Dal 1266, data della battaglia di Benevento che segna il declino delle pretese degli Hohenstaufen sull’Italia, Firenze è il centro guelfo più importante della penisola. La città è lacerata fra "popolo grasso" e "popolo minuto", ossia tra gli appartenenti alle arti maggiori e minori, le corporazioni che riuniscono coloro che esercitano lo stesso mestiere o professione.
Nel 1293, l’istituzione degli Ordinamenti di giustizia di Giano della Bella segna la supremazia delle arti maggiori (giudici e notari, medici e speziali, pellicciai, setaiuoli, lanaiuoli, cambiatori, mercatanti di Calimala o dei panni forestieri) e intermedie (calzolai, galigai, fabbri, maestri della pietra e del legno, beccai) sulle arti minori (fornai, vinattieri, chiavaiuoli, oliandoli, linaiuoli, legnaiuoli, corazzai, correggiai, albergatori).
Nella prima metà del Trecento la definizione di popolo minuto si estende anche alla massa dei salariati non inquadrati nelle corporazioni, divenendo nella seconda metà del secolo pressoché sinonimo di "ciompi", mentre il popolo grasso tende a identificarsi coi proprietari dei numerosi opifici tessili attivi nella città.
Firenze è dominata dalla ricca borghesia manifatturiera e finanziaria, che allontana dal potere la vecchia aristocrazia feudale e sottomette la piccola borghesia. Nel Trecento i contrasti sono acuiti dalla gravissima crisi economico-finanziaria che culmina dal fallimento di molti "banchi", fra i quali quelli dei Bardi e dei Peruzzi, e dall’epidemia di peste del 1348.
Per ovviare alle ricorrenti crisi politiche, la città si dà "in balia" a personaggi forestieri ritenuti super partes, come Roberto d’Angiò o Carlo, duca di Calabria, e infine nel 1341 a Gualtieri di Brienne, cacciato nel 1343 per la cupidigia e l’arroganza. Nell’ottobre del 1343, accantonati gli Ordinamenti di giustizia, al popolo minuto è riconosciuto il diritto di accedere alle magistrature cittadine; ma tale diritto, osteggiato dal popolo grasso, rimane di fatto lettera morta.
I proletari, esclusi da ogni arte, insorgono una prima volta nel 1345, capeggiati da Ciuto Brandini, uno scardassatore di lana, e tornano alla carica nell’estate del 1378, all’indomani della logorante guerra detta "degli Otto santi" contro il papa, dando vita al Tumulto dei Ciompi. I lavoratori salariati della manifattura della lana insorgono, si impadroniscono del Palazzo della Signoria e dello stendardo (21 luglio 1378).
Fra gli Otto di balia, detti Otto santi, c’è Salvestro de’ Medici detto Bicci, rappresentante del popolo grasso in contrasto con la parte guelfa, che si appoggia ai piccoli artigiani alleatisi con i ciompi contro il popolo grasso. Vengono istituite tre nuove arti (tintori, farsettai e ciompi), dette "arti del popolo di Dio". Il 29 luglio il movimento si radicalizza. Dopo aver bruciato le case dei padroni, i ciompi ottengono di riformulare le liste dei cittadini eleggibili, riservandosi un terzo delle cariche pubbliche.
Ma l’alleanza fra piccoli artigiani e ciompi si spezza; anche quei rappresentanti del popolo grasso che, come Salvestro, hanno incoraggiato la rivolta a proprio beneficio vogliono impedire che il potere cada in mano ai proletari. Le arti minori abbandonano i ciompi, insieme a Michele di Lando, il gonfaloniere da essi eletto, al loro destino. Alla fine d’agosto del 1378 la rivolta è conclusa; il movimento dei ciompi, dopo cruenti scontri, è duramente represso. Per tre anni un regime falsamente popolare ma di fatto controllato da famiglie del popolo grasso governa la città; nel giro di quattro anni il potere tornerà saldamente in mano alle arti maggiori, che restano in sella sino al 1434.
Originaria verosimilmente del Mugello, una regione a ridosso dell’Appennino a settentrione di Firenze, inurbatasi nel XII secolo, la schiatta dei Medici si fa rapidamente spazio nella turbolenta città. Il primo della famiglia ad avervi un ruolo politico è tal Chiarissimo di Giambono, seguito da un Bonagiunta membro di un consiglio comunale nel 1216 (nel 1240 un documanto attesta che i suoi parenti praticano il prestito di denaro).
