione, generando meraviglia. L’arte barocca si rende così fautrice di un'idea di bellezza che, svincolata da ogni funzione conoscitiva e da ogni vincolo di verosimiglianza, viene sempre più sentita come espressione della libertà creativa dell'artista.
La bella natura
Di fronte alle bizzarrie e agli artifici dell'arte barocca, c'è chi auspica il ritorno all'armonia e alla misura incarnate dalla tradizione classica dell'antichità e del primo Rinascimento. L’arte deve assumere come guida della propria produzione i valori di esattezza, chiarezza e distinzione che caratterizzano la ragione cartesiana. Si tratta del cosiddetto Classicismo secentesco che, inaugurato dal pittore italiano Annibale Carracci (1560-1609) ed emblematicamente rappresentato dai francesi Nicolas Poussin (1594-1665) e Claude Lorrain (160082), trova la sua più significativa espressione teorica nel trattato L'idea del pittore, dello scultore e dell'architetto (1664) dell'antiquario Giovanni Pietro Bellori (1613-96). Contro la fantasticheria capricciosa del Barocco, Bellori ripropone la teoria albertiana dell'imitazione come electio. L’idea del bello si genera nello spirito dell’'artista mediante lo studio della realtà, all'interno di una sintesi in cui l'imitazione della natura si unisce alla sua purificazione razionale. L’artista ha quindi bisogno della natura, ma trova nella ragione un principio che, permettendogli di depurare la realtà da ogni elemento accessorio o deviato, gli dà modo di creare un mondo che, per il suo ordine e la sua proporzione, è più bello di quello reale.
Rappresentazione ed espressione
Tanto il Barocco quanto il Classicismo vivono al loro interno una dicotomia tra adesione alle regole e creatività. Il Classicismo, infatti, nel suo voler contenere a tutti i costi i capricci dell'immaginazione e ricondurre la produzione artistica all'imperio delle regole, si scopre, nella sua capacità di produrre forme perfette, creatore di una bellezza irraggiungibile dalla natura. Il Barocco, invece, nel momento in cui vuole sottrarsi a ogni regola che possa disciplinare la sua libera capacità di istituire le più disparate analogie, si trova quanto mai dipendente dalla tecnica per realizzare i suoi virtuosismi. Da ambedue le parti si fa sempre più impellente il problema della compatibilità tra la dimensione tecnica della pratica artistica - che presuppone sempre delle regole - e l'apporto inventivo del soggetto.
La tematica è affrontata nel Settecento, soprattutto nell’'ambito del pensiero illuminista. Significativo è il contributo del filosofo francese Denis Diderot (1713-84). Nelle recensioni che scrive tra il 1759 e il 1781 in occasione delle esposizioni degli artisti emergenti ai Salon des artistes français, è evidente la sua tendenza a cogliere la pittura sotto un duplice punto di vista. In essa, infatti, non è possibile scindere l'organizzazione degli elementi tecnico-formali necessari per rappresentare la natura dalla complessità di sensazioni, emozioni e pensieri che il singolo artista esprime in questa rappresentazione. Il bello artistico nasce dal duplice concorso dinamico di rappresentazione ed espressione, all'interno del quale l'applicazione dei rapporti di proporzione, simmetria e ordine che sono presenti in natura fa tutt'uno con la specifica sensibilità di ogni singolo artista che li afferra e li esprime. Pur richiedendo la conoscenza di regole, l'arte bella è quindi irriducibile all'applicazione di un canone di bellezza stabilito da principi di carattere astratto e fisso.
Il principio dell'originalità
La riflessione sulla compatibilità nella pratica artistica tra tecnica e apporto inventivo si orienta, alla fìne del Settecento, verso una decisa affermazione del principio dell'originalità come ciò che caratterizza l'arte bella. Nella Critica del Giudizio (1790), il filosofo tedesco Immanuel Kant (1724-1804) afferma che se l'arte presuppone sempre la conoscenza di regole e procedimenti, tuttavia tale conoscenza, benché necessaria, non è sufficiente a produrre un oggetto bello. Ciò che qualifica la bellezza di un oggetto artistico è il fatto di essere il prodotto del genio che, essendo tale non per apprendistato ma per dono naturale, non è capace di esporre le regole della propria arte. L:opera bella è, quindi, qualcosa di assolutamente originale e di irriproducibile: nella sua eccedenza rispetto alle regole essa reca il segno della soggettività irriducibile dell'artista e della sua libera spontaneità produttiva. Una spontaneità che, tuttavia, trova nella natura la sua sanzione. Emblematica, a questo proposito, la riflessione del poeta tedesco Johann Wolfgang Goethe (1749-1832), soprattutto negli anni legati all'esperienza dello Sturm und Drang, movimento ideologico preromantico che, sviluppatosi in Germania tra il 1770 e il 1785 circa, raccoglie intorno a sé numerose personalità della letteratura e della filosofia, tra cui il filosofo Johann Gottfried Herder (1744-1803), il poeta e filosofo Friedrich Schiller (1759-1805) e il drammaturgo Friedrich Maximilian Klinger (1752-1831). L:apporto di Goethe è particolarmente significativo in quanto egli viene a stabilire un rapporto tra arte e natura che segnerà in modo indelebile la futura età romantica. Se l'arte bella è il prodotto del genio e la genialità è un dono di natura, allora l'arte imita necessariamente la natura, nel senso di riflettere la sua infinita creatività e traboccante vitalità. Secondo Goethe, infatti, la natura, è costitutivamente metamorfica, caratterizzata da un'esuberanza incontenibile di forme, una continua germinazione di vita che tutto distrugge per sempre rinnovarsi. Allo stesso modo l'arte, in quanto prodotto del genio, è spontaneità creatrice, che ha come propria regola la negazione di qualsiasi forma capace di contenerla e di limitare l'irrefrenabile tripudio della potenza creativa dell'artista.
