Così venne chiamato Eraclito, nato e vissuto a Efeso tra il VI e il V secolo a.c.
I contemporanei lo definirono anche "l'oscuro" per lo stile lampeggiante della sua opera (Sulla natura), composta, a quanto pare, di brevi sentenze o aforismi dal contenuto arduo, allusivo ed esoterico, cioè riservato a pochi eletti.
Questo tono aristocratico e a tratti solenne corrispondeva del resto alle origini familiari di Eraclito, che apparteneva a una stirpe aristocratica e avversò aspramente il partito democratico, quando esso prese il potere. Si era nel 479 a.c. Dopo la grande vittoria di Maratona, le colonie greche dell'Asia Minore, come Efeso, proclamarono la loro indipendenza dai persiani, rovesciando il partito aristocratico (che con i persiani aveva antichi legami) e instaurando la democrazia, sul modello della vincitrice Atene.
Eraclito visse da allora appartato e sdegnoso, dedicandosi alla sua opera, della quale ci rimangono numerosi frammenti. La sua fama di sapiente si diffuse infatti in tutta la Grecia ed esercitò a lungo una profonda influenza. Egli è di fatto uno dei più grandi maestri presocratici e i suoi pensieri non hanno mai smesso di stimolare, nei secoli, la riflessione filosofica.
Il problema centrale di Eraclito è quello dei contrari e del divenire di tutte le cose. In questo senso egli sembra muoversi nella stessa direzione di Anassimandro, del quale è possibile abbia subito l'influenza, ma la sua visione porta a conclusioni opposte. Lo stesso dovrebbe dirsi a proposito del suo contemporaneo Parmenide, ma in questo caso è assai più problematico immaginare reciproche influenze.
Abbiamo visto che per Anassimandro la lotta dei contrari, donde si genera il divenire (il caldo contro il freddo, il secco contro l'umido e così via), comporta un'ingiustizia e una disarmonia nei confronti del divino principio; ingiustizia di cui i contrari pagano il fio secondo la legge del tempo.
Per Eraclito, invece, la lotta dei contrari è l'essenza stessa del principio, dell'arché, ed è la legge universale della vita. La vita infatti è tensione di opposti e questa tensione, attraverso la continua ed eterna vicenda del divenire, è generatrice di ogni cosa. Per questo egli dice che «il conflitto (pòlemos) è padre di tutte le cose e di tutte le cose è re».
Lungi dal vedere nel contrasto e nella lotta un'ingiustizia e una disarmonia, Eraclito vi scorge una più profonda armonia e una legge superiore. Superiore al punto di vista dei contrari, che è parziale e perciò poco saggio. Saggio è invece comprendere che l'intera vicenda che oppone i contrari realizza sia la loro stessa esistenza (nessuno di loro potrebbe sussistere senza il suo opposto), sia una complessiva, divina armonia del tutto.
Da questo nucleo di pensieri, svolto in plastici e sintetici motti di sapore oracolare, i contemporanei intesero che Eraclito volesse sottolineare e difendere l'inarrestabile divenire di tutte le cose. La tradizione infatti presenta Eraclito come il "filosofo del divenire" e gli attribuisce il motto «tutto scorre», panta rei, che peraltro non si trova nei frammenti rimastici.
In effetti egli più volte usa l'immagine del fiume. Per esempio dice: «Non potrai bagnarti due volte nella stessa acqua dello stesso fiume», come a significare lo scorrere incessante di ogni cosa: ciò che si presenta una volta non torna mai più, travolto per sempre dalla dominante lotta dei contrari. Queste tesi contrassegnarono coloro che, in seguito, ispirandosi al grande maestro, si definirono "eraclitei" .
Questa lettura di Eraclito è però superficiale e non coglie il vero pensiero centrale che risuona nella sua opera e nell'insieme la attraversa. Questo pensiero non insiste tanto, o soltanto, sul carattere relativo, effimero e transitorio di ogni fenomeno della natura e della vita; insiste piuttosto sulla legge che sottende e governa l'incessante divenire delle cose. Eraclito non esalta la dispersione, quanto invece l'unità che tiene armoniosamente insieme i molteplici fenomeni della realtà.