Nel Trecento la consorteria dei Medici, ossia l’insieme dei discendenti in linea maschile di uno stesso antenato, acquisisce sempre maggior rilievo, come testimonia un elenco fiscale del 1343 che registra 32 capifamiglia appartenenti alla schiatta, con vasti possessi in città e nella campagna limitrofa, impegnati nell’attività bancaria e commerciale, e legati da alleanze matrimoniali a tutte le grandi famiglie fiorentine. Per ben 28 volte, fra il 1291 e il 1343, un Medici accede alla signoria cittadina, ossia al governo comunale.
Se l’affermazione della consorteria non è ancor più marcata ciò si deve forse a una certa discontinuità dei suoi membri nello scegliere se dedicarsi prevalentemente a commercio e finanza oppure alla cura delle proprietà terriere.
Come si desume dai registri fiscali del 1364, infatti, uno solo tra i Medici è veramente ricco; ma si piazza solo al sedicesimo posto nella graduatoria dei fiorentini più abbienti.
Gli altri membri della consorteria sono dispersi nella massa; turbolenti, vendicativi, temuti e poco amati, tanto da meritarsi l’appellativo di "masnada di Mercato vecchio", il teatro delle loro imprese. Se figurano numerosi nelle magistrature tirate a sorte, come la signoria, ottengono solo raramente cariche elettive, come le ambascerie, e non presiedono mai consigli esecutivi.
Nell’ascesa della dinastia dei Medici verso il potere spiccano tre personaggi. Il primo è Salvestro di Alamanno, che dal 1360 partecipa al governo della repubblica fiorentina rappresentando l’opposizione alle grandi famiglie raggruppate nella parte guelfa. Profittando del’instabilità seguita alla guerra degli Otto santi contro il papa (1375-1378), attacca violentemente la parte avversa e fa approvare una legge contro i magnati.
L’agitazione scatenata da questa iniziativa è il preambolo del Tumulto dei Ciompi (1378-1382); ma nel prosieguo Salvestro rientra prudentemente nell’ombra, mentre la consorteria dei Medici sostiene la reazione contro i ciompi. Il secondo personaggio a favorire l’ascesa dei Medici è Vieri di Cambio, che, attorno alla metà del XIV secolo, avvia un’attività finanziaria che lo renderà attorno al 1380 titolare di una delle più importanti banche fiorentine, con filiali a Roma, Genova, Bruges e Venezia.
Il terzo è Giovanni di Bicci, padre di Cosimo, lontano cugino di Vieri e suo socio, al pari di altri mebri della famiglia, prima del 1390. La carriera di Giovanni è rapida: nel 1390 dirige la filiale di Roma, indipendente dal 1393. Nel 1397, tornato a Firenze, prende il posto del defunto Vieri alla guida della banca di famiglia. Abile politicamente, riesce a contrastare efficacemente il potere dell’oligarchia al governo dal 1382, che ha progressivamente emarginato i Medici, aggregando tacitamente attorno a sé un partito di cittadini abbienti ma ostili alle grandi famiglie.
Alla sua morte, nel 1429, Giovanni lascia un patrimonio considerevole; terre in Mugello, case in città, rendite statali, partecipazione maggioritaria a una compagnia commerciale e bancaria di primo piano. Il terreno è pronto per l’ascesa di suo figlio Cosimo, ricco, potente, ben appoggiato.
Malgrado a Firenze a cavallo tra Trecento e Quattrocento il potere sia, fra tumulti e repressioni, pervenuto saldamente in mano a un’oligarchia borghese, la città, a differenza di altre in Italia, mantiene formalmente le istituzioni repubblicane.
Firenze, che nel 1351 ha conquistato Pistoia e nel 1384 Arezzo, e nel 1405 ha acquisito Pisa e relativo sbocco sul mare da un figlio naturale di Gian Galeazzo Visconti, è con Venezia la principale nemica di Milano, e riuscirà a contrastare con successo l’avanzata viscontea nell’Italia centrale.