La pittura nel Romanticismo
Il concetto di originalità assurge a elemento preponderante nell'arte e nella letteratura con l'affermarsi del Romanticismo. Esso prende avvio in Germania, a Jena, e trova come suo organo di diffusione la rivista «Athenaeum» (1798-1800), raccogliendo figure come i fratelli August e Friedrich Schlegel (1767-1845 e 1772-1829), gli scrittori Ludwig Tieck (1773-1853) e Wilhelm Heinrich Wackenroder (1773-98), il fìlosofo-teologo Friedrich Schleiermacher (1768-1834) e il poeta Novalis (1772-1801). Secondo Friedrich Schlegel - la fìgura di maggior spicco del gruppo insieme a Novalis - l'originalità è il segno costitutivo dell'arte romantica, che riconosce come sua unica legge l'arbitrio del poeta. Viene così ripreso il topos rinascimentale dell'artista come alter deus che, nella sua libera capacità produttiva, continua la libera e infinita creatività divina che pervade la natura nel suo continuo metamorfismo e rivela il segno dell'Assoluto in lui manifesto. Ridiventato simile a Dio, l'artista romantico, nella sua insofferenza ai limiti, si chiede quale arte sia capace di cogliere la dimensione assoluta del proprio spirito: nonostante il privilegio accordato alla poesia e, più ancora, alla musica, particolare importanza viene data alla pittura, definita nei Principi generali sull'arte pittorica (1803) di Schlegel come la più romantica delle arti visive. Essa infatti, per la sua bidimensionalità, è meno legata alla materia rispetto alla scultura ed è, quindi, maggiormente in grado di cogliere la natura nella sua infinita poeticità e di esprimere, in parallelo, la tensione, altrettanto infinita dello spirito dell'artista.
Le categorie del Romanticismo
Questi due aspetti, piuttosto che trovare espressione nell'armonica compiutezza formale del bello, sembrano realizzarsi meglio negli spazi immensi e turbinosi del sublime, categoria estetica che, già teorizzata nel Settecento (cfr. Approfondimento, pp. 32-33), diventa centrale nella pittura di paesaggio romantica. Ne sono rappresentanti emblematici il pittore tedesco Caspar David Friedrich (1774-1840) e l'inglese William Turner (1775-1851) .
Del primo ricordiamo Il viaggiatore sopra il mare di nebbia (1818), in cui un uomo raffigurato di spalle ammira, sulla cima di una roccia di origine vulcanica, la nebbia che si distende di fronte a lui come un mare infinito, da cui emergono, come isole lontane, le vette delle montagne. Una rappresentazione che evoca lo stato d'animo di meraviglia quasi sgomenta di fronte all'immensità dell'universo.
Del secondo è significativa, invece, l'opera intitolata Tempesta di neve (1842), dove la furia degli elementi, imprimendo grande velocità all'atmosfera, caratterizza la natura come una grande esplosione di energia in cui le forme e gli spazi si dissolvono; la tempesta di-venta, così, il banco di prova per uno sperimentalismo formale in cui il paesaggio, risolto in un vortice rapinoso di colori e luci, quasi perde ogni connotato naturale per acquisire toni sempre più visionari e indeterminati.
L'altra categoria estetica che si impone con il Romanticismo è il caratteristico. Contrariamente al bello, che vuole sublimare le specificità dei singoli individui in un'ideale di perfezione che non ha riscontro in natura, esso resta aderente alle loro particolarità, compresi difetti e imperfezioni. Tale attenzione al particolare non deve essere vista in contraddizione con la tendenza all'infinito e all'indeterminato propria del sublime. Il caratteristico, infatti, al pari del sublime, esprime la dimensione dell'assoluto propria della natura, ma ne mette in luce un aspetto diverso: la capacità metamorfìca di espandersi in forme individuali sempre diverse l'una dall'altra.
