L'ordine come utopia del passato
L’Aquila imperiale. Nel canto VI del Paradiso lo spirito fiammeggiante dell'imperatore Giustiniano racconta a Dante le imprese dell'aquila romana. Simbolo del potere imperiale, l'aquila è insieme specchio di un disegno provvidenziale.
Il rapporto tra segno storico (dell'Impero romano e del Sacro Romano Impero) e significato simbolico dell'aquila è evidente. L’impero si identifica dunque con la giustizia. A parlare nel canto VI è Giustiniano, l'imperatore dedito all'«alto lavoro» del Codice di leggi che recupera e trasmette al Medioevo il patrimonio giuridico romano. Di contro, violenta è la polemica rivolta a chi la «giustizia e lui diparte [separa]» (VI, 103-104) come fanno i Ghibellini, che usano il simbolo imperiale per perseguire interessi di parte, alimentando le lotte fratricide.
Anche l'epopea delle conquiste militari romane è svolta in funzione di una missione politica e religiosa per cui l'universo romano viene a intrecciarsi e a sovrapporsi con quello cristiano. L’impero dunque è esaltato come valore assoluto, incarnazione della giustizia divina, e prescinde da ogni riferimento alla concreta condizione storica, sia dell'Impero romano, sia di quello medievale, ormai in decadenza. Questa immagine del potere disegna perciò un'utopia. Un'utopia politica funzionale alla polemica contro l'anarchia del potere comunale e la corruzione del potere temporale della Chiesa. Da questa prospettiva Dante giudica e condanna il presente come "degenerazione" e deviazione: l'aquila non ha più eredi. Non solo, ma anche un potenziale erede come Federico II non è riuscito a metter pace in Italia per la guerra dichiaratagli dalla Chiesa. Il potere imperiale non può garantire una società ordinata e giusta, se non è separato da quello religioso.
I "due soli". Al centro della Commedia, a Dante che lo interroga sulle cause del disordine terreno Marco Lombardo risponde con una perentoria affermazione, che sarà oggetto di ampio dibattito nella Monarchia e ispirerà la condotta pubblica di Dante, dall'annunzio della discesa in Italia dell'imperatore Enrico VII. La «mala condotta» va imputata alle libere scelte dell'uomo, poiché Dio aveva disposto due poteri per guidare gli uomini sulla via della pace e della salvezza .
La metafora dei due soli, cioè di un potere politico distinto da quello religioso, che riconosca una sua autonomia alla vita terrena, veniva originalmente ad opporsi sia alla concezione teocratica del potere di Bonifacio VIII, sia a quella integralmente laica delle nascenti monarchie nazionali Verso lo Stato laico. La riscoperta della Politica di Aristo tele, che comincia a circolare in Europa dalla metà de Duecento, contribuisce infatti al rinnovamento del pensiero politico medievale. Per Aristotele l'uomo è un "animale politico", cioè un essere per natura sociale; lo Stato non è un male inevitabile, conseguenza del peccato originale, ma un prodotto della natura umana di cui l'uomo si serve, guidato dalla ragione e dalla volontà.
Nel Trecento è Marsilio da Padova che, riprendendo la lezione di Aristotele, compie la rottura più radicale con la concezione medievale del potere. Nel Defensor pacis (Il difensore della pace) elabora una teoria politica fondata sul principio che il potere trae origine dalla volontà di tutti i cittadini. Svincolando il potere da ogni fondamento teologico, Marsilio apre la strada alla concezione moderna dello Stato. Un sintomo del processo di laicizzazione che investe l'immagine del potere è già evidente, nel XIII e XIV secolo, nei cicli di affreschi commissionati in Italia dalle autorità comunali per gli edifici pubblici. L’Allegoria e gli Effetti del buon governo di Ambrogio Lorenzetti ne costituiscono l'esempio più ricco e significativo.
Il disordine: crisi e rivolte dal Trecento al Cinquecento
La concezione medievale del potere come suprema giustizia è destinata a scontrarsi con una realtà ben diversa. Una realtà dominata dalla cupidigia e dalle discordie che dilaniano senza tregua il mondo comunale e quello delle nascenti Signorie. In questo quadro si pongono sia le invettive dantesche contro Firenze - per il suo ruolo emblematico nello sviluppo della società mercantile e delle istituzioni comunali -, sia il drammatico panorama delle lotte fratricide che lacerano le contrade d'Italia. Né la situazione è destinata a migliorare nel corso del XIV e XV secolo. A metà del Trecento il tracollo economico e le epidemie di peste aggravano il disordine della società europea. La popolazione viene falcidiata, la ricchezza si concentra in poche mani, aumentano la miseria e i conflitti. Rivolte sociali contro l'inasprirsi dei vincoli feudali e rivolte politiche costellano l'Europa negli ultimi decenni del Trecento. Le istituzioni comunali vengono spazzate via o si trasformano in ristrette oligarchie, mentre si affermano gli stati regionali e nazionali. Lo sviluppo di queste nuove forme di potere è accompagnato a sua volta da una serie di sanguinosi conflitti. Tra questi si distingue la guerra dei Cent'anni, tra Francia e Inghilterra, che vede schierati e vittoriosi i nuovi eserciti mercenari, decretano la fine della cavalleria e dello Stato feudale.
