Menone apre il dialogo chiedendo a Socrate se la virtù sia insegnabile. Socrate ammette che il problema è molto complesso e che gli farebbe piacere ragionarci intorno insieme a Menone, però, prima di sapere se la virtù sia insegnabile o meno, bisognerebbe definire l'essenza della virtù.
Menone risponde alla domanda di Socrate su cosa sia la virtù affermando che la virtù è relativa, o meglio che la virtù del comandante è quella di saper comandare, che quella del soldato è quella di obbedire, quella del marinaio di saper navigare e così via. Socrate però invita l'amico a riflettere: si cercava una virtù e se ne sono trovate tante. È allora evidente che si deve operare una scrematura, ossia che debba esistere un qualcosa di comune tra queste varie virtù, una forma comune a tutte. Menone arriva allora ad una definizione più generale.
Menone, compreso l'errore precedente, arriva a definire la virtù come la capacità di saper comandare. Socrate è soddisfatto, perché Menone è arrivato ad una generalizzazione più ampia, arrivando ad un'unica forma di virtù. Tuttavia Socrate mostra di essere dubbioso anche su questa definizione: quella che è stata definita, infatti, è solo una forma di virtù, giacché certo un servo non potrebbe mai essere virtuoso se la virtù consistesse proprio nel comandare gli altri uomini. Menone arriva allora a concepire la virtù come la capacità di desiderare le cose belle, intese in senso greco, quindi anche buone e grandi, e nel sapersele procurare. Socrate è convinto ora che la definizione sia pervenuta ad una perfezione ulteriore, anche se ci sono alcuni aspetti da rivedere. L'obiezione di Socrate è più difficile questa volta: egli innanzitutto rettifica il termine "bello" (καλός, kalòs) in "buono/vantaggioso"; successivamente sostiene che tutti desiderano cose buone (chi desidera cose cattive commette un errore di valutazione poiché ritiene che le cose cattive possono essere per lui vantaggiose), dunque la definizione di Menone si riduce alla sola capacità di sapersi procurare le cose buone. Menone si trova d'accordo. Il terzo tentativo di definizione di Menone arriva però ad una tautologia: definisce infatti una virtù come il sapersi procacciare le cose belle secondo giustizia; dato che però la giustizia è una parte della virtù si entra in un circolo vizioso in cui si definisce il tutto con una parte di esso. Menone non sa più proseguire.
(70a) ME.: Sapresti dirmi, Socrate, se la virtù è insegnabile? o se non è insegnabile, ma frutto di esercizio? oppure se non è né insegnabile né frutto di esercizio, ma si forma negli uomini per natura o in qualche altro modo? (71b) So.: Ma anch'io, Menone, come i miei concittadini, mi lamento di non saper nulla della virtù; e se non so che cosa sia, come posso conoscerne le qualità? (d) Ma tu personalmente, Menone, in nome degli dei, che cosa dici che sia la virtù? (e) ME.: Ma non è difficile dirlo, Socrate! In primo luogo, se vuoi la virtù dell'uomo, è facile dire che è questa: esser capace di trattare le cose della città, e trattandole far del bene agli amici e del male ai nemici, e star attenti a non subirne. Se invece vuoi la virtù della donna, non è difficile dimostrare che deve governar bene la casa, curandone i beni e restando fedele al marito. E così altra è la virtù del fanciullo, a seconda che sia maschio o femmina, altra quella dell'anziano, a seconda che sia libero (72a) o schiavo. E così via, per ciascuna azione e ciascuna età, e per ciascuno di noi. SO.: Che fortuna mi è toccata, Menone! Andavo in cerca di una sola virtù e con te ne trovo uno sciame. Ma, per restare a questa immagine, Menone, (b) se io ti chiedessi: al di là delle differenze delle singole api, differiscono quanto all'essere ape? ... ME.: Risponderei questo: che, in quanto api, non differiscono in nulla l'una dall'altra. (c) So.: E così per le virtù: anche se sono molte e di molti tipi, in tutte c'è un'unica forma per cui sono virtù, e a questa bisogna guardare, per rispondere e far comprendere che cosa (d) sia la virtù. Capisci quel che voglio dire? ME.: Mi sembra di sì, ma non quanto vorrei.
(73a) SO.: Non dicevi che la virtù dell'uomo sta nel saper governare la città, e quella della donna la casa? ME.: Sì. So.: Ma governar bene la città, o la casa, e in genere, si può senza temperanza e giustizia? ME.: No certo. (b) So.: E dunque entrambi, uomo e donna, per essere virtuosi, hanno bisogno delle stesse cose, giustizia e temperanza. ME.: È chiaro.
