La morte di Socrate fu per Platone anche lo stimolo più forte a passare dall'impegno filosofico all'impegno politico, ponendo però alla base della politica (contro la prassi sofistica) la stessa filosofia. Questo passaggio è attestato in modo sicuro dalla Lettera VII, in cui Platone ripercorre i suoi tentativi (falliti) di far costruire uno Stato secondo filosofia in Sicilia, e ribadisce le persuasioni in lui maturate dall'esperienza e dalla riflessione.
A configurare uno Stato secondo filosofia, però, l'insegnamento di Socrate non bastava, a parte l'indicazione essenziale della competenza necessaria a governare, che appunto condusse Platone a pensare che solo i filosofi ne fossero capaci. La filosofia di Socrate era per sua stessa impostazione "inconcludente": un chiarimento necessariamente senza conclusione, che però poteva sembrare incapacità di "passare al concreto". È proprio questo che Platone nel Clitofonte gli fa rimproverare da un discepolo; ed è su questo che egli "superò" l'insegnamento di Socrate con una sua precisa proposta politica.
Di questa proposta e, soprattutto, delle sue ragioni, la Repubblica (Politèia, lo Stato) è l'elaborazione. Il dialogo si svolge tra Socrate e suoi vari amici, tra cui dei familiari di Platone (infatti, anche se l'autore non figurerà mai nel dialogo, compariranno Glaucone e Adimanto suoi fratelli). Il suo punto di partenza è ancora la sofistica, con le sue posizioni sulla giustizia, rappresentate da Trasìmaco: questi sostiene che la giustizia (e le leggi) sono l'utile del più forte; Socrate gli contrappone i rilievi già opposti a Polo e a Callicle: che la tesi torna a danno di chi la sostiene, che il compito proprio della politica è la giustizia, che senza essa la società non può sussistere, e che solo chi la pratica realizza veramente se stesso (libro I).
Ma si tratta di una difesa della giustizia per i suoi effetti, non per il suo valore in sè; perciò l'esame è ripreso "in grande" sul modello dello Stato: ma sul presupposto che c'è una corrispondenza profonda tra Stato e uomo, tale che la giustizia dell'uno si fonda su quella dell'altro. Lo Stato nasce dall'insufficienza degli individui, e per sopperire ai loro bisogni si sviluppano le attività produttive, si formano le classi sociali, e si stabiliscono le funzioni di governo. Il principio -su cui poi si sviluppa la stessa nozione di giustizia- è che ciascuno deve fare ciò che ha attitudine a fare: di qui scende che nello Stato ognuno deve operare nella classe che corrisponde alle sue capacità e che per i custodi dello Stato occorrono virtù specifiche di corpo e di animo (libro II).
Queste si fondano sulla natura, ma si rivelano e si consolidano solo in virtù dell' educazione; e poiché la natura umana è tanto plastica quanto influenzabile, l'educazione deve essere tempestiva ed estremamente accorta ad ogni circostanza che possa influire sulla formazione dei custodi. Questa va fondata sulla cultura, la musica e la ginnastica; e perciò nulla in esse va ammesso (né nei contenuti né nelle forme) che possa lasciare tracce incongrue con la personalità dei custodi, soprattutto dal punto di vista morale; essi, in particolare, sono i custodi della comunità, e per questo devono rinunciare ad ogni interesse personale (libro III).
La considerazione delle virtù necessarie allo Stato risulta la base per la definizione della giustizia. La sapienza dei governanti rende lo Stato sapiente; il coraggio dei custodi lo rende coraggioso; a renderlo temperante, invece, non basta la temperanza dei produttori, ma occorre quella di tutti i cittadini; e così, è dalla convergenza delle virtù che nasce la giustizia, la quale consiste nel fare ciascuno ciò che gli compete, e quindi nel rispettare la gerarchia delle funzioni. E ciò che vale per lo Stato vale per l'anima, le cui funzioni (facoltà) corrispondono esattamente a quelle dello Stato (libro IV).