A Firenze il tumulto dei Ciompi nel 1378 segna con il suo fallimento la fine del Comune e, simbolicamente, la fine di un' epoca.
La borghesia indebolita dalla crisi e spaventata dai conflitti sociali si schiera con la nobiltà, aprendo la strada all'avvento del potere signorile.
L'utopia del presente
Le Signorie rispondono alla crisi e ai conflitti dell'epoca comunale istaurando un potere centralizzato e personale. La violenza che caratterizza spesso l'ascesa dei nuovi signori è rafforzata dalla loro origine guerriera. Molti di loro erano infatti soldati di professione o condotti eri, come Francesco Sforza che si impadronisce con le armi del ducato di Milano.
L'apologia della corte. La corte, centro e simbolo della nuova autorità, attraverso uno splendido apparato di propaganda mira quindi a legittimare il potere signorile, ispirandosi non più a principi teologici, ma agli ideali umanistici e ai modelli della classicità.
Contro chi rimpiangeva il passato delle vecchie corti feudali, Castiglione, nel Cortegiano, si lancia in un'appassionata apologia del presente e della corte rinascimentale. Gli umanisti, infatti, come già Petrarca, accettano la logica del governo signorile, registrando un processo storico decisamente avviato verso un'immagine desacralizzata del potere. La stessa rivalutazione umanistica della vita terrena induce a una visione laica del ruolo del principe che trova una salda base concettuale nella lezione degli antichi. Si disintegra così l'idea universalistica della monarchia medievale a favore di una pluralità di centri di potere, mentre l'azione umana e politica rompe ogni nesso con il soprannaturale. Il sorgere e decadere degli Stati non è più spiegato nell'ambito di una concezione provvidenzialistica della storia, ma in termini naturalistici.
I!ottimo principe. Sono soprattutto gli artisti a forgiare nell'immaginario il mito del nuovo potere signorile, celebrandone gli attributi secondo l'iconografia antica. Compaiono nelle piazze i monumenti equestri, emblema della forza del principe-condottiero. il genere nuovo del "ritratto" esalta l'individualità e il carisma personale del principe, non più astrattamente la sua funzione, come avveniva nell' arte medievale. I "trionfi" , infine, ne glorificano i meriti civili.
In questo clima nasce il mito della corte di Urbino e del suo duca Federigo da Montefeltro, descritto da Castiglione nel Cortegiano secondo il modello umanistico del principe ideale, uomo d'armi e di lettere, tutto prudenza, umanità, giustizia, liberalità, magnanimo fondatore di una splendida corte.
Ma l'immagine del principe, come quella della corte non era quel che l'apparenza suggeriva. La corte ideale del Cortegiano, luogo insuperabile di armonia, grazia e bellezza, assume piuttosto la funzione di maschera ideologica dei connotati delle corti reali italiane ed europee del tempo. E Guicciardini non manca di svelare i lati occulti di questa scena abbagliante.
La corte di Urbino tuttavia, nel Cortegiano, si unisce in cerchio, perennemente attorno a un'assenza, quella del duca che, malato, non prende parte alle conversazioni. Questa assenza suggerisce un altro spazio, quello segreto delle stanze del duca, scena reale di un potere sempre più sottratto al controllo non solo dei sudditi, ma anche di quel «perfetto cortigiano», che vuole istruire il «bon principe» per indurlo al «bene e spaventarlo dal male».
Resta infatti irrisolto nella cultura umanistica il conflitto tra i due poli, il riconoscimento della logica autonoma del potere e la pretesa di una sua subordinazione alle virtù morali. Scissione che si ricompone nell'immaginario con l'idealizzazione di una perfezione non raggiungibile.
L'utopia dell'altrove
Con la città ideale di Utopia (1516), pur concepita negli stessi anni del Cortegiano, la scena cambia. Il dialogo si svolge ad Anversa, centro dei traffici transoceanici, l'interlocutore dell'autore è un marinaio che è stato al seguito di Vespucci. Moro non si limita a proiettare nelle nuove terre il mito umanistico di un governo ideale, ma lo contrappone apertamente alla società sconvolta del suo tempo.
Come Castiglione e Machiavelli, Moro visse a contatto con la corte (fu primo ministro di Enrico VIII d'Inghilterra), ma i suoi incarichi gli permisero di conoscere anche le condizioni drammatiche delle plebi rurali della campagna inglese.
