A Megara, Euclide incontra Terspione, dopo aver incrociato la lettiga che riporta a casa Teeteto, giovane matematico ateniese ammalatosi durante la battaglia di Corinto e ora in fin di vita. Questo incontro riporta alla memoria di Euclide un dialogo avvenuto qualche anno addietro tra il giovanissimo Teeteto, allora promettente allievo del matematico Teodoro, e Socrate, che di lì a poco sarebbe morto. Euclide non è in grado di ricordare con precisione l’intera discussione; tuttavia ne ha provvidenzialmente steso per iscritto una relazione, a suo tempo risistemata e corretta con l’aiuto di Socrate.
Nella relazione di Euclide (che risulta essere un dialogo diretto), Teodoro di Cirene, famoso matematico, presenta a Socrate uno dei suoi allievi più brillanti, un ragazzo diciassettenne di nome Teeteto. Il filosofo decide di mettere subito alla prova le presunte qualità del giovane, proponendogli di cercare con lui una risposta alla domanda: «che cos'è la scienza?». Teeteto avanza una prima definizione, secondo cui la «scienza è sensazione»; Socrate la giudica inadeguata, ma allo stesso tempo comprende che il giovane è «gravido», e che quindi è possibile tirar fuori da lui una definizione soddisfacente con l’esercizio della maieutica. Questa prima definizione porta Socrate ad analizzare - e criticare - il relativismo di ispirazione protagorea e l’eraclitismo; quindi, sempre sotto la guida di Socrate, Teeteto propone una seconda («la scienza è opinione vera») e infine una terza definizione («la scienza è opinione vera di cui si sa rendere ragione»). L’esito del dialogo è però aporetico.
Il Teeteto, è dedicato al tema della conoscenza; ciò che però lo rende famoso ai più è la teorizzazione che viene fatta della maieutica socratica. In (149a) Socrate, discutendo con Teeteto, afferma di esercitare la stessa arte della madre Fenarete, quella della levatrice (in greco: τέχνη μαιευτική, téchne maieutiké). Come una levatrice è in grado di riconoscere lo stadio di una gravidanza, valutare se il feto è sano e aiutare una donna a partorire, così il filosofo è in grado di capire, discutendo con qualcuno, se costui è «gravido», ovvero se nella sua anima sono presenti pensieri validi e «reali» oppure meri fantasmi, e nel primo caso è in grado di portare alla luce il ragionamento nascosto, ponendo domande ed esigendo risposte (150c-151d). Si tratta di un’arte che gli è stata donata dal dio, ed egli può esercitarla perché è «sterile», ovvero non sa nulla, ma si limita a porre domande (150c). Allo stesso modo, infatti, le levatrici sono donne ormai avanti con gli anni, che hanno già affrontato il travaglio del parto ma a cui l’età non permette più di avere figli. Nel corso del dialogo Socrate tornerà varie volte sulla sua arte e la sua sterilità, mostrando come ne faccia via via uso durante la discussione.
La discussione del Teeteto inizia con la richiesta da parte di Socrate di una definizione per la “scienza” (episteme), nella tipica forma della domanda socratica: «che cos'è la scienza» (146c). Teeteto inizia a rispondere, dicendo che “scienza” sono le nozioni di geometria insegnate da Teodoro, come la sapienza dell’artigiano e altri tipi ancora di sapienza – ma in questo modo, osserva Socrate, si fanno solo esempi di conoscenze specifiche, che non rispondono alla domanda sulla natura della scienza in sé. Dopo un breve excursus nel campo della geometria, Teeteto prova allora a definire la conoscenza come «sensazione», riprendendo la celebre definizione di Protagora (151e). Ciò offre a Socrate la possibilità di fare una lunga analisi della dottrina protagorea.