So.: E il fanciullo e il vecchio, possono essere virtuosi se sono smodati e ingiusti? ME.: No certo. So.: E se sono temperanti e (c) giusti? ME.: Sì. SO.: Dunque, tutti sono virtuosi nello stesso modo, in quanto cioè possiedono le medesime doti. ME.: È chiaro. So.: E non sarebbero certo virtuosi nello stesso modo, se non possedessero la stessa virtù. ME.: No, senza dubbio. So.: E allora, poiché la virtù è la stessa in tutti, cerca di ricordare che cosa ne diceva Gorgia, e tu con lui.
ME.: E che altro, se non esser capaci di governare gli uomini, (d) se ne cerchi l'unità? SO.: La cerco, certo. Ma allora, Menone, questa sarà la virtù anche del fanciullo e del servo. E ti sembra che sia sempre un servo, uno che governa? ME.: Non mi sembra affatto, Socrate. So.: E infatti, mio caro, sarebbe un po' strano. Ma considera anche questo: tu hai detto: esser capace di governare; non dobbiamo aggiungere "giustamente", e non ingiustamente? ME.: Sono d'accordo, Socrate; la giustizia, infatti, è virtù. (e) So.: La virtù, Menone, o una virtù? (74a) ME.: No, c'è anche la fortezza, la temperanza, la sapienza e moltissime altre. SO.: Ma allora siamo al punto di prima, Menone: cercavamo una sola virtù e ne abbiamo trovate molte, sia pur in modo diverso; e quell'unica virtù che è in tutte, non riusciamo a trovarla.
(77b) ME.: Dunque, Socrate: mi sembra che la virtù sia, come dice il poeta, "godere delle cose belle, e averne potere". So.: Vuoi dire che il desiderio delle cose belle è tutt'uno con il desiderio delle cose buone? ME.: Certo! (c) SO.: Ma ti sembra che ci sia chi desidera cose cattive? ME.: Sì. So.: Ma le desidera ritenendo le buone o sapendo che sono cattive? (d) ME.: C'è chi ritiene che le cose cattive giovino, e chi sa che nuocciono. So.: Ma secondo te, conosce le cose cattive veramente per tali, chi ritiene che giovino? ME.: No, questo non mi pare. So.: E non è chiaro, allora, che non desidera (e) le cose che riconosce cattive, ma quelle che ritiene buone, anche se poi sono cattive? ME.: Sì. So.: E chi desiderasse cose cattive saprebbe che danneggiano quello cui toccano. (78a) ME.: È necessario. SO.: E anche che chi è danneggiato è infelice? ME.: Anche questo è necessario. So.: E chi è infelice non è sventurato? ME.: Lo credo bene! So.: Ma c'è qualcuno che voglia essere infelice e sventurato? ME.: Non mi pare, Socrate. SO.: E allora, Menone, se nessuno vuol essere tale, nessuno desidera cose cattive. E essere infelice non è se non volere e procurarsi il male. ME.: Sì, Socrate, (b) mi sembra: nessuno vuole il male.
So.: Ma non dicevi che la virtù consiste nel volere le cose buone e nel potersele procurare? ME.: Sì, lo dicevo. SO.: Ma in base a ciò che si è detto, il volere c'è in tutti, e in ciò nessuno è migliore di un altro. ME.: È chiaro. SO.: E allora, se uno è migliore di un altro, lo sarà per il potere. ME.: Certo. (c) SO.: Affermi dunque che la virtù consiste nell'essere capaci di procurarsi cose buone. ME.: Sì. So.: E tra queste cose buone, poni la salute e le ricchezze? ME.: Ma anche l'oro e l'argento, e gli onori e le cariche della città! (d) So.: Ma a questo "procurarsi", Menone, aggiungi "giustamente" e "santamente" o anche se uno se li procura ingiustamente, la chiami virtù? ME.: No certo, Socrate! SO.: Allora, malvagità? ME.: Certo!
SO.: E allora, a quanto pare, bisogna che in questo "procurarsi" ci sia la giustizia, o la temperanza, (e) o la santità, o qualche altra parte della virtù; altrimenti non sarà virtù, anche se procura cose buone. (79a) ME.: Sì. SO.: Ma allora, Menone, ti fai gioco di me. ME.: E perché mai, o Socrate? (b) SO.: Perché io ti pregavo di definire la virtù nel suo insieme, e invece tu affermi che è virtù ogni azione compiuta con una parte (c) di virtù: come se avessi detto che cos'è la virtù nel suo insieme, e io potessi riconoscerla nelle sue parti! E' chiaro che bisogna riprendere da principio la questione di cosa sia la virtù ...