Il mondo nuovo di Utopia si ispira infatti a una critica radicale della cecità sia del potere nobiliare, sia di quello della nascente borghesia capitalistica. Moro scrive negli anni in cui il movimento di privatizzazione delle terre, trasformate in grandi pascoli, stava gettando sul lastrico migliaia di famiglie contadine, aumentando disoccupazione e criminalità. La riflessione di Moro si concentra dunque sulle conseguenze economiche e sociali del potere, con un'analisi realistica delle cause della degenerazione della società e della monarchia inglese. Non le virtù personali del principe, da cui dipende nella trattatistica rinascimentale la felicità dei sudditi, interessano Moro, ma una risposta globale che investa l'immagine dell'intera società civile. Si spiega così il rifiuto della proprietà privata come fonte prima dell'ingiustizia. All'individualismo sempre più sfrenato che si andava allora affermando, Moro oppone un modello di società che fonda la felicità dei cittadini sull'uguaglianza dei beni e sulla solidarietà sociale. Qui sta la novità di Utopia che, priva di riscontri nella realtà politica del suo tempo, sarà feconda di suggestioni nel futuro.
Il principe-centauro
La verità effettuale. Tra i due mondi di Tommaso Moro, Utopia (il Non-luogo ideale della coscienza) e quello della realtà, resta il vuoto. Manca una saldatura politica, cioè il momento dell'azione e della costruzione di un ordine nuovo. Su questo tema si concentra negli stessi anni la riflessione di Machiavelli. Machiavelli dichiara a chiare lettere, criticando tutta la trattatistica medievale e umanistica, di ritenere più «conveniente andare drieto alla verità effettuale della cosa che alla immaginazione di essa». Fa perciò giustizia di ogni immagine idealizzata del potere, denunciando l'inettitudine dei principi - mecenati, in un sarcastico confronto tra lo splendore delle corti rinascimentali e la catastrofe che seguì alla discesa di Carlo VIII.
Il principe nuovo. Machiavelli risolve anche il conflitto lasciato aperto dagli umanisti tra laicità del potere e moralità tradizionale del principe. Il potere per Machiavelli, a differenza di Castiglione, non risiede nella cultura, ma nella forza. Al primato della «virtù» e del «filosofo» egli oppone realisticamente quello delle armi e del calcolo politico. Infatti, come la storia dimostra, «i profeti armati vinsono e li disarmati ruinorono».
Basta prendere in considerazione anche solo il capitolo del Principe dedicato alle imprese di Cesare Borgia per rintracciarvi tutti gli aspetti della visione machiavelliana del potere.
Il duca Valentino, traditore, ingannatore, assassino, è indicato come modello a chi voglia ritrovare, nel presente, la virtù politica necessaria per fondare un nuovo Stato. E la storia dei "progressi" del duca pone fin dai primi capitoli del trattato il problema cruciale della violenza nella storia e quello, altrettanto importante, delle "virtù" del principe.
Il comportamento del Valentino appare un concentrato di tali "virtù". È «prudente e virtuoso», perché sa «bene usare la bestia e l'uomo», la forza del leone e l'astuzia della volpe, come raccomanderà Machiavelli al suo principe in un capitolo successivo. Il terreno su cui si muove il duca Valentino è quello di un conflitto continuo e incondizionato, privo di regole e norme: di qui la necessità di vincere o per forza o per frode, pena la «ruina».
La virtù del principe nei suoi diversi aspetti è dunque una virtù strumentale in cui tutto rientra (la pietà e la crudeltà, la lealtà e la dissimulazione, la forza e !'inganno) ed è misurabile solamente in rapporto al rischio della perdita dello Stato. Unico criterio guida: «non partirsi dal bene potendo, ma sapere entrare nel male se necessitato». Questo è il salto che compie Machiavelli rispetto alla visione umanistica della virtù del principe.
Virtù e violenza. Tuttavia la violenza e la crudeltà del Valentino non sono gratuite. Machiavelli sottolinea l'uso che ne fa il duca, un uso spregiudicato ma utile e necessario per mettere ordine nell'anarchia feudale della Romagna, disunita, spogliata da signorotti impotenti, «tutta piena di latrocini e di brighe». E per ridurla «pacifica e obediente al braccio regio» il duca «iudicò fussi necessario [ ... ] darli buon governo». La forza dunque non è solo militare, ma è anche una forza politica, che include un rapporto positivo fra il principe e sudditi. E qui sta la differenza tra il principe e il tiranno.
L’immagine del principe-centauro fonda un potere integralmente laico che non dipende né dal Papato né dall'Impero, né da Dio, né dai ceti feudali o da altre corporazioni. Non ha fondamento teologico o una giustificazione morale. Il potere giustifica se stesso nella creazione di uno Stato forte, capace di eliminare gli arbitri e le violenze delle fazioni aristocratiche, di garantire la stabilità e l'utilità comune. Il suo volto, necessariamente violento, trova spiegazione in Machiavelli nella pessimistica visione della natura umana e nella straordinaria avversità dei tempi. Trova inoltre più radicale conferma in un fulminante aforisma di Guicciardini, che smaschera la natura violenta, per sua qualità intrinseca e per vizio di origine, di ogni potere politico: «Non si può tenere stati [mantenere il potere] secondo conscienza, perché - chi considera la origine loro - tutti sono violenti [ ... ]: e da questa regola non eccettuo lo imperatore e manco e preti [lo Stato pontificio], la violenza de' quali è doppia, perché ci sforzano con le arme temporale e con le spirituale».