Se la conoscenza è sensazione, significa che è apparenza e che quindi è individuale (lo stesso vento è freddo o caldo non in sé, ma in base a come ciascuno lo percepisce); inoltre, la sensazione è sempre vera (per esempio, nessuno può negare che il daltonico veda verde ciò che per gli altri è rosso). Tuttavia, Socrate afferma che Protagora ha parlato per enigmi alla gente normale, e ha rivelato la verità solo ai propri allievi. Si tratta di una dottrina a suo dire antichissima che risale agli allievi di Eraclito, i quali a loro volta la ripresero da una tradizione ancora più antica facente capo a Omero, generalmente definita dell’eraclitismo segreto: «niente, di per sé, è uno; e a niente si può attribuire una determinazione o una qualità: se lo si dice grande, apparirà anche piccolo, se pesante, leggero, e così per tutto, perché niente è uno, né ha precisa determinazione o qualità. Tutto ciò che noi diciamo che è, diviene perché muta luogo, si muove, si mescola con altro; e perciò non è corretto dire che è, (e) perché niente mai è, ma sempre diviene. E su questo punto tutti i sapienti, ad eccezione di Parmenide, bisogna dire che concordano, Protagora, Eraclito, Empedocle, e i poeti più grandi» (Teeteto 152d-e).
Tutto ciò che ci sta intorno è in movimento (kinesis), ovvero è soggetto a continui cambiamenti, e l’unico modo che abbiamo per conoscerlo sono le sensazioni, le quali altro non sono che il risultato del contatto tra gli organi di senso e l’oggetto di conoscenza. Gli studiosi al giorno d’oggi sono dell’idea che questa dottrina non sia mai stata realmente insegnata, ma piuttosto sia un’invenzione di Platone, ottenuta portando alle estreme conseguenze la dottrina protagorea dell’uomo-misura. Questo permette a Platone di affermare che, per avere una dottrina della conoscenza accettabile, non ci si può fermare alla sensazione, ma bisogna ammettere che, oltre agli organi di senso, interviene anche l’anima, la quale da sé riesce a «osservare quello che è comune a tutte le cose», cioè l’essere (186a). L’anima percepirà dunque la durezza o il colore attraverso il tatto o la vista (che fungeranno solo da tramite), e cercherà «l’essere in particolar modo nei rapporti delle une con le altre, confrontando in se stessa qual è stato, il presente e quel che sarà» (186a-b). A ciò, l’anima aggiunge poi un giudizio sulla loro essenza ed utilità, frutto di riflessione sulle varie esperienze avute nel corso del tempo.
Ora però, torniamo più da vicino all'analisi della dottrina protagorea dell’uomo-misura (μέτρον ἄνθρωπος), la quale si basa sull'assunto secondo cui: «L’uomo è misura di tutte le cose, di quelle che sono in quanto sono, di quelle che non sono in quanto non sono» (Teeteto 152a). Con la dottrina eraclitea Platone pone l’attenzione sulla condizione transitoria in cui si trovano gli oggetti sensibili, i quali, cambiando, si danno ogni volta agli organi di senso in modi sempre diversi. Questo, si è detto, è una derivazione logica che Platone trae dal relativismo proprio della dottrina protagorea, la quale viene approfondita in quella che è solitamente definita «apologia di Protagora»: al tempo in cui è ambientato il dialogo il sofista era già morto da qualche anno, e per questo motivo Socrate in persona immagina con quali parole egli, se fosse stato presente, si sarebbe difeso dalle critiche mossegli (165c-168c).
«lo dico che la verità è esattamente come ho scritto: ciascuno di noi è misura delle cose che sono e delle cose che non sono, ma c'è un'enorme differenza tra l'uno e l'altro, e questo proprio perché a uno appaiono in un modo, a un altro in un altro. E sono così lontano dal negare che esistano la sapienza e il sapiente, che anzi chiamo sapiente proprio quello che, se a uno di noi le cose appaiono e anche sono cattive, lo cambia e gliele fa apparire, e anche essere, buone» (Teeteto 165d) .
«In effetti, nessuno mai riesce a far avere opinioni vere a uno che le ha false, perché uno non può pensare cose che per lui non esistono, o cose diverse dalle impressioni che ha, (b) perché queste sono per lui vere in ogni caso. Però, uno che, per una certa disposizione dell'anima, ha opinioni cattive, si può far sì che abbia una disposizione migliore, e quindi anche opinioni migliori: e sono queste che taluni per ignoranza dicono vere, e io dico semplicemente migliori di altre, ma più vere no.» (Teeteto 167a-b)
Insomma, afferma Protagora, non esistono opinioni vere o opinioni false, bensì solo opinioni che possono essere migliori di altre, perché più utili alla vita dell’individuo e della società. La ricerca dell’utile si allaga così all'intera città: coloro che governano e dettano legge nella polis agiranno in modo tale da perseguire l’utile della comunità, cosicché essa possa progredire. Qui si inserisce l’attività paideutica del sofista, il quale, attraverso la sua educazione alla virtù (areté) intesa come rispetto delle norme vigenti nella città in cui si opera, induce i propri allievi a migliorare se stessi in ottemperanza alle leggi, portando così a un miglioramento collettivo della stessa città. Come il medico muta la condizione del paziente facendolo diventare sano da malato - quindi migliorandolo - così il sofista migliora la società migliorando le opinioni dei cittadini, educandoli cioè ad avere le opinioni che risultano più utili alla società stessa (167c-e).