(79e) ME.: O Socrate, anche prima di incontrarmi con te (80a) avevo sentito che tu non fai altro che dubitare, e fai dubitare gli altri: ma ora io sento che mi affascini, mi ammalii, mi incanti completamente, e non ho più scampo. E, se mi è lecito scherzare, mi sembra davvero che tu assomigli, nella figura e nel resto, alla piatta torpedine marina, che chi le si avvicina e la tocca, subito lo fa intorpidire. Mi sembra infatti che tu abbia avuto su di me lo stesso effetto, perché sono davvero intorpidito (b) nell'anima e nella bocca, e non so cosa risponderti. (c) SO.: Se la torpedine fa intorpidire gli altri perché anch'essa è torpida, allora le somiglio; se no, no. Infatti, non è che io faccia dubitare gli altri e sia certo, anzi sono dubbioso più di chiunque altro. (d) E così, quanto alla virtù, io non so cosa sia; tu forse lo sapevi prima di accostarti a me, e ora invece sei come quello che non sa. Comunque, voglio cercare e indagare con te che cosa essa sia.
Poiché la questione del dialogo Menone non è tanto l’essenza della virtù, ma l'insegnabilità della virtù, Socrate decide di rispondere al quesito originario di Menone, decidendo di definire la virtù in modo ipotetico come una qualità posseduta dall'anima. Il problema dell'insegnabilità della virtù, posto fin dall'inizio da Menone, viene risolto da Socrate in questo modo: la virtù, se è insegnabile, dovrà essere scienza, giacché solo la scienza è insegnabile.
Menone si trova difatti d'accordo con Socrate. D'altronde bisogna altresì constatare che la virtù è un bene, affermazione che Menone non nega. Se è un bene la virtù avrà anche le seguenti caratteristiche: sarà cioè utile e giovevole a coloro che la possiedono. Socrate spiega anche che tutte le cose sono buone, utili e giovevoli se sono utilizzate in modo giusto, cioè secondo ragione. Ciò dunque che distingue una cosa buona da una cattiva è la ragionevolezza,il conoscere,il sapere. Se la virtù ha tutte queste caratteristiche, ossia di essere buona, utile e giovevole, ne conseguirà che è la virtù richiede ragionevolezza, conoscere e sapere. Ma se la virtù si basa su questi tre precetti, ne risulta che è scienza, e che non la si può possedere in maniera innata, ma dev’essere trasmessa; allora, se può essere trasmessa, e dunque insegnata, la virtù è scienza ed è insegnabile.
Il ragionamento fin qui addotto è corretto per Socrate. La soluzione così trovata incappa però in un non secondario problema: se la virtù è scienza, e quindi insegnabile, si dovrebbero trovare dei maestri di virtù e degli scolari di virtù. Solo che mentre è indubbio che ci siano scolari di virtù (giacché proprio Menone vorrebbe apprendere la virtù) non è così chiaro se esistano anche maestri di virtù. Ci sono maestri di virtù? Socrate pensa di no, mentre Menone riconosce che i sofisti, che si proclamano maestri di virtù, alle volte gli sembrano tali, alle volte no.
A questo punto nel dialogo entra in scena Anito, che nella realtà storica fu uno dei principali accusatori di Socrate. Ad Anito Socrate chiede se i sofisti sono maestri di virtù. Anito, al solo sentir nominare i sofisti s'infuria, scagliandosi contro costoro poiché affermano di far crescere al meglio i giovani sotto la loro tutela, quando invece non fanno che inquinarne gli animi. Anito afferma che ci sono sì maestri di virtù, ma non sono essi da ricercare tra le file dei sofisti. Per Anito ogni cittadino ateniese onesto e ligio alle leggi può insegnare ai suoi figli che cosa sia la virtù, poiché è esso stesso un cittadino virtuoso. A quest'affermazione Socrate mostra di avere seri dubbi: la risposta di Anito è infatti in palese contraddizione con i fatti; neppure i grandi tra gli Ateniesi hanno saputo trasmettere la virtù ai loro figli, si ponga il caso anche di grandi statisti e condottieri come Temistocle, Aristide, Pericle e Tucidide che, pur essendo senza dubbio uomini virtuosi, ebbero dei figli non alla loro altezza e che, anzi, si macchiarono di diversi peccati. Dopo la confutazione di Socrate, Anito lo ammonisce di non parlare male dei grandi cittadini di Atene e lascia la discussione che riprende tra Socrate e Menone. La questione sul se esistono maestri di virtù è così portata a soluzione da Socrate: oltre che alla scienza può risultare altrettanto efficace la giusta opinione. Questa giusta opinione è una sorta di ispirazione divina con la quale l'uomo che la possiede inconsapevolmente, guida il popolo in modo retto.