La ragion di Stato. Nell'epoca degli Stati centralizzati e assoluti il Principe apre la riflessione europea su questa forma politica nuova, che approderà nel Seicento a una nuova ideologia dello Stato, la cosiddetta Ragion di Stato. Si delinea una teoria del potere in cui questo risulta non solo autonomo, ma totalmente discrezionale: la persona del principe diviene la fonte stessa del diritto su cui si fonda la sovranità. Il potere assoluto confina così con l'arbitrio. Lo Stato sono io, affermerà perentoriamente Luigi XIV Nella rappresentazione letteraria, tra Cinquecento e Seicento, anche l'immagine della corte si incupisce, evoca la prigione, diventa luogo di dissimulazione e di servitù. Le lotte per il potere, la violenza connessa al suo esercizio, l'opposizione tra sentimenti e ragion di Stato sono al centro di un conflitto tragico nel teatro italiano ed europeo. In Shakespeare, l'ambizione del potere trasforma un virtuoso generale in un assassino.
Il patto sociale
Chi risolve una volta per tutte, a livello teorico, la necessità naturale e non teologica dello Stato assoluto è l'inglese Thomas Hobbes che, come Machiavelli, fu oggetto di attacchi durissimi. In linea con il lucido pessimismo dell'autore del Principe, egli tuttavia se ne differenzia, teorizzando nel Leviatano (1651) la legittimità dell'assolutismo politico. Lo Stato vi è infatti designato con il nome di Leviathan - il mostro biblico emblema di Satana - per la sua potenza assoluta e illimitata. Alla metafora dello Stato come corpo biologico vivente, elaborata da Machiavelli, Hobbes sostituisce quella dell'animale artificiale, dello Stato-macchina, impersonale e coercitivo, capace di imporre un'autorità indiscussa sui sudditi. La sua giustificazione rimanda però a un concetto nuovo: il patto sociale che riponeva il fondamento e la legittimità del potere in un patto condiviso tra governanti e governati.
Sempre in Inghilterra, alla fine del Seicento, dopo la rivoluzione di Cromwell e la conclusione in senso liberale del secolare conflitto tra il Parlamento e la corona, Locke teorizzerà i principi della sovranità popolare (Due trattati sul governa). Se per Hobbes l'uomo è cittadino solo nello Stato, per Locke lo è anche di fronte o addirittura contro lo Stato. Ancora in virtù del patto sociale, il cittadino delega la sovranità al potere dello Stato, che trova in questo accordo la sua legittimità. Ma la delega può essere sempre revocata dai cittadini, se il potere non garantisce il loro naturale e inalienabile diritto alla libertà. Alla società civile ritorna dunque la piena sovranità quando venga meno il titolare del governo o esca dalla legittimità il suo esercizio del potere. Con simili argomenti il parlamento inglese liquidò la dinastia Stuart e chiamò sul trono il principe Guglielmo d'Orange (1688); agli stessi argomenti faranno appello la Dichiarazione di indipendenza americana (1776) e la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino (1789) che decretò, con la Rivoluzione francese, la fine dell' ancien Régime.
Giustizia e civiltà
Il tema della giustizia è al centro del dibattito settecentesco che riprende la teorizzazione inglese dei diritti naturali per fame uno strumento di critica e di lotta contro l'ancien régime. In Voltaire la battaglia per una giustizia senza pregiudizi e privilegi diventa il punto di forza di una battaglia più generale per una società più umana e civile. Su questa linea, temperata da un maggior pessimismo e dalla coscienza cristiana del divario tra giustizia umana e divina, si pone anche la riflessione manzoniana.
Nel XIX secolo la borghesia giunta al potere non ha più bisogno di criticare lo stato delle cose, deve al contrario consolidarlo. Abbandona perciò l'idea dei diritti naturali, che aveva avuto una funzione rivoluzionaria nel Settecento, e afferma una visione radicalmente diversa della giustizia: il suo compito è ora quello di legittimare l'ordine esistente. Unica fonte del diritto è lo Stato e la legge lo strumento per esercitare il potere. Concezione questa che trova la sua espressione esemplare nel Codice napoleonico. L’origine della criminalità è inscritta nel DNA di alcuni individui perversi - sentenzierà poi con Lombroso l'antropologia criminale ottocentesca - e non nella disuguaglianza e nelle ingiustizie sociali che la collettività dovrebbe correggere, come aveva intuito Beccaria. Ciò costringe masse crescenti di diseredati a un confronto negativo con la nuova legge borghese. Mentre aumenta l'aspirazione a una giustizia negata, nell'immaginario europeo si apre un conflitto insanabile tra legge e giustizia. E la "giustizia" è oggetto di denuncia spietata da parte degli scrittori del secolo, da Stendhal a Tolstoj a Verga.