Il modello di Stato proposto ha tuttavia degli aspetti apertamente contrastanti con l'esperienza: uno è il comunismo dei beni, l'altro il comunismo delle donne (o meglio delle famiglie). A difesa di quest'ultimo Platone porta l'uguaglianza di attitudini di uomo e donna, che comporta le stesse funzioni e la stessa educazione; a difesa di entrambi, la necessità, perché lo Stato sussista, che i governanti e i custodi non abbiano alcun interesse personale, come la proprietà e la famiglia, invece, comporterebbero. Ma si tratta di paradossi, sempre meno urtanti della proposta di attribuire il potere ai filosofi, in quanto detentori della capacità di capire la vera realtà - anche quella dello Stato (libro V).
A giustificare questa proposta, Platone delinea la personalità del filosofo non solo come teorico, ma anche come uomo pratico. Come teorico, egli sa andare al di là delle molteplici apparenze del divenire (che generano ignoranza o opinione) e cogliere la realtà delle forme dell'essere presenti in esse; come uomo pratico, è dotato di tutte le virtù che discendono dalla conoscenza della verità e del bene. Se l'esperienza presenta un'immagine diversa del filosofo, è perché l'intero corpo sociale è corrotto; e per correggerlo occorre appunto una modificazione di principi, che solo la filosofia può dare. Nel Bene, infatti, il filosofo coglie la ragion d'essere di ogni realtà, realizzando così una comprensione superiore a quella delle scienze, che pure ne costituiscono la base.
Come le cose sensibili dalla luce, così le cose intelligibili sono rese visibili dal Bene, che è quindi fondamento della conoscenza e della verità. Il Bene qui ha un significato non etico ma ontologico (come chiarisce il paragone col sole "fonte di vita"); è cioè fonte di perfezione, per cui tutte le cose hanno esistenza, struttura e qualità, il che appunto le rende conoscibili. Mantiene tuttavia anche un senso etico ed estetico, che si esprime dicendo che è bene che ogni cosa sia ciò che è; come vedremo, questa valutazione secondo Platone fa parte integrante della vera scienza (cfr. Timeo). Come il sole, peraltro, il Bene non si esaurisce nella perfezione delle cose, ma se ne distingue come la fonte di essa. In ciò consiste la sua trascendenza ("divina superiorità"): come tale, esso sfugge ad una completa conoscenza e rimane ineffabile. Questo Carattere sarà colto e sviluppato soprattutto dal neoplatonismo, che peraltro identificherà il Bene con Dio, da cui invece Platone lo tiene distinto come modello del suo agire (cfr. Timeo).
-Ricordi, risposi, che, dopo aver distinto le tre parti dell'anima, ne abbiamo dedotto in che cosa consistano la giustizia, la temperanza, il coraggio, la sapienza? (d) - È questo il vertice della conoscenza, o c'è qualcosa di più alto della giustizia e delle altre virtù menzionate? (505a) -L'avrai sentito dire mille volte, che la conoscenza più alta è l'Idea del bene, e che da essa traggono il proprio valore le altre virtù. E sapevi che volevo dir questo, e anche che di essa non abbiamo conoscenza sufficiente, e tuttavia senza di essa nessun'altra conoscenza vale, così come non vale nessun possesso, senza il Bene. (b) O pensi che ci sarebbe vantaggio a possedere qualcosa, se non è buona, o a conoscere qualcosa senza conoscere il Bene, senza cioè capire cos'è buono e cos'è bello? -Per Zeus, no che non lo penso!, esclamò. -E sai anche che i più credono che il bene consista nel piacere, mentre i più dotati di intelligenza credono che consista nella conoscenza. -Come no! -E nemmeno ignori che questi ultimi non sanno spiegare in che cosa consista questa conoscenza, e messi alle strette alla fine devono dire che consiste appunto nella conoscenza del bene. -Ed è proprio una cosa strana, (c) disse. -Eh sì, perché si riferiscono al Bene come se noi dovessimo capirli solo perché ne pronunciano il nome. -È vero, disse. -E non perdono il filo anche quelli che definiscono il bene come piacere? Perché anche loro sono costretti ad ammettere che alcuni piaceri sono cattivi. -Come no?, disse. (d) -In ogni caso, i problemi relativi al bene sono numerosi e difficili. - È vero. (507a) -E allora, affermai, ne parlerò solo dopo avervi ricordato quel che è stato detto prima e in molte altre occasioni. (b) Che cosa?, domandò.