La giusta opinione è una sorta di innato sesto senso che porta il detentore di tale bene a scegliere la strada migliore, a fare le giuste scelte. In questo senso la retta opinione non è in nulla inferiore alla scienza. Tuttavia la scienza è stabile, costante, mentre la retta opinione è precaria giacché non si sostanzia di vera conoscenza del bene, ma di una sorta di riflesso di essa. Socrate ritiene infatti che i grandi uomini di Atene fossero virtuosi per retta opinione e non per scienza, motivo per cui non sarebbero riusciti ad insegnare la virtù alla loro discendenza. Solo un possessore della vera scienza potrà davvero insegnare e trasmettere la conoscenza della virtù.
Uno dei punti fondamentali del Menone è costituito dall'esposizione della teoria della anamnesi, ribadita in altri dialoghi da Platone e portata al suo massimo compimento nel Fedone. Si è visto come Menone, dopo il terzo tentativo di definire la virtù, si arrenda ammettendo di non essere capace a definirla in modo corretto. Menone, a questo punto, aveva obiettato, alla maniera dei Sofisti, che è inutile ricercare una cosa che non si conosce giacché, quand'anche la si sia trovata, non conoscendola, non la si riconoscerebbe come la soluzione del problema posto.
Socrate obietta a questa conclusione di stampo gorgiano, definendo la sua teoria della conoscenza: l’anima è immortale e quando il corpo che la possiede muore, essa va nell'Ade, da dove fa ritorno trascorso un certo lasso di tempo, tornando in un altro corpo. In questo lasso di tempo l'anima ha conosciuto tutto, e quando prende posto in un altro corpo, non fa altro che dimenticare tutto. Questa conoscenza, però, è latente in lei, e per risvegliare questa conoscenza l'uomo deve fare della sua vita una costante ricerca del sapere perduto, ma che può essere ritrovato in ogni momento. L'anima dev'essere sollecitata a ricordare, per portare nuovamente alla luce i concetti appresi un tempo.
ME.: Ma in che modo, o Socrate, cercherai ciò che non sai cosa sia? E quale delle cose che non sai farai oggetto di indagine? E se anche l'azzeccherai, come farai a sapere che è ciò che cercavi, se non la conoscevi? (e) SO.: Capisco quel che vuoi dire, Menone! Vedi che bell'argomento eristico proponi: che non è possibile per l'uomo cercare né ciò che sa né ciò che non sa; ciò che sa perché, conoscendolo, non ha bisogno di cercarlo, ciò che non sa perché, non conoscendolo, non saprà che cosa cercare. (81a) ME.: E non ti pare un bel ragionamento, o Socrate? SO.: A me no. ME.: E perché, dimmi? So.: Perché ho sentito dire da uomini e donne esperti nelle cose divine ... ME.: Che cosa? So.: Cose vere, mi pare, e belle. ME.: Quali? e chi le diceva? So.: Sacerdoti e sacerdotesse, a cui sta a cuore rendere ragione delle cose di cui si occupano. (b) E anche Pindaro, e altri poeti ispirati dal dio. E le cose che dicono sono queste; e tu guarda se ti sembrano vere. Dicono dunque che l'anima dell'uomo è immortale, e che ora essa finisce - il che si dice morire - ora di nuovo rinasce, ma che mai va distrutta; e per questo bisogna vivere nel modo più santo possibile. (c) E dunque, poiché è immortale e più volte rinata, e ha veduto tutte le cose, quelle di questo mondo e quelle dell'Ade, l'anima, non c'è nulla che non abbia appreso; e perciò non c'è da stupirsi che sia capace di ricordare, sulla virtù e su tutto il resto, ciò che prima ha appreso. E poiché, d'altra parte, la natura (d) tutta è con genere, nulla impedisce che l'anima, che ha appreso tutto, quando ricorda una cosa - ciò che gli uomini chiamano apprendimento - trovi anche tutte le altre, purché abbia coraggio e non si stanchi nella ricerca. Insomma, cercare e imparare sono, nel loro insieme, anàmnesi. Non bisogna dunque prestar fede a quel ragionamento eristico: esso infatti ci rende pigri e suona gradito solo agli orecchi degli uomini di poco valore; questo nostro, invece, ( e) rende operosi e dediti alla ricerca. Avendo dunque fiducia che esso sia vero, desidero cercare con te che cosa sia la virtù.
