Una lettura un po’ distratta forse non ritroverà affinità se non di facciata tra i due grandi filosofi. Eppure basterebbe un’analisi comparata dei temi principali per rendersi conto che non è affatto così. In effetti, Kant e Platone condividono non pochi elementi teorici relativi al significato della vita umana e delle sue capacità razionali. Il primo punto di contatto è proprio la concezione etico-politica dei due pensatori. Contatto che può apprezzarsi compiendo una prima ricognizione comparata tra La Repubblica di Platone e la Critica della ragion pratica di Kant.
La Repubblica è nota come dialogo fondamentale per la visione politica di Platone. La città ideale è insieme il risultato ma anche l’avvio di un’antropologia ricca di una straordinaria fenomenologia dell’agire umano. La vita umana è un intreccio di tensioni determinato dai differenti equilibri possibili fra le tre forze attive nell’anima. Questa ricca fenomenologia platonica descrive incisivamente quali dinamiche si instaurano a seconda del ruolo preponderante dell’uno o dell’altro principio attivo dell’anima. Proprio qui dove Platone condanna con veemenza l’empietà dell’arte da Omero in avanti, siamo portati per mano in una descrizione dell’animo umano e delle sue passioni degno di uno straordinario romanzo introspettivo.
Dal punto di vista di Platone la ragione di questo affresco straordinario è data dall'incrocio di prospettiva tra città e anima. La città ci permette di guardare l’anima umana come in una lente d’ingrandimento e di cogliere dunque nei suoi comportamenti e nei suoi bisogni le caratteristiche dell’anima. L’anima nella sua azione individuale diventa a sua volta un prezioso paradigma per comprendere quali tensioni possono agitare la città quando una tendenza o l’altra di governo si impadroniscono della sua gestione.
Ma il punto di partenza di tutta questa affascinante avventura è esattamente il tema della giustizia e la ricerca della sua attuazione. Nel I libro de La repubblica Platone guadagna faticosamente la sua concezione della giustizia sottraendosi man mano alle definizioni sofistiche e sviluppando quella visione del bene che sarà il principio cardine della sua concezione etica e politica. Analogamente, nella filosofia kantiana la Critica dell ragion pratica rappresenta la stessa alta esigenza di giustizia che viene approfondita nell’analitica della ragion pratica e ha il suo punto di arrivo nell’imperativo categorico. Ma se questo appare a prima vista scontato, visto il tenore e l’obiettivo dei due scritti in esame, meno scontato appare il tratto comune che caratterizza l’ideale di giustizia. La forma della giustizia è l’idea universale, unica vera al di là del mondo sensibile, sia in Platone che in Kant. E se in Platone la vera conoscenza filosofica e offerta nella risalita alle forme ideali attraverso la dialettica, in Kant la struttura ideale è inscritta nella capacità razionale a priori del soggetto trascendentale. La somiglianza è completata dal fatto che in entrambi la dimensione sensibile è bandita dalla struttura teorica dell’ideale etico. Il proverbiale rigorismo del dovere kantiano trova un’analogia nel comunismo delle classi dirigenti ipotizzato da Platone che rispecchia un rigorismo non solo individuale ma anche sociale. I rischi di entrambe le posizioni sono noti: Schiller rimproverava a Kant il rischio di non poter fare realmente del bene agli amici o ai propri cari perché l’eventuale appagamento che ciò offrirebbe sarebbe paradossalmente immorale; Platone, nell’enfasi della sua città ideale e del suo rigoroso ideale etico, arriva a negare una dimensione affettiva reale alle due classi dei custodi che debbono vivere una vita in cui anche donne e figli sono parte di una sorta di comune che li sradica dunque da una dinamica affettiva familiare.
L’analogia sembra più intrigante se si considera che Kant si muove in una prospettiva deontologica mentre Platone in una direzione più teleologica. La sua indagine parte dal concreto per risalire verso l’ideale: Platone vede nel Bene il punto cruciale della morale che deve essere raggiunto mediante la facoltà razionale dell’anima, mentre in Kant l’ideale è già iscritto nella struttura razionale dell’imperativo. Questa apparente modesta differenza in nrealtà ci ricorda l’epoca che intercorre tra questi due grandi pensatori: in Platone, la ricerca del bene rappresenta il culmine di una vita virtuosa che fa emergere solo i migliori è l’ideale della sapienza incarnata dal filosofo che coinvolge l’intero equilibrio della vita personale. In Kant il riferimento alla struttura razionale ci ricorda che il pensatore tedesco è un illuminista del XVIII secolo e la razionalità non è più, come nell’insegnamento platonico, lo sforzo complessivo di tutto l’uomo per cogliere il significato ultimo e profondo della realtà, come suggeriva il mito della biga alalta nel Fedro. Insomma, in Kant la ragione è la possibilità umana di sviluppare i proprio strumenti razionali, identici in tutti gli uomini.