I diritti umani sono infatti interpretati in modo sempre più formale, parziale e strumentale. Sotto il vessillo dell'uguaglianza giuridica possono così avvenire l'impoverimento di masse sempre più ampie di popolazione, la concentrazione della ricchezza in poche mani, i massacri e le conquiste coloniali.
La divaricazione tra diritto positivo e aspirazione alla giustizia si accentua nel Novecento, quando le guerre di sterminio e i lager mostrano l'esempio di uno Stato che può delinquere legalmente, e di cui Kafka sembra preannunciare l'avvento nel Processo. Lo sprofondamento nella barbarie impone però nel secondo Novecento la rinascita di un'idea di giustizia che fa appello a principi morali universali, al di sopra della legge contingente dei singoli Stati. Ma chi deve assicurarla? Come garantire che essa sia a servizio del bene comune? Gli eventi pi' recenti mostrano tra teoria e pratica uno scarto inquietante.
Il caso Jean Calas
Il12 ottobre del 1761, Marcantonio Calas, figlio di un commerciante di religione protestante nella cattolicissima Tolosa, fu trovato impiccato nel magazzino del padre: suicidio o delitto? Questa morte aprì un dilemma giudiziario. L’inchiesta fu falsata fin dall'inizio dalla fiammata di odio contro i protestanti che invase la città. La voce pubblica voleva che Marcantonio desiderasse farsi cattolico e i suoi genitori 1'avessero per questo ucciso. Jean Calas, quasi settantenne, senza prove, e senza una confessione, che la tortura non riuscì a estorcere, fu condannato nel 1762 allo squartamento. Non solo egli morì fra atroci tormenti, ma anche il secondo figlio fu costretto all' esilio, le figlie furono chiuse d'autorità in convento, la moglie rimase sola, senza casa, né pane. Voltaire, sulla base delle contraddizioni emerse nell'istruttoria, si convinse dell'innocenza di Calas, prese in mano il caso e lanciò una campagna per la revisione del processo. Due anni dopo, la sentenza del tribunale di Tolo sa fu cancellata e Jean Calas riabilitato.
Il Trattato sulla tolleranza nasce proprio dal dilemma che conclude la riflessione di Voltaire sul processo: o Calas è colpevole, ed è criminale per fanatismo, o è innocente ed è stato condannato per fanatismo. In ogni caso il pregiudizio religioso è la causa di un delitto.
Da qui parte la requisitoria di Voltaire contro i massacri della storia in nome delle guerre sante e di ogni forma di intolleranza. Quello di Calas non fu un caso isolato. Voltaire prese le difese dell'imputato in altri celebri processi, come quello del giovane Jean-François Lefebre de La Barre, torturato, decapitato e bruciato sotto l'accusa di sacrilegio. A lui si rivolsero anche i servi della gleba della Franca Contea perché ne sostenesse il diritto alla liberazione dalla servitù. Voltaire fu maestro nel trasformare casi clamorosi in affaires, cioè in battaglie per imporre all'opinione pubblica il riconoscimento di principi generali di civiltà. La difesa della tolleranza e della libertà, che anima le sue campagne contro gli errori giudiziari, diventa infatti una chiave di volta nella lotta illuministica contro 1'ancien régime, di cui il sistema giudiziario era l' anello più debole. Braccio destro dell'assolutismo monarchico, esso si rivelava ormai lo strumento atroce e arbitrario di un'ingiustizia sempre più palese e disumana. L’Europa del XVIII secolo presentava infatti condizioni di profonda disuguaglianza e ingiustizia: esistevano ancora i privilegi, di origine feudale, dei nobili e del clero; la legge era applicata con criteri diversi, secondo che si trattasse di un nobile, di un borghese o di un contadino.
Il clero inoltre aveva leggi proprie e propri tribunali. Gli interrogatori si basavano sulla tortura e le condanne a morte venivano eseguite tra orribili supplizi. Tali procedure, prassi normale di una giustizia secolare, indignarono gli intellettuali illuministi che, a partire da concreti casi giudiziari, li denunciarono all'opinione pubblica come crimini contro l'umanità. Essi fecero appello ai cosiddetti diritti naturali (alla vita, alla libertà, all'uguaglianza), diritti innati nella natura umana e perciò sacri e inviolabili da parte di qualsiasi potere. Anche Montesquieu, nello Spirito delle leggi (1748) aveva collegato strettamente il problema della giustizia a quello della libertà. «E neppure vi è libertà, se il potere giudiziario non è separato dal potere legislativo e da quello esecutivo. Se esso fosse unito al potere legislativo, il potere sulla vita e sulla libertà dei cittadini sarebbe arbitrario, poiché il giudice sarebbe al tempo stesso legislatore. Se fosse unito al potere esecutivo, il giudice potrebbe avere la forza di un oppressore». La guerra per l'uguaglianza giuridica, che troverà una solenne sanzione nella Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino (1789) era cominciata, ed era una guerra europea.