Tuttavia, come fa notare Socrate, Protagora con il suo relativismo non può negare che esistano persone più sapienti di altre: un esempio clamoroso di questa aporia è dato dal riferimento alla città, poiché è chiaro che chi detta legge e prende provvedimenti per il futuro non può essere una persona qualunque, ma un esperto. Come per conoscere in anticipo il sapore di un vino bisogna chiedere il giudizio di un vignaiolo e non di un musico, così per prendere decisioni in vista del futuro della polis è necessario rivolgersi a persone esperte (178a-179d). Inoltre se le opinioni fossero realmente tutte valide, accadrebbe che la stessa tesi di Protagora, «l’uomo è misura di tutte le cose», avrebbe lo stesso valore delle tesi dei suoi oppositori, con il risultato che tutte sarebbero vere (171b-e). Le opinioni non possono dunque essere tutte uguali, ma esistono opinioni vere e opinioni false; e Protagora, dal canto suo, non può evitare di porre il problema circa il valore di verità delle affermazioni, senza con ciò generare delle aporie interne alla sua stessa dottrina. Affermare che la scienza è sensazione, significa fare i conti con il fatto che non sarebbe possibile esprimere giudizi sulle cose, né sulle passate o presenti, né sulle future: se soggetto senziente e oggetto sensibile si identificano, l’intero campo dell’esperienza si riduce a un mero flusso di sensazioni, nel quale tutto è e non è nello scorrere del tempo – il flusso appunto di cui parla l’eraclitismo segreto. Pertanto, poiché le sensazioni alla fin fine si riducono a se stesse (il tatto al tatto, la vista alla vista), è necessario affermare che esiste un principio insito nell'anima di ciascuno, grazie al quale è possibile giudicare le cose (184d-e), per il quale i sensi diventano mezzi (per esempio, vediamo mediante la vista).
La discussione sul relativismo di Protagora porta Socrate e i suoi interlocutori a porsi il problema del valore di verità delle affermazioni, essenziale affinché una scienza sia possibile. Per poter affermare l’essere o il non essere di una cosa è necessario un atto di pensiero che esprima un giudizio sull'oggetto di conoscenza: l’essere sarà dunque ciò verso cui l’anima si protende da sé, e la scienza allora sarà opinione - e, ben inteso, opinione vera (187b).
Tuttavia, anche questa seconda definizione genera problemi. Parlare di opinione vera implica che esista anche un’opinione falsa, la quale è però difficile da comprendere se si considera che una cosa può essere conosciuta o non conosciuta: se possono esserci solo conoscenza o insipienza, cioè verità o ignoranza, l’errore (ovvero la conoscenza di un oggetto in modo errato) come si spiega? Dall'indagine risulta chiaro che l’errore non si genera mai dal contatto di sensazioni con sensazioni e di pensiero con pensiero, ma solo quando la sensazione entra in contatto con il pensiero (192d-195b). L’opinione è infatti sempre opinione di qualcosa che esiste, e mai opinione di ciò che non esiste: detto ciò, sembrerebbe di poter affermare che esistono solo opinioni vere, ma, in questo modo, dire che la scienza è opinione vera equivale a dire che la scienza è opinione e basta. Bisogna dunque chiamare in causa la ragione, e affermare che la scienza è opinione vera sostenuta da ragione (201c-d).