Espressione della continua pulsazione e varietà della natura, il caratteristico, proprio in quanto include in sé anche le imperfezioni degli individui, trapassa facilmente nel brutto. Tuttavia, è proprio nel brutto che l'artista romantico trova uno dei principali baluardi della propria libertà creativa. Se, infatti, il bello non ha che un tipo, il brutto ne ha mille, legittimando così l'artista a ricercare gli accostamenti più inattesi ed esagerati.
Dal Romanticismo alle avanguardie
Il concetto di originalità, diventando la cifra dell'emancipazione del fatto artistico da ogni forma rappresentativa della realtà, trova la sua apoteosi nel fenomeno novecentesco delle avanguardie. Precisiamo, innanzitutto, il significato del termine «avanguardia».
Mutuato dalla terminologia militare, in cui indicava il reparto dell'esercito che avanzava per primo venendo in contatto con il nemico, esso comincia a essere utilizzato nel corso dell'Ottocento in riferimento sia ai movimenti politico-sociali di carattere rivoluzionario, sia agli artisti che, impegnati nella sperimentazione di nuove tecniche espressive, si distaccano dalla pratica artistica dominante. Col tempo, tuttavia, la parola ha finito per identificarsi esclusivamente con l'arte del primo ventennio del Novecento, in quanto l'eversione che ha operato rispetto ai canoni tradizionali è stata così estrema da mutare il concetto stesso di arte. Emblematico il caso della pittura, che nell'arco di pochi anni ha visto entrare pericolosamente in crisi la propria funzione di arte figurativa, cioè volta a riprodurre fedelmente la realtà, rispettando gli stessi meccanismi della visione ottica umana.
Questo obiettivo era stato raggiunto con il Rinascimento italiano, che aveva fornito gli strumenti razionali e tecnici per la realizzazione di un'immagine naturalistica: il chiaroscuro per i volumi e la prospettiva per lo spazio. Il risultato era il rispetto del principio della verosimiglianza, attraverso la fedeltà plastica e coloristica.
Tutto questo crolla con l'avvento delle avanguardie, che trovano nelle categorie romantiche del brutto e del sublime un'istanza non figurativa da portare a sviluppo. Ne deriva la parossistica deformazione delle figure realizzata dall'espressionismo tedesco, la loro successiva scomposizione per opera del cubismo e il definitivo annientamento della realtà con l'affermarsi dell'astrattismo.
Gli sperimentalismi delle avanguardie prendono tutti avvio nei primi anni del Novecento. L'espressionismo si costituisce in Germania con il gruppo Die Brucke («Il ponte») nel 1905, annoverando tra i suoi protagonisti Ernst Ludwig Kirchner (1880-1938) e Emile Nolde (1867-1956). Il cubismo prende avvio nel 1907 con Les demoiselles d'Avignon del pittore spagnolo Pablo Picasso (1881-1973), cui si affianca negli anni seguenti l'opera del francese. Georges Braque (1882-1963). L'astrattismo, invece, viene inaugurato nel 1910 dal pittore russo Vasilij Kandinskij (1866-1944).
L'ambivalenza dell'avanguardia
L'interpretazione più accreditata sul fenomeno delle avanguardie è che sia espressione di una cultura aperta e sperimentale, fondata sul riconoscimento della libertà dell'individuo e, quindi, volta a rivendicare al fare artistico una creatività assoluta, svincolata da ogni forma di normalizzazione.
È indubbio, tuttavia, che proprio l'istanza non figurativa dell'avanguardia rivela la sua volontà di cogliere ciò che sta dietro l'apparenza dei fenomeni, quel quid dell'essere che non è visibile, ma è più vero del vero che crediamo di vedere e, quindi, più oggettivo di ciò che normalmente ci appare sensibilmente.
La dicotomia tra soggettivismo e oggettivismo si accompagna a un'altra dinamica altrettanto paradossale. Da un lato, infatti, l'avanguardia mira alla completa autonomia del fatto estetico, concependolo come un linguaggio indipendente, dotato di leggi proprie, in quanto completamente svincolato da patti rappresentativi con la realtà. Dall'altro, per la sua tendenza a sovvertire le forme consolidate della fruizione estetica, l'avanguardia acquista una valenza politico-sociale che la sua autonomia sembra a prima vista escludere. La sua rivendicazione del nuovo e dello shock come unici valori estetici ascrivibili all'arte si fa, infatti, veicolo di critica degli ordini vigenti costituiti e di denuncia dei meccanismi di omologazione sociale.