Tra le famiglie di parte guelfa al potere, la supremazia assoluta tocca agli Albizi, ricchi mercanti lanieri, appoggiati dai grandi imprenditori tessili, dai banchieri e dai mercanti.
Dopo una guerra sfortunata contro Lucca e con l’istituzione del catasto (1427), riforma fiscale necessaria ma contrastata, l’oligarchia al potere vacilla; i suoi capi sono screditati. L’enorme ricchezza di Cosimo, erede di Giovanni di Bicci, tradizionale avversario dei magnati spalleggiato dai ceti popolari, fa ombra a Rinaldo degli Albizi, che briga per eliminarlo facendolo imprigionare nel 1433 dal gonfaloniere Bernardo Guadagni, sua creatura. Chiuso nella Torre d’Arnolfo, alta su Palazzo Vecchio, Cosimo de’ Medici teme per la propria vita, minacciata dall’odio degli Albizi e del popolo grasso. Il capo della consorteria medicea, legata al popolo minuto, è l’unico ostacolo fra costoro e il potere assoluto.
Ma Cosimo, cui non fanno difetto né oro né astuzia, riesce a evitare il patibolo e patteggia un esilio decennale, destinato a durare in realtà solo un anno. Cosimo, in pericolo di vita, deve subire l’esilio, nel corso del quale è accolto come un principe negli stati che visita, fermandosi a Venezia.
Tornato a Firenze nel 1434, sostenuto dal favore popolare, si afferma come arbitro assoluto della politica cittadina, Arbitro assoluto del governo cittadino, non attenta agli ordinamenti repubblicani né ricopre alcuna carica ufficiale, salvo sedere fra gli Ufficiali del Monte . Dopo aver fatto bandire dai pubblici uffici gli esponenti delle famiglie rivali, esiliati e rovinati finanziariamente, pone alla guida della repubblica uomini a lui fedeli; nel 1458, con una sorta di incruento colpo di stato, si garantisce il definitivo controllo della città grazie alla creazione di una nuova magistratura, quel Consiglio dei Cento che costituisce la più sicura salvaguardia del suo potere.
Sovrano di fatto, agisce nell’ombra, indirizzando a piacimento la politica interna ed estera: sulla sua tomba, in San Lorenzo, sta scritto Pater Patriæ, padre dalla patria. Ma il vecchio capitalista cauto e previdente, alieno ad eccessi e violenze quanto astuto e implacabile, è soprattutto l’artefice del potere dei Medici, destinato a durare, salvo parziali eclissi, assai più di quello d’ogni altra dinastia principesca del Rinascimento.
Dopo aver mantenuto il tradizionale atteggiamento favorevole a Venezia contro i milanesi, Cosimo rovescia le alleanze nel 1447 quando, alla morte di Filippo Maria Visconti, la Serenissima minaccia di assorbire il ducato di Milano.
L’astuto Cosimo appoggerà allora Francesco Sforza finché Venezia, colpita nei suoi interessi commerciali nel Levante dalla caduta di Costantinopoli, acconsentirà alla pace di Lodi (1454), foriera di cinquant’anni di equilibrio politico che favoriranno l’ascesa di Lorenzo, nipote di Cosimo.
Padre per la città, padrone nell'ombra.
Lorenzo de’ Medici, primogenito di Piero il Gottoso, a sua volta primogenito di Cosimo il Vecchio e suo erede alla guida delle attività di famiglia nonché di Firenze, nasce a Firenze nel gennaio del 1449. La sua educazione, seguita scrupolosamente dalla madre Lucrezia Tornabuoni, è quella che si addice al rampollo di una delle più prestigiose dinastie di banchieri e mercanti d’Europa, oltre che governanti, di fatto, dello stato fiorentino. D’intelligenza svelta e precoce, mostra sin da giovanissimo un’inclinazione naturale al poetare, e studia il latino e quindi il greco presso lo Studio fiorentino, frequentando eruditi del calibro di Cristoforo Landino e Marsilio Ficino.
Come ogni rampollo di buona famiglia, pratica la caccia col falcone e la scherma, prende lezioni di canto e impara a suonare lodevolmente la lira.