Per comprendere pienamente il pensiero platonico bisogna distinguere il contenuto dei dialoghi dal messaggio che vogliono trasmettere. Platone farà del mito che da sempre si era posto in contrapposizione alla filosofia un uso razionale attribuendo ad esso il compito di venire in aiuto al puro logos che pur percependo e facendosi portatore di verità non riesce a trasmetterla; il mito si presenterà come una storia che presa senza il messaggio non specifica nulla ma colui che considera il messaggio che riporta al suo interno prima della storia dal valore fittizio capisce la sua essenza.
Entrando nel vivo del problema quando Platone spiega come è riportato sopra come la conoscenza sia un'anamnesi vuole in realtà mettere in evidenza come l'anima prescinde dal corpo in quanto è l'io pensante ed inoltre vuole dividere la realtà in due piani del reale: quello sensibile e mutevole dal quale non si ricava la conoscenza in quanto essendo mutevole non riporta una verità e un piano intelligibile e di puro pensiero nel quale e del quale l'anima in quanto io pensante è immersa.
Detto questo risulta quasi scontato il fatto che l'uomo non potendo ricavare in alcun modo la verità dall'esperienza sensibile fa uso dell'anima che è il pensare dell'uomo, per questo l'uomo ricava da sé medesimo la verità questo per Platone è un ricordare. La dialettica, forma dialogica del discorso sarà il mezzo per "ricordare" inoltre la dottrina spiega come l'anima entra in un altro corpo alla fine della vita questo è di sicuro di gusto pitagorico ma Platone vuole trasmettere come l'anima accostata al saper pensare è data a tutti ed inoltre al fine di perseguire il senso del dialogo che è il mezzo per arrivare alle idee Platone espone ciò.
Un passo cruciale del Menone è l’esperimento maieutico fatto da Socrate per dimostrare al dubbioso Menone l’esattezza della sua teoria dell’anamnesi. Viene interrogato uno schiavo di Menone che, per sua stessa ammissione, ignora i fondamenti della geometria. Socrate disegna sul terreno un quadrato di 2 piedi per lato e chiede allo schiavo di trovare la misura del lato del quadrato che abbia area doppia rispetto a quello disegnato. Se il quadrato disegnato ha lato uguale a 2 piedi, allora ha area uguale a 4 piedi. Quanto misurerà il lato del quadrato di area uguale a 8 piedi? Senza pensarci il ragazzo sostiene che il quadrato da ricercare avrà il lato di 4 piedi, esattamente il doppio del lato del quadrato di partenza. Sempre e solo interrogando lo schiavo, Socrate lo fa ragionare che il quadrato con lato di 4 piedi avrà area uguale a 16 piedi, non certo a 8 piedi. Il ragazzo arriva allora a pensare che il lato del quadrato da cercare debba essere di misura intermedia tra i due piedi del lato del primo quadrato e i 4 piedi del lato del secondo. Per lo schiavo la soluzione è che il lato deve misurare 3 piedi. Ancora una volta però, sotto l’incessante interrogatorio di Socrate, arriva a notare che l’area del quadrato di 3 piedi è di 9 piedi, e non di 8, come si doveva trovare. Socrate dichiara che l’esperimento sta comunque riuscendo: lo schiavo, dapprima così sicuro di sé, sta ora cominciando a rendersi conto di non sapere la misura del lato da trovare; a tale consapevolezza egli è giunto da solo, senza aiuti esterni.
(84a) SO.: Vedi, Menone, quale cammino abbia fatto nella conoscenza? All'inizio, non sapeva quale fosse il lato di un quadrato di otto piedi; nemmeno ora lo sa, ma prima credeva di saperlo, e rispondeva con la sicurezza di chi sa, e non aveva dubbi; ora si rende conto (b) di aver dei dubbi, e, se non sa, non crede però nemmeno di sapere. ME.: È vero. SO.: Non si trova dunque, adesso, in una condizione migliore, riguardo a ciò che non sapeva? ME.: Sembra anche a me. So.: Facendolo dubitare, intorpidendolo come fa la torpedine, gli abbiamo forse nuociuto? ME.: Non mi pare. So.: Anzi, gli abbiamo giovato, a cercare come stia la cosa. Ora infatti è disposto a cercar di buon grado, visto che non sa ... (c) ME.: Sembra. So.: E credi che si sarebbe messo a cercare ciò che, pur non sapendo, riteneva di sapere, se prima non fosse caduto nel dubbio e, visto di non sapere, non gli fosse venuto il desiderio di conoscere? ME.: Non mi pare, Socrate. So.: Insomma, l'intorpidimento gli ha giovato? ME.: Mi sembra. SO.: Osserva ora, come dal dubbio passerà alla verità, cercando insieme a me, mentre io non farò che interrogarlo, senza insegnargli nulla.