-Noi diciamo che vi sono molte cose belle, e molte cose buone, e le distinguiamo razionalmente, così come molte altre cose del genere. - Sì, lo diciamo. -E diciamo anche che c'è il bello in sé, il buono in sè, e così per tutte le cose che prima abbiamo considerato molte: diciamo cioè che a tutte corrisponde un'idea unica, in relazione alla quale appunto diciamo di ciascuna cosa "ciò che è". - È così. -E le cose molteplici diciamo che vengono vedute, ma non pensate; e le idee, invece, che vengono pensate, ma non vedute. (c) -Certo. -E con quale facoltà noi vediamo le cose che si vedono? -Con la vista, disse. -E con l'udito le cose che si odono, e con gli altri sensi le cose che si sentono. -Ovvio. -E non hai mai osservato, chiesi, quanto più preziosa di ogni altra l'artefice dei sensi abbia formato la facoltà di vedere e di essere veduto? - Non troppo, ammise. -Pensaci allora: l'udito e la voce hanno forse bisogno di qualcos'altro per udire ed essere udita, di qualcosa cioè (d) mancando il quale uno non udrà e l'altra non sarà udita? -No, affatto, disse. -E nemmeno, mi pare, gli altri sensi. O no? No, confermò. -E non pensi invece che la facoltà di vedere e di essere visto ne abbia bisogno? -Cioè? -Anche se la vista è negli occhi e i colori nelle cose, sai bene che la vista non vedrà e i colori non saranno veduti, se non si aggiungerà un terzo fattore, (e) che serve proprio a questo scopo. -E cos'è questo terzo fattore?, chiese. - È quella che chiami luce, risposi. - È vero, disse. (508a) -Fattore più di ogni altro prezioso. -Veramente prezioso, ammise. -E quale degli dei del cielo fa questo? - È chiaro quello che devo dire: il sole. -Ebbene, la vista non ha con questo dio un particolare rapporto? -Quale? -La vista non è il sole, né essa né ciò in cui si forma, (b) cioè l'occhio. - È vero. -Ma di tutti gli organi di senso, credo, l'occhio è il più vicino al sole. -Molto. -E la facoltà che ha, non gli deriva e quasi fluisce dal sole? -Proprio così, disse. - E d'altra parte neanche il sole è la vista; però, essendo causa di essa, è da essa veduto. - È così, disse.
-Ebbene, conclusi: (c) il sole nel mondo visibile, in rapporto alla vista e agli oggetti visibili, è quello che è il Bene nel mondo intelligibile, in rapporto all'intelligenza e alle realtà intelligibili. -Come?, domandò. Spiegamelo ancora. -Lo sai, ripresi, che gli occhi, quando si volgono a cose non illuminate dalla luce del giorno ma dagli astri della notte, hanno una visione offuscata e sono quasi ciechi, come se la loro vista non fosse pura. -Certo, disse. (d) -E quando invece si volgono a cose illuminate dal sole, vedono con chiarezza e la loro vista risulta pura. -E allora? -Pensa che sia così anche per l'anima. Quando si volge a ciò che è illuminato dalla verità e dall'essere, lo comprende e lo conosce, e risulta dotata di intelligenza; quando invece si volge a ciò che è pieno d'ombra, a ciò che nasce e perisce, non può che opinare, e vede oscuro e muta opinione, e risulta priva di intelligenza. -Così risulta, in effetti. (e) -Ebbene: ciò che illumina di verità le cose conosciute e dà all'anima la facoltà di conoscerle, di' che è l'Idea del Bene. Essa è dunque principio di conoscenza e di verità, che sono belle; e perciò puoi ritenerla a ragione ancora più bella. E come la luce e la vista vanno considerate vicine al sole (509a) ma non sono il sole, così conoscenza e verità vanno considerate vicino al Bene ma non sono il Bene: questo va posto ancora più in alto. Straordinaria bellezza, questa che dici, se è principio di conoscenza e di verità, ma le supera. Non si tratta dunque del piacere! -Taci!, esclamai, e segui ancora il paragone. (b) -E come? - Sarai d'accordo, penso, nel dire che il sole fornisce alle cose visibili non solo la possibilità di essere vedute, ma anche vita, sviluppo e nutrimento, pur non essendo esso né vita né sviluppo. -E come no? -E allora, allo stesso modo dirai che le cose conoscibili non ricevono dal Bene solo la possibilità di essere conosciute, ma anche l'essere e l'essenza, pur non essendo il Bene essere ed essenza, ma qualcosa di più alto in dignità e potenza. (c) -Per Zeus, esclamò comicamente Glaucone, che divina superiorità! (d)