Contro la tortura e la pena di morte agli untori
Negli stessi anni in cui vede la luce il Trattato sulla tolleranza anche gli illuministi lomb ardi, Pietro Verri e Cesare Beccaria, sono in prima fila nella battaglia contro gli orrori del sistema giudiziario. L’occasione è ancora 1'analisi di un celebre processo - quello secentesco agli "untori", presunti diffusori della peste del 1630 - che si concluse con la condanna di cinque innocenti al taglio della mano, ad essere squarciati con tenaglie roventi, spezzati sulla ruota e sgozzati dopo sei ore di agonia. Anch'essi vittime del pregiudizio, furono costretti con la tortura a confessare ciò che i giudici e la folla volevano sentire.
Riesumato da Pietro Verri, in possesso del memoriale di un imputato che fu assolto grazie alla ricchezza e al prestigio sociale, il processo rivelò tutta la sua infondatezza innescando un dibattito sulla giustizia vigente. Da qui nascono, anche se pubblicate solo nel 1804, le Osservazioni sulla tortura di Pietro Verri e il trattato di Cesare Beccaria Dei delitti e delle pene (1764).
Nel primo caso l'autore parte dal processo per mettere sotto accusa metodi e procedimenti: contesta infatti non solo la validità della tortura come strumento di accertamento della verità, ma anche, in nome dei diritti naturali, la sua legittimità morale. Beccaria estende una simile argomentazione alla pena di morte. E al rifiuto della tortura («il mezzo più sicuro di assolvere i robusti scellerati e di condannare i deboli innocenti») unisce, coerentemente, il rifiuto della pena capitale. «Parmi un assurdo che le leggi che sono l'espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l'omicidio, ne commettano uno esse medesime e per allontanare i cittadini dall' assassinio ne ordinino uno pubblico». L'argomento morale è inoltre rafforzato, in modo decisivo, dall'argomento utilitaristico: «la pena di morte non ha mai distolto gli uomini determinati dall'offendere la società». L'efferatezza delle pene, l'accanirsi sui corpi fino allo strazio totale, quasi a significare la negazione di una salvezza per l'anima (che non avrebbe potuto riunirsi al corpo nella resurrezione finale) nasceva dalla confusione tra reato e peccato, che induceva il giudice a punire in nome di Dio. Una delle maggiori novità di Beccaria sta proprio nella difesa di un orizzonte laico della giustizia, dove il rapporto si pone «tra uomini e uomini», e non tra «uomini e Dio», e quindi su un piano di uguaglianza. Non solo, ma nel ragionamento ipotetico che mette in bocca a un ladro o a un assassino, Beccaria denuncia le cause sociali della delinquenza. Anticipa così di due secoli il tema moderno della responsabilità dello Stato nei confronti di quei delitti che non ha saputo prevenire. Chi ruba per fame o è comunque costretto dalla miseria a compiere atti criminosi non può essere considerato l'unico colpevole del proprio gesto, ma chiama in causa una responsabilità collettiva. Questo principio, ripreso da Parini (nell'ode Il bisogno), e sottolineato con forza da Voltaire nel suo commento al trattato di Beccaria, solo nel secondo Novecento sarà accolto dai sistemi giuridici più avanzati, anche se spesso non trova una reale applicazione.
La polemica di Manzoni contro Verri
Sempre sul processo agli untori ricade un secolo dopo la sdegnata meditazione del nipote di Beccaria. Alessandro Manzoni nella Storia della colonna infame (1840) riesamina il processo da un punto di vista diverso da quello di Verri, sostituendo alla polemica illuministica una prospettiva nuova, quella cristiana e morale. Pietro Verri guarda all'oscurità dei tempi e alle mostruose istituzioni, individuando nel sistema della tortura la responsabilità della condanna dei cinque innocenti. Manzoni guarda alle responsabilità individuali: anche all'interno del sistema legale allora esistente, sostiene Manzoni, i giudici avrebbero potuto riconoscere l'innocenza degli accusati. Spostato così l'accento dalle responsabilità collettive a quelle soggettive, i giudici e non i pregiudizi del tempo risultano i veri colpevoli dell'ingiustizia. Manzoni fa leva sul libero arbitrio: essi infatti avrebbero potuto non usare la tortura, non ricorrere alla corruzione (l'impunità promessa, forse più della tortura, poté convincere il Piazza ad accusare falsamente altri, come lui innocenti), non lasciarsi accecare dalla pressione dei potenti e della folla, dal bisogno di trovare a tutti i costi un capro espiatorio. Verri denuncia insomma un sistema perché vuole cambiarlo. Manzoni denuncia singoli comportamenti sbagliati. In tal modo sminuisce l'impegno riformista che aveva animato la polemica di Verri, ma solleva un problema scottante per la coscienza moderna. Si può e si deve porre il problema della colpevolezza in un contesto storico e culturale fortemente limitante la possibilità di libera scelta del singolo? Al giustificazionismo storico fecero infatti appello i gerarchi nazisti chiamati, alla fine della seconda guerra mondiale, a render conto dei crimini del regime hitleriano. Ma proprio il riconoscimento del principio della responsabilità individuale permise al tribunale di Norimberga di giudicarli e di condannarli, anche se erano stati zelanti esecutori di un sistema di potere formalmente legale.