Socrate torna ad interrogare lo schiavo sul problema e disegna sul terreno 4 quadrati uguali a quello di partenza, uno a fianco all’altro così che formino un quadrato di lato 4 piedi e di area 16 piedi. Il ragazzo riconosce che il quadrato di partenza è la quarta parte del quadrato così ottenuto.
A questo punto riconosce anche che il quadrato ottenuto tracciando una delle 2 diagonali di ciascun quadrato da 2 piedi è quello cercato, ossia quello che ha area uguale a 8 piedi. Socrate si dimostra soddisfatto ribadendo a Menone che lo schiavo è giunto a questa conclusione da solo, ha solo avuto bisogno di qualcuno che lo aiutasse a ricordare la conoscenza che già l’anima aveva dentro di lui.
(85b) Cosa ti sembra, Menone? Ha mai espresso un pensiero che non fosse suo? (c) ME.: No, li ha tratti tutti da sè. So.: Eppure non sapeva nulla, come dicevamo poco fa. ME.: È vero. SO.: E tali pensieri erano in lui o no? ME.: Sì. SO.: Dunque, in chi non sa si trovano opinioni vere riguardo alle cose che non sa? (d) SO.: E questo ricavare la scienza da sè, non è ricordare? ME.: Certo. SO.: E la scienza che ora possiede, o l'ha acquisita in un certo tempo, o la possiede da sempre. (e) ME.: lo so che nessuno gli ha mai fornito questi insegnamenti. So.: Ma le sue conoscenze le ha o non le ha? ME.: Non mi pare ci siano dubbi. SO.: Allora, se non le ha acquisite nella vita presente, non è ormai chiaro (86a) che le possedeva prima, e le ha apprese in un altro tempo? ME.: È chiaro. So.: E non è forse questo il tempo in cui non era ancora uomo? ME.: Sì. SO.: E allora, la sua anima non sarà in possesso del sapere in ogni tempo? E' chiaro infatti che è sia quando è uomo, sia quando non lo è. ME.: È chiaro. (b) So.: E se la verità delle cose è nella nostra anima sempre, l'anima dovrà essere immortale; e per questo bisogna mettersi con coraggio a cercare ciò che ora non si sa, ed è appunto ciò che non si ricorda. ME.: Mi sembra tu dica bene Socrate, anche se non so come.
(c) So.: E allora, se siamo d'accordo che si deve cercare quello che non si sa, vuoi che insieme ci mettiamo a cercare cosa sia la virtù? ME.: Sì, certo. lo però cercherei e ascolterei con piacere ciò che ti ho chiesto in principio, e cioè se la virtù sia insegnabile, (d) o si forma negli uomini per natura o in qualche altro modo. So.: Ma, se avessi potere non solo su me ma anche su di te, non ci metteremmo a esaminare questo, prima di aver stabilito che cosa essa sia. (e) Almeno, allenta un po' il tuo potere, e concedimi che la ricerca se la virtù sia insegnabile o no, sia fatta per ipotesi. Dico "per ipotesi" riferendomi all'uso che spesso ne fanno gli studiosi di geometria. (87b) Diciamo cioè così: se la virtù è per natura fra le cose proprie dell'anima, sarà insegnabile o no? E in primo luogo, sarà insegnabile, cioè, come dicevamo poco fa, si potrà ricordare, se sarà qualcosa di diverso dalla scienza? (c) O non è chiaro per tutti che all'uomo non può essere insegnata che la scienza? ME.: Mi pare di sì. So.: Allora, se la virtù è una scienza, è evidente che è insegnabile. ME.: Come no? SO.: Di questa questione, dunque, ci siamo liberati presto: se è scienza è insegnabile, se no, no. ME.: Certo.