La distinzione tra mondo sensibile (molteplice, diveniente, apparente) e mondo intelligibile (unico, immobile, reale) è il presupposto di fondo della concezione platonica della filosofia; bisogna guardarsi però dall'intenderla come una separazione radicale, che, come vedremo, renderebbe inspiegabile la struttura del mondo e impossibile la conoscenza di esso. Con la distinzione, Platone pone anche una continuità tra i due mondi, suggerita dalla stessa immagine della linea che ne illustra la struttura. In questa immagine, l'aspetto più suggestivo è certo la diseguaglianza delle parti; non semplice da intendere, essa in ogni caso attesta un rapporto inverso tra estensione e intensità della conoscenza: così, si può dire che la paIte sensibile è più vasta, ma meno vera; o, viceversa, che la parte razionale è più profonda, ma meno varia. Nel mondo sensibile, va notato, si configura l'alternativa di verità e falsità, che Platone si pose nel Sofista.
-Insomma, continuai, pensa che ci siano due principi, e che l'uno domini il genere e il mondo intelligibile, l'altro quello visibile. Hai ben colto queste due specie di realtà? -Le ho colte. -Allora, prendi una linea divisa in due parti disuguali, e dividi ancora ciascuna di esse -quella del genere visibile e quella del genere intelligibile- in due parti, secondo la stessa proporzione. Se poi consideri le due parti del genere visibile (e) secondo la rispettiva chiarezza e oscurità, avrai una prima sezione, che dico delle immagini. (5l0a) E per immagini intendo in primo luogo le ombre, in secondo luogo i riflessi, sia sull'acqua che sui corpi lisci e lucidi, e infine tutte le altre del genere. Mi segui? -Ti seguo. -Nell'altra sezione poni le cose cui si riferiscono le immagini, e cioè gli animali che ci circondano, i vegetali e tutti i prodotti dell'uomo. -Va bene. -E non diresti che questa parte si divide in vero e falso, e che le immagini stanno alle cose cui corrispondono come l'oggetto dell'opinione sta all'oggetto della conoscenza? (b) -Sì, lo direi. -Considera allora in che modo si debba dividere la parte dell'intelligibile. -In che modo? -Questo: che la sua prima sezione l'anima sia costretta, per indagarla, a servirsi, come di immagini, delle cose cui, nella parte precedente, le immagini corrispondevano, passando, per via di ipotesi, non su verso il principio, ma verso le conclusioni; e che la seconda invece l'anima proceda a indagarla risalendo dalle ipotesi a un principio non ipotetico, senza servirsi, come nella prima, di quelle immagini, ma soltanto con le idee e per mezzo delle idee. -Quest'ultimo punto, disse, non l'ho capito bene. (c)
Nell'ambito dell'intelligibile, Platone distingue due forme qualitativamente diverse di conoscenza, con cui identifica la scienza e la filosofia: la prima tenta di cogliere l'intelligibile servendosi di immagini, e lo assume come un dato da cui ricava altre conoscenze, ma di cui non individua il fondamento; la seconda si serve di questi dati per risalire a lloro fondamento, oltre al quale non è possibile risalire appunto perché è il fondamento di tutto. Detto altrimenti: la conoscenza "per ipotesi" prende i principi delle cose ma non ne ricerca la ragione; la conoscenza "senza ipotesi" questa ragione la coglie: ed è, come si è accennato, il Bene.