Opinare è infatti sempre ragionare, ma anche con questa terza definizione permangono dei problemi, legati alla plurivocità del termine ragione (logos).Logos può infatti essere inteso come:
1. discorso, cioè immagine del pensiero nella voce. In questo caso, poiché il discorso riproduce l’opinare dell’animo, «opinione vera secondo ragione» equivale a «opinione vera» (206b-e);
2. analisi, cioè enumerazione degli elementi primi per giungere alla conoscenza dell’intero. Ma gli elementi primi sono inconoscibili, e ciò rende impossibile la conoscenza stessa degli oggetti (206e-208b);
3. opinione senza ragione, e quindi non ancora conoscenza (209c). Ma in questo modo si torna al punto di partenza: dov'è la conoscenza?
Con quest’ultima affermazione si mostra l'aporeticità del dialogo. Il problema sta infatti nella definizione della conoscenza come opinione (doxa), il quale genera un circolo che porta dal senso alla sensazione, e da qui all'opinione: ma in questo circolo non c’è posto per la scienza (episteme). Se si rimane sul piano dei singoli saperi, non c’è modo di uscire dall'orbita della opinioni, e così, in qualsiasi campo, ci si ritrova invischiati in scontri e dispute che hanno per oggetto le diverse opinioni. Allo stesso modo, tuttavia, il risultato della maieutica socratica non è inficiato dall'esito aporetico dell’indagine: come Socrate e Teeteto convengono al termine del dialogo, nel corso della discussione si sono fatti molti passi avanti rispetto alla situazione iniziale e si sono dette molte cose interessanti (210a-b).Il dialogo viene così interrotto da Socrate, che deve recarsi al portico del Re per rispondere delle accuse di empietà mossegli da Meleto (210d).
Il Teeteto (in greco Θεαιτήτος) è un dialogo appartenente alla prima parte del periodo "della vecchiaia", in cui si ribadisce che è impossibile considerare vera la scienza se non in riferimento all'essere, cioè l'idea. Questo discorso è finalizzato a smentire la soggettività gnoseologica affermata dai sofisti, i quali ritenevano che fossero i sensi a determinare la conoscenza, cosa che invece Platone nega fermamente: per il filosofo si perviene alla conoscenza tramite la dianoia (διάνοια), la ragione matematica e discorsiva.
Infatti non sarebbe nemmeno possibile trasmettere il sapere se non vi fossero verità certe e collettive, così come ad esempio viene affermato nell'Eutidemo, dove si giunge alla conclusione che anche l’eristica diventerebbe inutile se fosse vero ciò che i sofisti stessi affermano. Dunque, le opinioni di un individuo non fanno una scienza. Alla domanda di Socrate: «che cos'è la conoscenza?», Teeteto cita Protagora e risponde che è sensazione. Bisogna però comprendere quale sia l’interesse reale di Platone per Protagora: lo scopo del filosofo è dimostrare che la conoscenza si dà solamente se ci sono le idee, e questo è quanto viene mostrato nel corso del dialogo. Va sottolineato però che le idee non vengono qui mai menzionate: si parte dalla tesi opposta a quella platonica, si passa poi a dimostrare che essa è insostenibile, ed infine si mette in luce che l’unica soluzione possibile è proprio quella che accetta l’esistenza di enti eterni e trascendenti. Platone si scontra con il suo più grande oppositore (e quindi anche del razionalismo): l’empirismo/sensismo.
Il dialogo, termina a prima vista senza una conclusione: la maieutica socratica, che ha in questo dialogo la sua più celebre descrizione (148 e sgg.), resta senza esito, perché l'anima del giovane Teeteto, benché ricca di conoscenze matematiche e degli insegnamenti del famoso Teodoro di Cirene, non ha in sé nessun frutto filosofico degno di essere allevato e nutrito. Tuttavia, il tentativo di definire che cosa sia "conoscere" e la ricerca dei rapporti tra scienza, opinione e sensazione consentono a Platone di delineare una analisi approfondita e una critica radicale del primo grande avversario filosofico che, per questo scopo, aveva innanzi a sé: il sensismo e il relativismo di origine tardo-eraclitea e protagorea.