Siamo tutti colpevoli
Ben altro discorso, nei Fratelli Karamazov (1879 - 1880), rivolge Mitja ai giudici che lo condannano pur essendo innocente. Fedor Dostoevskij rilancia nel romanzo la riflessione cristiana, e manzoniana, sul rapporto tra giudizio e colpa, tra diritto e morale. Un tema che lo coinvolgeva intensamente e su cui aveva cominciato a meditare durante la deportazione in Siberia. Egli stesso, processato da un tribunale zarista per ragioni politiche, aveva sperimentato il trauma della condanna a morte, commutata all'ultimo momento nei lavori forzati. Vittima di un errore giudiziario, Mitja è condannato per un delitto che non ha commesso, ma si riconosce lo stesso colpevole perché, dato l'odio che nutre verso il padre, avrebbe potuto realmente ucciderlo. Non la pena giuridica interessa Dostoevskij, quanto la colpa che matura nell'interiorità della coscienza, nell'ambito, insondabile per il tribunale, delle pulsioni, delle intenzioni e delle scelte morali. Anche Smerdjakov, il colpevole del delitto imputato a Mitja, che pure sfugge alla giustizia, è costretto a uccidersi spinto dal tormento del rimorso. La legge di Dio precede la legge degli uomini. «La pena giuridica con la quale si punisce il delitto spaventa molto meno il delinquente di quanto pensino i legislatori, poiché già egli stesso moralmente la esige», osserva lo scrittore ricordando gli anni passati tra i forzati di Omsk. Ivan, fratello di Mitja, a sua volta si auto denuncia perché si ritiene responsabile, con le sue idee sul «tutto è permesso», del gesto omicida di Smerdiakov. Chi è il vero colpevole? Mitja, e con lui Dostoevskij, dà una risposta radicale: «siamo tutti colpevoli». Di fronte al problema del male, della fame e della sofferenza degli innocenti la colpa diventa infatti collettiva. Con questo, Dostoevskij non intende certo scagionare l'individuo, ma caricarlo di un doppio fardello nella sua ricerca della giustizia e della verità. Sul piano di un socialismo cristiano, cioè di un impegno attivo per l'uguaglianza reale degli uomini, presupposto di una vera fratellanza, lo scrittore cerca una risposta anche alla questione sociale. Un fantasma che agitava allora le campagne della Russia, come i campi e le officine d'Europa.
Processo alla giustizia
Mentre Dostoevskij scandaglia le cause della colpa negli abissi del cuore e recupera la condanna, anche ingiusta, sul piano morale dell'espiazione della malvagità che l'uomo ha in sé, in Kafka il giudizio e la colpa restano inesplicabili. Al contrario di Mitja poco prima di morire, nella grandiosa scena della cattedrale, Joseph K., il protagonista del Processo, ribadisce al cappellano del tribunale la propria innocenza e quella di tutti gli uomini: «Ma io non sono colpevole», «È un errore. Come può mai essere colpevole un uomo?» ... «È giusto», disse il sacerdote, «ma è proprio così che parlano i colpevoli». Kafka inizia la sua ricerca a partire dalla lettura di Dostoevskij e, attraverso i racconti La condanna, Nella colonia penale e il frammento Davanti alla legge, approda alla sconcertante allegoria del Processo. Composto negli anni della prima guerra mondiale, il romanzo è l'atto di accusa più spietato e implacabile che sia stato mai pronunciato contro l'immensa macchina dell'apparato giudiziario. Joseph K., non a caso ridotto a una sigla, non sa le cause del suo arresto, né le saprà mai, nemmeno quando due misteriosi sicari lo pugnalano a morte in una squallida periferia. Esecuzione sommaria, ma ineluttabile, decisa da una legge inaccessibile e, agli occhi degli uomini, arbitraria. Il carattere di complessa ed enigmatica allegoria del romanzo, comunque questa si voglia interpretare, non offusca l'immagine da incubo di una giustizia corrotta e inesplicabile, di una perversione del diritto, che distrugge inesorabilmente l'individuo che ha la sventura di cadere nella sua rete. Un presagio profetico, secondo il critico Adorno, della burocrazia di morte dei campi di sterminio nazisti? O delle ricorrenti cacce alle streghe? O, più in generale, dell'orrore dell'immensa, disumanizzante macchina dello Stato burocratico moderno? In questa chiave il romanzo è una testimonianza inesorabile e un energico richiamo alla responsabilità.