-E allora cominciamo di nuovo, premettendo alcune considerazioni per facilitarti. Tu sai senz'altro che chi si occupa di geometria, di aritmetica e di altre questioni del genere, dà per scontato il pari e il dispari, le figure e i tre tipi di angoli e altre cose del genere, a seconda della scienza che studia, e le assume come ipotesi, e non ritiene più necessario discuterle né con sè né con altri, (d) prendendole come principi evidenti per tutti, e partendo appunto da tali principi, passa a trattare le altre questioni, ricavando di conseguenza in conseguenza la conclusione che si era proposto. -Questo lo so bene, disse. -E allora sai anche che si servono di figure visibili e su esse sviluppano delle dimostrazioni, ma non si riferiscono a queste figure, bensì alle cose cui esse somigliano: per esempio, discutono del quadrato in sè, della diagonale in sè, e non del quadrato, della diagonale o della figura (e) che stanno tracciando; di queste figure, si servono come immagini per giungere a cogliere altre realtà, (511a) che sono in sè e per sè e che non si possono cogliere che con l'intelligenza. -È vero, disse. -Questo genere di realtà, che io ho detto intelligibile, l'anima, per indagarlo, è costretta a servirsi di ipotesi, non per giungere al principio, perché oltre le ipotesi non può andare, ma usando come immagini di quegli oggetti che nell' altra parte della linea corrispondono alle immagini, ma che, rispetto a quelle immagini, sono considerati come realtà. (b) Capisco, disse, ti riferisci alla geometria e alle scienze ad essa affini. -Sappi allora che l'altra sezione dell'intelligibile è per me quella che la ragione stessa coglie in virtù della propria attività dialettica, considerando le ipotesi non come principi ma per quello che sono, ossia come punti di partenza e di appoggio per giungere a ciò che non è più un'ipotesi, il principio di tutto; e raggiunto questo, e tenendosi ferma a ciò che da esso deriva, discende alle ultime conclusioni, (c) senza ricorrere mai ad alcuna elemento sensibile, ma soltanto alle Idee in sè e per sè, passando dall'una all'altra e concludendosi in un'Idea. –
La distinzione delle forme della conoscenza (e, corrispondentemente, della realtà) si articola (come porzioni della linea) in quattro gradi: congettura (eikasìa), credenza (pìstis), ragione (diànoia) e intelletto (nous). Essi individuano essenzialmente quattro livelli di certezza: i primi due riguardano l'esperienza non scientifica, ma distinta o meno da un ordine; gli altri due la conoscenza scientifica, distinta però dall'avere o meno una "ragione ultima". Con quest'ultima distinzione, Platone rivendica una superiorità di natura della filosofia sulla scienza, il cui senso egli ribadirà nel Fedone, ed ha naturalmente un fine politico.
-Capisco, disse, ma non del tutto, perché tu parli, mi pare, di un'attività estremamente complessa: tu vuoi dire, mi pare, che quella conoscenza dell'essere in sè e dell'intelligibile che si ottiene con la scienza dialettica è più chiara di quella che si ottiene con le altre scienze, che si basano su ipotesi; perché anche quelli che cercano di conoscere gli oggetti di queste scienze sono costretti a condurre la loro indagine non con i sensi ma coll'intelligenza, ma lo fanno non risalendo al principio (d) ma partendo da ipotesi, e perciò a te sembra che di tali oggetti essi non possano avere conoscenza piena, anche se sarebbero intelligibili, una volta ricondotti al loro principio. E mi pare che quella di chi si occupa di geometria e di altre scienze del genere tu la chiami ragione non intelletto, e la consideri a metà tra l'opinione e l'intelligenza. -Hai capito benissimo, esclamai. E ora, fai corrispondere a ciascuna delle quattro sezioni una funzione dell'anima: a quella più alta l'intellezione, alla seconda la ragione, (e) alla terza la credenza, alla quarta la congettura; e sistema poi il tutto per ordine di chiarezza, tenendo presente che ne hanno tanto più quanto più il loro oggetto partecipa alla verità. Capisco, disse, e sono d'accordo a ordinarle come dici.(libro VI).