Già vi abbiamo fatto cenno e ora dobbiamo cercare di comprendere più nel profondo l'arduo cammino del pensiero di Eraclito.
Quello che Eraclito ha visto e ha compreso per primo è che i contrari hanno una natura complementare: essi sono quel che sono rispetto alloro opposto, senza del quale non sarebbero niente. Quindi il principio che regola le loro trasformazioni, il loro divenire, il loro "conflitto", non è un'unità estranea, un principio esterno alla molteplicità del divenire, ma è piuttosto una "legge" che governa il divenire dall'interno.
Uno e molteplice, essere e divenire non si oppongono soltanto, ma ancor più si compenetrano e si svolgono dinamicamente in armonia. Non si tratta quindi di comprendere come il molteplice derivi dal principio, dall’archè; si tratta piuttosto di comprendere il principio come norma intrinseca al e del divenire medesimo.
Di qui la necessità che gli esseri umani non si fermino a considerare questo o quell'aspetto della realtà e che lo approvino o lo respingano secondo il loro immediato e particolare tornaconto. Essi devono invece sollevarsi a una visione complessiva, così da riconoscere l'armonia che nasce dall'apparente discordia e la "giustizia" sovrumana, "divina", che tutto governa.
Gli uomini per lo più, dice Eraclito, sono sordi a questa parola divina. Essi vivono come addormentati, chiusi nelle loro idiosincrasie e nei loro sogni, cioè nelle loro opinioni e nei loro saperi particolari. È evidente che Eraclito combatte qui le differenti tradizioni mitiche; oggi diremmo: la superstizione insita nelle varie credenze e nelle varie fedi.
A tutto ciò oppone l'universalità della ragione, cioè quella verità che si conquista, come dice, «adoperando la mente», contro la passiva accettazione delle credenze tradizionali. Se useranno la ragione, gli uomini raggiungeranno una comune verità, poiché la ragione è ciò che essi hanno in comune, derivandola dal dio.
Questa comune verità si manifesta a coloro che imparano a dare ascolto alla voce del logos; solo allora gli uomini comprenderanno ciò che a ogni cosa è comune, cioè l'universalità della divina legge del divenire e dei contrari; legge che governa il mondo con la sua «armonia invisibile migliore di quella visibile».
Questo invito a sollevarsi con la mente ad un sapere a tutti comune, al sapere ispirato dalla ragione, dal logos, è appunto il compito che Eraclito affida alla nuova saggezza, o sophìa, di cui si fa banditore, cioè alla filosofia.
In vari frammenti Eraclito mostra di avere identificato il logos anche con l'immagine del fuoco: un «divino fuoco sempre vivo - dice - che secondo misura si accende e secondo misura si spegne».
In realtà gli studiosi moderni hanno avanzato qualche dubbio sull'autenticità di questi frammenti riferiti al divino fuoco. Essi ci furono trasmessi dalla scuola degli stoici che probabilmente ereditarono tale immagine da Eraclito, ma poi ne fecero un tema centrale della loro dottrina e forse, in tal modo, ne esagerarono o modificarono il senso che essa aveva nell' opera del pensatore presocratico.
In ogni caso il fuoco di Eraclito, più che un elemento naturale come l'acqua o l'aria dei milesii, sembra essere una figura simbolica, atta a mostrare l'unità profonda e insieme la continua trasformazione del divenire.
Nella perenne mobilità del fuoco, infatti, Eraclito scorge una duplice via di trasformazioni, cioè una «via all'in su» e una «via all'in giù». Dal fuoco, dice, per condensazione derivano il mare e la terra; dalla terra evaporano poi i vapori, il vento e le nuvole; di qui, di nuovo, il fuoco, in un ciclo eterno: «tutto dal fuoco e tutto nel fuoco, e tutto è fuoco». Il fuoco è insomma l'immagine simbolica dell'unità-molteplice intuita da Eraclito. Intuizione che si oppone alle opinioni della «stolta moltitudine». Essa non vede e non comprende che tutte le cose derivano da un'unica legge: «da tutto uno e uno da tutto». Ma chi avrà compreso questa armonia divina, «potrà accendere una fiaccola nella notte della sua vita».