Il potere come complotto nel romanzo nel Novecento
Nello Stato moderno sembra ricomporsi la rottura tra potere e società civile, che si era consumata con la crisi del governo comunale. Ma il trionfo della burocrazia, legato all'avvento della società di massa nei primi decenni del Novecento, apre un capitolo nuovo nella gestione e nella rappresentazione del potere. :L’amministrazione dello Stato si è fatta più complessa, aumenta il bisogno di disciplina, si ampliano i servizi. Tutto ciò esige la creazione di una macchina burocratica onnipotente e impersonale, ispirata a criteri puramente tecnici, indipendente dai gruppi stessi che si alternano al governo.
Il potere assume nella narrativa di Kafka un volto minaccioso e invisibile. Il proprietario del Castello, il giudice del Processo, o chi abita il palazzo della Legge sono inaccessibili. Sottratto alla volontà e all'azione dell'individuo, il potere appare incomprensibile e assurdo, generando impotenza e angoscia.
Soprattutto negli ultimi decenni l'attenzione degli scrittori converge ossessivamente sul tema del potere. La questione è resa attuale dai moderni processi d'identificazione tra potere politico, potere economico e culturale che, concentrando ogni decisione in poche mani, condizionano a livello mondiale !'informazione, la politica, la vita dei popoli. Ne consegue la crescente estraneità della politica alla vita dei cittadini e la sua separazione da ogni controllo sociale. Da una parte, grazie a mass media sempre più sofisticati, tutto sembra svolgersi alla luce del sole, i meccanismi democratici sembrano garantire una società "trasparente". Dall'altra, i cittadini percepiscono il potere come realtà lontana che opera nell' ombra, come trama segreta e nemica. Gli scrittori condividono questo stato di disagio e di esclusione dell'uomo comune, per cui la politica assume le forme del complotto o addirittura del terrorismo contro la comunità.
Tra i narratori italiani, Leonardo Sciascia si distingue per la continuità con la quale, a partire dagli anni Settanta, ha esplorato questo tema. Dalla rappresentazione del fenomeno del potere mafioso in Sicilia egli ha allargato l'ambito della diagnosi alle strutture moderne del potere. In Todo modo (1974), come già nel Contesto (1971) o più tardi nei Pugnalatori (1976) e in Una storia semplice (1989), misteriosi delitti rimandano a una macchinazione più vasta, che implica un torbido intreccio tra economia, politica, interessi privati, coperture ideologiche.
Vero e proprio apologo del potere, di un potere occulto parallelo a quello palese, Todo modo è apparso come la profezia degli oscuri e tuttora impuniti assassini politici dell'Italia degli anni Settanta.
Un "quarto potere" infine si è andato sempre più affermando nella società contemporanea, con il prepotente sviluppo della trasmissione di immagini e con l'uso, nell'attuale era digitale, di nuovi mezzi elettronici di riproduzione. La recente irruzione del terrorismo internazionale sulla scena dei media ha mostrato quale ruolo possano avere le im-magini nel potenziamento dell'effetto choc degli eventi. L’immediatezza e la globalizzazione della loro diffusione hanno posto come mai prima il problema del potere delle immagini e di una loro consapevole gestione.
Giustizia e legalità
Se la letteratura, dal Settecento in poi, smaschera le forme storiche del diritto, nel Novecento l'antinomia tra giustizia come valore e ingiustizia reale si approfondisce ulteriormente. Eppure il Novecento non è solo il secolo dei totalitarismi; è anche il secolo della democrazia, dell'ampliamento dei diritti civili e politici dì origine ottocentesca, della conquista di diritti nuovi: i diritti sociali. Come la storia insegna, l'ambito dei diritti è un processo in espansione, anche se non lineare. Dipende dal cambiamento delle condizioni economiche e sociali, dalla presa di coscienza collettiva di nuovi soggetti (le classi lavoratrici, le donne, i popoli oppressi), dal mutare dei sistemi politici. Lo stesso diritto alla vita, che già figurava tra i settecenteschi "diritti naturali", ed è stato ripreso dall' articolo 3 della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo. Da semplice principio etico si è concretizzato in una serie di rivendicazioni precise: diritto al lavoro, alla salute, all'istruzione, all' ambiente. Tra questi, alcuni sono diventati leggi dello Stato.
Un programma puramente teorico? Il godimento reale di tali diritti trova in effetti grossi ostacoli, tanto più oggi in cui, dopo i progressi compiuti negli anni Sessanta-Settanta, interessi privati e corporativi tendono a prevalere sul bene comune, provocando nuove povertà e nuove ingiustizie. La globalizzazione dei mercati è infatti più rapida di quella dei diritti e spesso in contrasto con questi. La situazione reale del nostro tempo è perciò molto lontana dal modello di uomo e di comunità internazionale delineata mezzo secolo fa dalla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, in parte ribadita dalla recentissima Carta europea (1999). Da una parte si avverte il bisogno di rifondare la società su basi più giuste, dall'altra la giustizia appare un bene lontano e irraggiungibile. Proprio per questo attrae in modo ossessivo gli scrittori. I brani scelti illustrano da due punti di vista diversi questa problematica.