La possibilità di approdare allo Stato "ideale" dalle condizioni della vita normale si concreta in una metafora della condizione umana: il "mito della caverna". Data la complessità del tema, per chiarire ulteriormente il pensiero platonico riguardo alla conoscenza, viene fatto ricorso al mito: all'interno di una caverna stanno, incatenati sin dalla nascita, alcuni uomini, incapaci di vederne l'entrata; alle loro spalle arde un fuoco e, tra il fuoco e l'entrata della caverna, passa una strada con un muretto che funge da schermo; per la strada passano diversi uomini, portando sulle spalle vari oggetti che proiettano le loro ombre sul fondo della caverna. Per i prigionieri le ombre che vedono sono la realtà; se uno di essi fosse liberato e costretto a voltarsi e ad uscire, in salita, dalla caverna, sarebbe abbagliato dalla luce e proverebbe dolore; tuttavia, a poco a poco si abituerebbe, potrebbe vedere i riflessi delle acque, poi gli oggetti reali, gli astri ed infine il sole. Tornando nella caverna dovrebbe riabituare gli occhi all'oscurità e sarebbe deriso dai compagni qualora provasse a raccontare ciò che ha visto. Con questo mito Platone spiega la sua teoria delle idee, secondo cui la realtà sensoriale è paragonabile alle ombre che i prigionieri vedono sul fondo della caverna, mentre esiste in qualche luogo fuori dal tempo e dallo spazio il "reale" che altro non è che "l'idea" (εἶδος).
In questo mito, viene inoltre descritto il processo conoscitivo come un'ascesa abbastanza difficile e comunque graduale: prima l'opinione, identificata nelle ombre sfocate, poi gli oggetti che fanno parte del mondo sensibile, poi i riflessi, identificabili con la matematica, fino ad arrivare alla conoscenza dell'idea del Bene che illumina tutte le altre (nel mito, è il sole).
La difficoltà del passaggio, viceversa, accentua l'importanza dell' educazione per i custodi, e la necessità di dare alloro sapere un'impostazione diversa da quella corrente, che li renda capaci di "vedere" la vera realtà. Il sapere corrente, infatti, ha sempre una finalità pratica, che lo lega alla realtà empirica; il sapere su cui si deve formare il filosofo deve invece essere disinteressato e puro: esso si fonderà quindi soprattutto sulle scienze matematiche, e si svilupperà con una lunga pratica della dialettica (la conoscenza delle idee e dei loro rapporti tra loro e col Bene), e solo a cinquant'anni, compiutamente formato, potrà esercitare il potere (libro VII).
Il modello dello Stato "in Idea" può trovare una conferma nell'analisi degli Stati storicamente esistenti e dei tipi d'uomo che, col loro costume, ne spiegano le vicende: dallo Stato aristocratico, a quello timocratico, a quello oligarchico, a quello democratico, a quello tirannico, è una vicenda di decadenza, dovuta alla mancanza di una cultura che possa distinguere il bene e alla prevalenza delle passioni, che soffocano le virtù (libro VIII). Il peggiore è lo Stato tirannico, dove il desiderio di autoaffermazione genera ogni perversione; esso, per contrasto, comprova che solo lo Stato ideale è giusto, e che solo il filosofo è giudice della sua perfezione (libro IX).