A parte l'iniziale tentativo di dire che cosa è "conoscere" enumerando una serie di particolari conoscenze, la prima definizione che vien posta in discussione è quella per cui la conoscenza è sensazione. La prima sezione del dialogo è dedicata allo svolgimento di questa tesi in tutte le sue implicazioni. Se conoscere è sentire, per ciascuno è vero ciò che gli sembra tale: quale una cosa appare, tale essa è per colui al quale appare. La famosa dottrina protagorea dell'«uomo misura di tutte le cose» è richiamata, a questo scopo, come la formulazione più tipica della teoria dell'identità di conoscere e sentire. Per ognuno sono dunque sempre vere le proprie sensazioni, anche quando sono le più diverse, perché tanto il "senziente" quanto il "sentito" sono soggetti a un continuo divenire che li altera e rende sempre diversi i loro incontri, da cui scaturisce la sensazione. Il nesso della dottrina protagorea, con quella del tardo eraclitismo, nel momento stesso che fornisce la comprensione profonda del sensismo e del relativismo, completa la formulazione del problema gnoseologico dandogli un'adeguata prospettiva ontologica.
È a questo punto, quindi, che Platone può tentarne la critica più approfondita. Se conoscere è sentire e per ognuno è vero ciò che gli appare, bisogna intanto concludere che Protagora non solo non è più sapiente degli altri uomini, ma anche che qualsiasi essere vivente che abbia sensazione è «misura di tutte le cose», allo stesso modo in cui egli dice che lo è l'uomo. Ma vi è di più; come è possibile la memoria, se col cessare della sensazione cessa anche la nostra conoscenza? O dovremo forse ammettere l'assurdità che chi ricorda non conosce? Infine, se uno si chiude un occhio, dal momento che con quello non vede mentre con l'altro continua a vedere, dovremo concludere che nello stesso tempo conosce e non conosce? Di fronte a queste assurdità, Platone stesso immagina quale potrebbe essere l’apologia che Protagora farebbe, se potesse, delle sue dottrine, apologia che già abbiamo visto nel capitolo su questo sofista.
Ma questa difesa non basta ancora ad evitare l'obiezione capitale, cioè che Protagora è costretto ad ammettere come vera anche l'opinione opposta alla sua, anzi come più vera della sua, poiché la maggioranza degli uomini non ritiene che l'uomo sia misura di tutte le cose; e se gli altri ammettono di sbagliare, egli non può ammetterlo né per sé né per gli altri e quindi è l'unico che non può avere dubbi sul fatto che sia vera l'opinione opposta alla sua.
La folla dei problemi presentatisi consente a questo punto a Socrate una divagazione di estremo interesse. Non si deve aver timore di tornare più volte sugli stessi argomenti: solo i filosofi infatti sono padroni del proprio tempo e dei propri discorsi, mentre gli altri ne sono condizionati. Il filosofo, unico libero in un popolo di schiavi, nulla sa di ciò che suscita il piccolo interesse degli altri, e può anche apparire talvolta ingenuo e suscitare il riso, ma solo per l'altrui meschinità, giacché l'uomo non educato alla filosofia è ben più ingenuo e ridicolo, preda com'è delle vertigini quando tenti di sollevarsi dalla considerazione dei fatti particolari a quella dell'universale. In ogni caso non bisogna preoccuparsi dell'opinione della gente, ma cercare sempre di eguagliare la divinità, che è giustissima. Questa è l'unica cosa importante, mentre «tutte le altre apparenti abilità e saggezze, nella condotta dello stato, producono rozzezza e, nelle altre arti, servilismo». Con il che risulta ulteriormente confermata la continua oscillazione del pensiero platonico nella raffigurazione del filosofo e nei suoi rapporti con la politica e il mondo della prassi: questo mondo può essere salvato solo dalla filosofia, ma la filosofia è qualcosa che con questo mondo non ha nulla in comune. Essa è aspirazione al «modello divino», alla sua contemplazione e quindi, ritornando la discussione al tema proposto, deve cercare la verità delle cose non già nelle sensazioni, ma nella «proprietà della loro essenza».
Bisogna quindi andare oltre il sensismo e questo è possibile solo confutando la tesi di coloro che riducono la realtà delle cose a un continuo movimento e divenire e prendendo così posizione tra costoro e «i Melissi e i Parmenidi» che invece dicono tutto essere immobile. E in effetti l'assurdità della prima tesi appare evidente non appena la si porti alle estreme conseguenze, e ci si accorga che ogni volta che si parla di cose in movimento, in quello stesso momento le si rende immobili, fissandole, sia pure per un solo attimo, allo stesso modo che Zenone diceva star ferma in ogni singolo momento la freccia lanciata da un arco. Si dovrà dunque vedere se hanno ragione gli eleati? Per il momento il problema è messo da parte, per non allargare troppo l'argomento, ma vi è chiaro il presentimento che il problema non può arrivare ad una vera soluzione se non facendo i conti con Melisso e con Parmenide «venerando e formidabile». Ma, intanto, Platone conclude l'analisi dell'equazione conoscenza-sensazione: i sensi altro non sono che strumenti per mezzo dei quali la nostra anima subisce delle "affezioni", ma non sempre ogni affezione corrisponde esattamente a un organo di senso, potendo essa essere comune a più d'uno, e quindi, in quanto tale, essa non è percepita da nessun organo particolare.