SO.: La questione successiva, mi pare, è se la virtù sia scienza o qualcosa di diverso. (d) ME.: Sembra anche a me. So.: Già! Ma non affermiamo noi che la virtù è un bene? Questa ipotesi resta ben ferma? ME.: Certo. SO.: Allora, se ci sono beni diversi dalla scienza, la virtù potrebbe non essere scienza; se invece non c'è alcun bene che non sia compreso nella scienza, sarebbe esatta l'ipotesi che lo sia. ME.: È così. SO.:Ora, (e) noi siamo buoni grazie alla virtù? ME.: Sì. So.: E se siamo buoni, siamo anche utili: ciò che è buono infatti è utile. O no? ME.: Sì. SO.: La virtù è dunque utile? ME.:Necessariamente, in base a ciò che abbiamo ammesso. So.: Consideriamo ora ad una ad una le cose che ci sono utili. La salute, la forza, la bellezza, la ricchezza: queste cose ed altre simili diciamo che ci sono utili, (88a) no? ME.: Sì. SO.: Ma queste stesse cose diciamo talvolta che sono dannose. La pensi cosi o no? ME.: Così. So.: E allora considera: cos'è che le guida quando sono utili e cos'è che le guida quando sono dannose? Non è forse vero che sono utili quando se ne fa un uso corretto, e dannose quando se ne fa un uso scorretto? ME.: Certo.
So.: Passiamo ora alle cose che riguardano l'anima. C'è qualcosa che chiami temperanza, giustizia, fortezza, facilità ad apprendere, memoria, generosità e le altre (b) del genere? ME.: Sì. SO.: Considera ora, di queste qualità, quelle che non sono scienza: sono forse talvolta utili e talvolta dannose? Il coraggio, ad esempio, quando non è assennatezza ma temerarietà: non è forse vero che chi agisce arditamente ma senza senno ne riceve danno, e chi invece lo fa con senno ne ricava vantaggio? ME.: Sì. So.: E lo stesso per la temperanza e la facilità ad apprendere: se imparate e praticate con senno sono utili, se no dannose. (c) ME.: Sicuro. So.: Dunque, in generale, tutto ciò che l'anima intraprende e compie sotto la guida dell'intelligenza, ha esito felice; il contrario ciò che fa senza intelligenza. ME.: Così sembra. SO.: E allora, se la virtù è qualcosa di proprio dell'anima e qualcosa di necessariamente utile, deve essere intelligenza: tutto ciò che è proprio dell'anima, infatti, non è di per sé né utile né dannoso, ma lo diventa a seconda che lo accompagni l'intelligenza o la dissennatezza. (d) ME.: Sembra anche a me. So.: E così è per le altre cose, la ricchezza e simili, di cui si diceva, che talora sono buone e talora cattive ... (e) ME.: Certo. So.: E a guidarle rettamente è l'anima che ha senno, erroneamente l'anima che non lo ha. ME.: Proprio così.
So.: In generale, dunque, si deve dire così: che nell'uomo tutto dipende dall'anima, e che ciò che è proprio dell'anima dipende dall'intelligenza, (89a) se deve essere buono. E secondo questo ragionamento ciò che è utile coincide con l'intelligenza. Ora, non diciamo noi che la virtù è utile? ME.: Certo. SO.: Dunque, affermiamo che essa è, in tutto o in parte, intelligenza. ME.: Il ragionamento mi sembra ben condotto, Socrate. So.: Ma se le cose stanno così, i buoni non sono tali per natura. ME.: No, infatti. (b) SO.: E se non sono buoni per natura, lo diventeranno, allora, per insegnamento? (c) ME.: È inevitabile; ed è chiaro che la virtù è insegnabile, data l'ipotesi che sia scienza. So.: Forse è così, per Zeus; ma le premesse di questa conclusione, le abbiamo ben poste veramente? ME.: Eppure, or ora sembrava che si dicesse bene. So.: Ma non deve sembrare solo "or ora", ma anche ora e poi, per essere giusto.(d) ME.: Ma insomma! in base a che cosa ora sei scontento e dubiti che la virtù sia scienza? So.: Te lo dirò, Menone. Che la virtù sia insegnabile, se è scienza, non contesto che sia ben detto; ma che sia veramente scienza, vedi se non ho qualche ragione di dubitarne. Dimmi infatti: se una cosa, e non solo la virtù, è insegnabile, non è necessario che vi sia chi la insegna e chi la impara? ME.: Mi pare di sì. (e) So.: E se invece non vi fosse né chi la insegna né chi la impara, non sarebbe giusto supporre che non sia insegnabile? ME.: Certo. Ma non credi dunque che ci siano maestri di virtù?