Questo porta a ribadire che l'influenza dell'arte deve essere controllata non solo nei contenuti e nelle forme, ma soprattutto in quanto, per la sua stessa natura (che è di proporre imitazioni delle realtà empiriche) essa minaccia di allontanare l'anima dalla visione della vera realtà, in quanto la tiene legata alle apparenze e ne stimola la parte irrazionale, non la ragione. Ma, contro ogni influenza, una scelta, anche radicale, di vita e di destino è possibile: così si chiude la Repubblica, con il richiamo alla responsabilità contenuto nel mito di Er, che ha visto come le anime scelgono il loro destino.
Er era un guerriero morto in battaglia, il cui cadavere venne recuperato dopo dieci giorni ancora incorrotto; poco prima del rogo funebre, il cadavere si risvegliò e prese a narrare cosa aveva visto. Uscita dal corpo, l'anima era arrivata nel mondo delle idee, in un luogo dove vi erano quattro voragini, due in cielo e due in terra; in mezzo sedevano dei giudici che, giudicata ogni anima, indirizzavano i giusti per la voragine destra del cielo e gli ingiusti per quella sinistra della terra; dalle altre voragini affluivano altre anime, sporche e lacere da sottoterra, linde e pulite dal cielo. Le anime si scambiavano notizie sui fatti del mondo, mentre Er veniva informato che, dopo la morte, si trascorreva un periodo pari a dieci volte la propria vita a scontare il decuplo delle pene commesse o a gioire per il decuplo del bene fatto.
Le anime che dovevano reincarnarsi venivano condotte in un altro luogo dove avrebbero dovuto scegliere il modello della vita desiderata, tra i tanti che giacevano per terra. I paradigmi erano di vite umane ed animali, e ciascuno sceglieva secondo le inclinazioni della vita precedente; l'ordine di scelta era deciso a sorte. Successivamente, le anime confermavano la loro scelta e la trama del destino era filata. Parlando di questa scelta, Socrate precisa che solo la filosofia permette di scegliere una vita giusta e felice.
Le anime erano quindi condotte sulle rive del fiume Lete. Chi beveva dimenticava completamente la vita precedente, mentre i filosofi, guidati dalla ragione, non bevevano: in tal modo, mantenevano il ricordo, solo un po' attenuato, del mondo delle idee, da rievocare poi durante la nuova vita grazie agli studi. Con questo mito Platone riassume completamente il suo pensiero: il mondo sensibile è solo un riflesso del mondo delle idee che solo il filosofo con lo studio e la cogitazione può arrivare a contemplare; l'idea massima è l'idea del bene in sé che illumina tutte le altre cose; l'uomo è formato da due entità distinte: il corpo, mortale, e l'anima, immortale, che reincarnandosi produce, nel filosofo, un ricordo del mondo delle idee. La conoscenza è, quindi, ricordo, reminiscenza del tempo passato a contemplare le idee (libro X).
Nel suo complesso sviluppo di temi, la Repubblica è stata sempre riconosciuta come uno dei capolavori del pensiero filosofico e politico, ma è stata anche uno dei più discussi. Non c'è stata una delle sue tesi caratteristiche che non sia stata respinta o giudicata astratta e improponibile: dalla divisione della società in classi, configurate come caste, al comunismo dei beni e delle famiglie, criticato come contrario alla natura umana, ai sistemi di educazione, giudicati insieme eccessivi e parziali, alla valutazione limitativa dell'arte, giudicata contraddittoria, all'attribuzione del potere ai filosofi, giudicata fantasiosa e peregrina, all'accusa complessiva di aver delineato uno stato chiuso, contrario agli stessi principi della ricerca.
Tutte queste critiche, fondate sulla lettera della Repubblica, non tengono conto del fatto che le proposte discusse sono quasi sempre risposte volutamente paradossali di Platone a precise circostanze storiche (ad esempio, il comunismo come rimedio all'interferenza delle grandi famiglie nella vita dello Stato). Esse hanno però un senso filosofico e politico di fondo, che Platone indica proprio segnalandone i limiti, quando le qualifica come utopie: ciò significa che esse non vanno intese come proposte realistiche o da realizzare, ma come norme, cioè principi ideali cui far riferimento e da commisurare con la realtà, sia per far sussistere lo Stato sia per modificarlo.