Nel 1466 entra a far parte della Balia e del Consiglio dei Cento. Tre anni dopo cementa i legami dei Medici, banchieri del papa, con la Santa Sede, sposando Clarice, figlia di Jacopo Orsini del ramo di Monterotondo, ma soprattutto nipote del Cardinal Latino, personaggio influentissimo della curia romana. Alta e chiara di carnagione, Clarice non è forse il tipo ideale di Lorenzo, ma porta una dote di seimila fiorini; il matrimonio ha luogo prima a Roma, per procura, il 7 febbraio 1469.
L'evento è celebrato a Firenze con un torneo, tenutosi in piazza Santa Croce, nel quale Lorenzo ottiene la vittoria. Non si tratta di una cruenta tenzone, ma di una spettacolare celebrazione in cui sfoggiare cavalli e armature di pregio facendo rivivere il mito cortese dell’antica cavalleria, e congegnata in modo da far rifulgere il primogenito dei Medici, così come accadrà per il fratello minore Giuliano nel 1475. "Benché d’armi e di colpi non fossi molto strenuo mi fu giudicato il primo onore", chiosa infatti Lorenzo, e aggiunge: "Giostrai con grande spesa e grande sunto, nella quale trovo si spese circa fiorini diecimila di suggello".
Clarice è accompagnata a Firenze da Giuliano; all’incontro fra gli sposi, avvenuto il 4 giugno del 1469 nel palazzo di via Larga, seguono tre giorni di festa ininterrotta. Dal matrimonio nasceranno dieci figli, di cui tre morti nell’infanzia; Clarice morirà a sua volta nel 1488 di tubercolosi.
Signore di Firenze
L’equilibrio politico italiano vacilla. Firenze, schieratasi a fianco di Roberto Malatesta, signore di Rimini, per bloccare le mire espansionistiche di papa Paolo II, si sente minacciata. Lorenzo è inviato in ambasceria a Milano, presso gli Sforza, dove il duca lo accoglie con grande amicizia. Quando Piero il Gottoso muore, il 2 dicembre 1469, il gonfaloniere Tommaso Soderini non esita e, raccolti seicento fra i più importanti concittadini, li invita a riporre la loro fiducia in Lorenzo, che il 4 dicembre è ufficialmente invitato a prendere il posto dei suoi predecessori.
Ancora scosso per la morte del padre, Lorenzo annota: "Il secondo dì dopo la sua morte, quantunque io Lorenzo fossi molto giovane e d’età d’anni ventuno, vennono a noi a casa i principali della città e dello stato a dolersi del caso e confortarmi ch’io pigliassi la cura della città e dello stato come avevano fatto l’avolo e il padre mio".
Lorenzo accetta, pur con riluttanza, "perché a Firenze si poteva mal vivere ricco e senza stato"; memore dell’insegnamento del nonno Cosimo, sa bene che nella sua città non si può disporre di una enorme fortuna senza detenere il potere in modo da poter smorzare e rintuzzare invidia e gelosia. Al pari del nonno e del padre non assume ufficialmente la signoria, ma non pone tutto lo scrupolo dell’accorto Cosimo e di Piero nel mascherare il proprio potere. Gli è al fianco, bello e seducente, protagonista di mille intrighi amorosi, il fratello Giuliano.
La sua carica ufficiale è di sedere a vita nel consiglio dei Cento creato da suo nonno; modificando a proprio vantaggio alcuni ordinamenti per rendere ancor più stabile il proprio potere, Lorenzo governa con prudenza, giungendo a intervenire nella politica matrimoniale delle maggiori famiglie fiorentine per evitare il formarsi di pericolose alleanze a proprio discapito.
L'ago della bilancia
Dopo aver soffocato nel sangue le velleità di Volterra nel 1472, Lorenzo deve fare i conti col nepotismo e l’espansionismo di Sisto IV, intenzionato a dare Imola al nipote Gerolamo Riario danneggiando gli interessi territoriali di Firenze. Dal contrasto si origina la congiura dei Pazzi, banchieri fiorentini antagonisti dei Medici, chiamati dal pontefice a sostituirli nella lucrosa gestione delle finanze papali e intenzionati a rimpiazzarli anche nel governo cittadino.