La dottrina dell’anamnesi così espressa da Socrate/Platone è un’ulteriore critica mossa nei confronti della teoria della conoscenza predicata dai Sofisti. Socrate e Menone si soffermano a lungo sulla situazione sociopolitica contemporanea, e devono constatare che nessuno che fosse "virtuoso" è riuscito a trasmettere la sua virtù a dei discepoli.
(96b) So.: Né i sofisti né gli uomini virtuosi sanno insegnare la virtù: non è chiaro che non saprebbero farlo nemmeno altri? ME.: Sembra. (c) So.: E se non ci sono maestri, neppure ci sono scolari. ME.: Mi pare di sì. So.: Ma abbiamo convenuto che ciò di cui non vi sono né maestri né scolari, non è insegnabile. ME.: Sì. SO.: Ma della virtù sembra non vi siano maestri in nessun luogo. ME.: È così. SO.: E se non vi sono maestri, non ci saranno nemmeno scolari. ME.: È chiaro. So.: La virtù, dunque, non è insegnabile. (d) ME.: Sembra proprio di no, se abbiamo condotto la ricerca correttamente. Però, Socrate, mi chiedo con meraviglia se ci siano uomini virtuosi, o, se ci sono, come siano diventati tali.(e) SO.: Forse, nella nostra ricerca ci è sfuggito (ed è ben ridicolo) che gli uomini compiono azioni rette e buone non solo sotto la guida della scienza; e per questo non riusciamo a capire come si formino gli uomini virtuosi. ME.: Che vuoi dire, o Socrate? (97a) So.: Questo: se uno, conoscendo la via che va a Larissa, o in qualsiasi altro luogo, vi andasse e vi guidasse gli altri, non li guiderebbe rettamente? ME.: Certo. (b) So.: E se uno, senza esserci mai andato e senza conoscere la via, avesse su di essa una retta opinione, non guiderebbe rettamente anche lui? ME.: Certo. SO.: E finché avrà una retta opinione su ciò di cui un altro ha scienza, questo, che opina il vero ma non ne ha conoscenza, sarà una guida peggiore dell'altro che ne ha conoscenza? ME.: Niente affatto! So.: Dunque, per quanto riguarda la rettitudine delle azioni, l'opinione vera non è una guida peggiore della conoscenza; ed è questo appunto che prima abbiamo trascurato nella ricerca sulla virtù ... (c) ME.: Con questa differenza, Socrate, che chi possiede la scienza riesce sempre, e chi invece non ha che la retta opinione, talvolta riesce e talvolta no. So.: Sì, ma colui che ha retta opinione sempre, non riuscirà sempre, fino a che conserva tale opinione? ME.: Mi sembra necessario. Ma allora, o Socrate, sono curioso di sapere (d) perché mai la scienza sia considerata di più, e perché l'una sia distinta dall'altra.(98a) So.: Perché le opinioni vere sono come le statue di Dedalo: fin che rimangono sono cose belle, (b) e producono ogni bene; ma non vogliono restare a lungo e fuggono via dall'anima umana; perciò non hanno gran valore, fino a che non si legano mediante la conoscenza della causa. E questa, come abbiam detto, è la reminiscenza. Una volta legate, diventano conoscenza, e conoscenza stabile. Per questo la scienza ha maggior valore e per questo differisce dalla retta opinione. ME.: Giusto quello che dici, Socrate. (e) So.: E allora? Avevamo convenuto che la virtù non è insegnabile e non è scienza. ME.: Certo. SO.: Ma abbiamo convenuto anche che essa è cosa buona. ME.: Sì. So.: E che ciò che ci dirige rettamente è utile e buono. Men.: È così. (99a) SO.: E che due sole cose ci guidano rettamente: l'opinione vera e la scienza, e se le possiede l'uomo si conduce rettamente; ciò che è retto per caso, avviene infatti fuori della direzione umana. ME.: Mi sembra che sia così. (b) SO.: Non per scienza, dunque, governavano le città uomini come Temistocle e gli altri che diceva Anìto; e per questo non sono riusciti a rendere altri virtuosi come loro. ME.: Così sembra, o Socrate. SO.: E (c) con la retta opinione gli uomini politici governano le città, e non sono dunque diversi, quanto a sapere, dagli indovini e dai vati: (d) quando colgono nel giusto, dicono e fanno grandi cose, ma senza averne conoscenza.
La teoria della conoscenza dei Sofisti induce gli uomini alla pigrizia attorno alla ricerca del vero, mentre la teoria dell’anamnesi li rende recettivi ed attivi nel cercare la verità dentro loro stessi.