Bisogna allora supporre che l'anima abbia la capacità di stabilire una connessione e un rapporto tra i vari dati. Ma con ciò il piano della sensazione è superato definitivamente, perché solo in questa fase ulteriore di collegamento e rapporto di dati l'anima è in grado di affermare l'esistenza di una cosa, la sua identità con se stessa e la sua alterità rispetto ai correlativi, la somiglianza e la dissomiglianza, l'uno e il multiplo. Senza questi "generi comuni", essere, relazione, qualità e quantità non c'è percezione.
«SO.: Allora dimmi, Teeteto: (c) è più corretto dire che gli occhi sono ciò "con cui" vediamo, o ciò "per mezzo di cui" vediamo? e che gli orecchi sono ciò "con cui" udiamo o "per mezzo di cui" udiamo? TEET.: Mi sembra meglio "per mezzo di cui" abbiamo le sensazioni. (e) SO.: E gli organi per mezzo di cui senti le altre qualità, caldo, duro, leggero, dolce, non li consideri organi singoli del corpo? O di qualcos'altro? TEET.: Di nient'altro.SO.: E non diresti anche che (I85a) ciò che percepisci per mezzo di una facoltà determinata, non può essere percepito da una facoltà diversa? Per esempio, non si può percepire con la vista ciò che riguarda l'udito, e viceversa. TEET.: E come potrei dire di no? SO.: Se prendi due oggetti insieme, uno veduto e l'altro udito, dunque, non potrai, con una sola delle due facoltà, né pensarli né sentirli. TEET.: No, in effetti SO.: Ma del suono e del colore, presi insieme, non pensi forse questo innanzitutto, che entrambi sono? TEET.: Sì. SO.: E non pensi anche che ciascuno è diverso da ogni altro, ma identico a se stesso? (b) TEET.: Certo. SO.: E che insieme sono due, ma ciascuno è uno? TEET.: Anche questo, sì. So.: Sei dunque capace di stabilire se sono simili o dissimili. TEET.: Certo. SO.: Ebbene, per mezzo di quale facoltà pensi tutto questo di essi? Non per mezzo della vista o dell'udito, infatti, potrai cogliere ciò che hanno in comune. E poi, se siano entrambi salati o no (c) tu potrai dirmi con quale facoltà si può stabilire; ma non sarà certo né la vista né l'udito.TEET.: E che facoltà sarà, se non quella che si serve della lingua? SO.: Giusto. Ma allora, per mezzo di cosa opera, e che facoltà è quella che ti chiarisce ciò che c'è di comune nelle cose, e in particolare l'essere e il non essere, e quello che dicevamo? A quali organi di senso attribuirai, una per una, queste percezioni? (d) TEET.: Ma per Zeus, Socrate, non mi pare che per queste ci siano organi specifici; mi pare invece evidente che è (e) la stessa anima, per mezzo di se stessa, a stabilire ciò che nelle cose c'è di comune. SO.: Bravo, Teeteto, che mi hai risparmiato un lungo discorso, se dici evidente che certe cose l'anima le stabilisce da sé, per mezzo di se stessa, altre invece per mezzo delle facoltà del corpo. (186a) TEET.: Sì, mi pare evidente. SO.: In che tipo di cose, dunque, poni l'essere? perché l'essere soprattutto è comune alle cose. TEET.: Tra le cose cui l'anima tende da sé, per se stessa. SO.: E il simile e il dissimile, l'identico e il diverso? TEET.: Anche. SO.: E il bello e il brutto, il buono e il cattivo? TEET.: Anche questi, mi pare, sono cose di cui l'anima indaga l'essere, soprattutto con l'esaminare i rapporti che hanno tra loro, (b) nel passato, nel presente e nel futuro. SO.: Fermati qui! La durezza di ciò che è duro, come la mollezza di ciò che è molle, l'anima non la percepisce per mezzo del tatto? TEET.: Sì. SO.: Ma il fatto che sono [duro e molle] [qualità], che sono due [quantità], che sono opposte[relazione], è l'anima che si sforza di chiarirceli, ripercorrendoli e confrontandoli fra loro. TEET.: Certo. (c) SO.: Dunque, ci sono sensazioni che uomini e animali hanno la capacità