Nella congiura, scattata nel 1478, debbono cadere entrambi i fratelli, ma muore solo Giuliano, mentre Lorenzo sopravvive e Firenze reagisce con violenza, linciando i cospiratori e i loro mandanti. Sisto IV, furibondo, scomunica Lorenzo e minaccia Firenze d’interdetto se obbedirà ancora ai Medici. Il momento è critico; Firenze, spalleggiata da Venezia e Milano, deve fronteggiare la minaccia delle truppe papaline e di Ferrante (detto anche Ferdinando) d’Aragona, re di Napoli. Lorenzo risolve di mettere a frutto il proprio carisma e affrontare faccia a faccia il monarca aragonese nella sua tana.
Il 7 dicembre 1479 parte per Napoli e scrive alla signoria: "Et con questa buona disposizione d’animo me ne vo: che forse Iddio vuole che come questa guerra cominciò col sangue di mio fratello e mio, così ancora finisca per le mie mani, et io desidero solamente che la vita e la morte, e 'l male e 'l bene mio sia sempre con beneficio della città". A Napoli riesce a convincere Ferrante e il papa è costretto a cedere.
"Tornò peraltro grandissimo", scrive il Machiavelli, "s’egli se n’era partito grande, e fu con quella allegrezza della città ricevuto, che le sue grandi qualità e freschi meriti meritavano, avendo esposto la propria vita per rendere alla sua patria la pace". Tre anelli a punta di diamante, intrecciati fra loro, col motto Semper: l’emblema di Lorenzo de’ Medici palesa la volontà d’unire, non di dividere. Un’aspirazione riflessa dallo sforzo di consolidare quell'equilibrio per cui tanto s’è adoperato suo nonno Cosimo, unica risorsa contro la crescente forza delle monarchie straniere.
Il mosaico chiamato Italia non tollera egemonie né guerre fratricide: le alleanze tra gli stati più piccoli, uniti come gli anelli del suo stemma, debbono controbilanciare il potere dei più grandi. È inevitabile, perciò, l’urto col papa, determinato a rinsaldare il proprio potere temporale e ad espandersi in Romagna. La storia ha dato a Lorenzo, per la sua abilità diplomatica, il titolo di ago della bilancia della politica italiana nel secondo Quattrocento: il sagace mediatore però sa, all’occorrenza, anche giocare d’azzardo. Come quando, sopravvissuto alla congiura dei Pazzi e minacciato dall’odio di Sisto IV e dalle truppe di Ferrante d’Aragona, re di Napoli, non esita a recarsi presso il monarca nemico, ponendosi alla sua mercé, per convincerlo che l’espansionismo pontificio danneggia tutti gli stati italiani. Ci mette tre mesi, ma ci riesce: Firenze, liberata dal pericolo, è ai suoi piedi.
Lorenzo può finalmente consolidare l’equilibrio italiano, mostrando grande acume diplomatico.
Firenze stringe alleanze con Lucca, Siena, Perugia e Bologna; acquisisce Pietrasanta nel 1484 e Sarzana nel 1487, stabilendo rapporti di buon vicinato con Forlì, Faenza e Napoli. Nel 1482 si schiera al fianco del duca di Milano per contrastare le mire di Ferrara, collaborando alla stipula della pace di Bagnolo; Lorenzo affianca il papa contro Venezia, ma avversa Innocenzo VIII quando questi muove contro il regno di Napoli, e preme per la pace, ratificata nel 1486.
Poeta, collezionista, amante dell’arte, il Magnifico si circonda di lusso e bellezza, dando a Firenze un lustro e un prestigio senza precedenti. Ma negli ultimi anni del suo governo la città ode risuonare sempre più stentorea la voce di Girolamo Savonarola, il domenicano che dal convento di San Marco lo ammonisce a ritrovare la via della rettitudine e dell’umiltà. Purtroppo, alla fine la scommessa di Lorenzo è perduta: alla sua morte, nel 1492, Lodovico il Moro, duca di Milano, ansioso di salvare il proprio ducato, chiama i francesi, facendo degli stati italiani appetitosi bocconi per i mastini d’oltralpe.
Il potere mediceo vacilla, suo figlio Piero, detto il Fatuo, non saprà contrastare la discesa di Carlo VIII, re di Francia, facendosi cacciare da Firenze che proclama la Repubblica. L’equilibrio è rotto, il suo principe è morto e con lui si avvia verso la fine il Rinascimento.