di percepire per natura, e sono quelle che arrivano all'anima dal corpo; ma le riflessioni su queste sensazioni, sul loro essere e sulla loro utilità, si sviluppano a fatica e col tempo, in quelli pure in cui si sviluppano, e sono quelle che l'anima scopre da sola. TEET.: È proprio così. SO.: Ora, è possibile che colga la verità chi non coglie nemmeno l'essere? TEET.: Impossibile, Socrate. SO.: E potrà uno aver scienza di ciò di cui non coglie la verità? (d) TEET.: E come potrebbe, Socrate? SO.: Allora, non è nelle impressioni sensibili che si trova la scienza, ma nella riflessione su di esse: con questa, infatti, è possibile, a quanto pare, cogliere la verità, con quelle no. TEET.: È chiaro. (e) SO.: Dunque, Teeteto, sensazione e scienza non possono essere la stessa cosa. TEET.: È chiarissimo che la scienza è altra cosa.»
La stessa prima formulazione di questa tabella di categorie logiche e ontologiche a un tempo, che prelude a quella analoga, sebbene diversa, del Sofista, poneva immediatamente una serie imponente di problemi, la cui mancata discussione nel Teeteto (al pari della mancata discussione della filosofia dell'eleatismo) renderà senza esito positivo la discussione di quel problema dell'errore che segue immediatamente e che vedremo ripreso in maniera assai più complessa nei successivi dialoghi. Se la conoscenza non è sensazione, ma il giudizio dell'anima sulla sensazione, dovremo essere sicuri che tale giudizio sia vero e non falso. Come riuscire allora a distinguere l’"opinione vera", cioè la conoscenza, dall'opinione falsa? In che senso è possibile l'errore? In questa domanda sono preannunciati alcuni dei complessi problemi che saranno trattati nel Sofista e ancora una volta la tesi dell'errore come pensiero, opinione di ciò che non è si scontra con l'altra tesi, per cui pensare e opinare hanno sempre un loro oggetto determinato e reale.
Platone non avverte ancora in tutta la sua portata la non congruenza delle due prospettive e ciò rende in parte vana quella prima risoluzione del "non-essere" nell'"alterità", che invece sarà la tesi centrale del Sofista.
Se il pensare è «un discorso che l'anima fa a se stessa intorno alle cose che contempla», interrogando e rispondendo finché non ha determinato il suo oggetto, come potrà pensare "altro" da quello che penserà? Per questa via l'errore è del tutto inconcepibile.
Diremo allora che l'errore consiste nella mancata corrispondenza tra le sensazioni che di volta in volta proviamo e le conoscenze da noi già possedute e impresse nella nostra anima come immagini sulla cera?
Neppure questo è possibile, dal momento che in tal modo non riusciamo a spiegarci come si possa produrre errore quando la mancata corrispondenza è non già tra sensazione e conoscenza, ma tra sensazione e sensazione, tra conoscenza e conoscenza.
Altro è "possedere" una conoscenza, altro è "averla", nel senso che altro è possesso virtuale di una cognizione, altro è quello attuale; è come se uno volesse prendere da un'uccelliera un uccello e invece di quello voluto se ne trovasse fra le mani un altro.
Così noi possiamo credere di aver afferrato una certa conoscenza, mentre in realtà si tratta di un'altra. Per questa via l'errore sarebbe forse spiegabile, ma si ricade nella insormontabile difficoltà di una situazione in cui ci si troverebbe a sapere quel che non si sa e a non sapere quel che si sa.
In realtà l'errore non è spiegabile se prima non si chiarisce definitivamente cosa è "conoscenza". Ora, vi sono alcuni che sostengono che la conoscenza è «opinione vera accompagnata da ragionamento» e che perciò conoscibili sono solo i nessi che costituiscono un composto, ma non gli elementi primi di questo composto.