Con qualche semplificazione si potrebbe dire che si passa dall'immagine aristocratica di Platone a un’immagine democratica del pensiero, ma sarebbe riduttivo perché Platone non ha una visione della politica così semplicistica, come insegna la teoria dei diversi sistemi di governo buoni o corrotti sulla base del criterio della città ideale, e Kant non dimentica affatto quanto sia faticoso lo sforzo individuale per la moralità. Anzi, tanto ne è consapevole che pone i famosi postulati della ragion pratica come un’esigenza e una necessità per dare certezza a coloro che rinunciano a tutto in virtù delle esigenze di giustizia richieste dalla moralità.
Infatti, proprio questo emerge all'apice della trattazione di entrambe le opere dove le convergenze sono nuovamente significative. L’affresco del mito di Er che chiude la Repubblica ci dice che le anime sono immortali e che la loro sorte è legata al bene e al male realizzati nella vita precedente. Nei casi più gravi si conclude con la discesa nel Tartaro, mentre per tutti gli altri c’è la possibilità di scegliere liberamente un nuovo paradigma di vita che sarà più nobile ed eccellente in base alla qualità morale maturata in precedenza e sulla base della quale avverrà la nuova scelta. Questo perché la qualità morale è determinata dalla vera scienza culminante nella difficile e sofferta contemplazione del Bene raffigurato dal sole nel mito della caverna. Il bene rappresenta il culmine della vera realtà: è la fonte e il culmine dell’essere e dell’indagine dialettica. In una parola è la contemplazione del divino che sostiene la verità e la irradia sulle idee. In sintesi, l’anima è libera e immortale ed è sottoposta al giudizio divino per proseguire in base ai propri meriti il ciclo delle reincarnazioni. Esattamente gli stessi termini con i quali si giustifica l’esistenza dei postulati della ragion pratica kantiana: libertà, immortalità e giudizio finale divino.
La luce della ragione ...
Ancora un ulteriore parallelismo che ci sembra indicativo delle esigenze comuni che si ritrovano, forse anche in maniera sorprendente, tra questo due autori culturalemente lontani eppure filosoficamente così vicini. Il termine stesso illuminismo, che meglio identifica tante differenze tr ai nostri, non è estraneo alla tradizione che prende piede con Platone. Proprio nella Repubblica, nel VI libro Platone parla della conoscenza paragonandola al sole e alla luce che ci permette di vedere e dunque di conoscere sul piano sensibile. In Platone la luce raggiunge il culmine nella dialettica con la quale si indaga l’essere e la verità delle idee, mentre il metodo geometrico non può raggiungere l’apice della scienza riservata al metodo dialettico. La conoscenza matematica si muove mediante il metodo ipotetico deduttivo e rappresenta solo il primo approccio alla vera conoscenza. La matematica in Platone non ha una funzione razionale paragonabile a quella inaugurata nella modernità da Galilei e Cartesio. Qui si innesca quel cortocircuito tra scienza sperimentale e ontologia, alla base dei differenti nodi teoretici della modernità rispetto al penseiro antico e medievale. Ma la sua radice, a ben vedere, è platonica, data la parentela col platonismo della scienza moderna in Galilei. Una parentela lontana se si considera il ben differente ruolo che la matematica assume in Galilei rispetto a Platone. Ma da quella visione del metodo sperimentale galileiano prende piede la nuova concezione della razionalità di cui l’illuminismo è una delle principali correnti.
...nell’Illuminismo Kantiano
Nell'articolo Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo? (1784) Kant offre indicazioni di condotta molto concrete ma costituisce anche una lucida riflessione sulle dinamiche politiche e culturali del suo tempo. Se si crede che una rivoluzione sociale ed economica sia sufficiente a far uscire gli uomini dalla loro sudditanza intellettuale, si commette un grave errore. Un esito del genere non porterebbe infatti che all'alternanza di una classe di dominatori con un'altra, esclusivamente interessata a tutelare i propri interessi e a tenere gli uomini in quello stato di minorità da cui magari aveva loro promesso di affrancarli: osservazione che rappresenta una sorta di critica preventiva al modo in cui si svolgerà la Rivoluzione francese (il saggio di Kant è stato scritto cinque anni prima che questa scoppiasse). Per promuovere effettivamente la libertà degli uomini bisogna anzitutto fare leva sulla ragione stessa mettendo tutti gli uomini nella condizione di usare al meglio la propria ragione e solo successivamente si potrà avviare uno sviluppo sociale ed economico equo, compatibile con le prioritarie esigenze spirituali dell'uomo che deve poter estendere le proprie facoltà oltre la pura sfera del bisogno naturale e dell'istinto. Scrive Kant,
«L’illuminismo è l'uscita dell'uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l'incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stesso è questa minorità, se la causa di essa non dipende da difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di far uso del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. Sapere aude! abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! È questo il motto dell'Illuminismo.
La pigrizia e la viltà sono le cause per cui tanta parte degli uomini, dopo che la natura li ha da lungo tempo fatti liberi da direzione estranea (naturaliter maiorennes), rimangono ciò nondimeno volentieri per l'intera vita minorenni, per cui riesce facile agli altri erigersi a loro tutori. Ed è così comodo essere minorenni! Se io ho un libro che pensa per me, se ho un direttore spirituale che ha coscienza per me, se ho un medico che decide per me sul regime che mi conviene ecc., io non ho più bisogno di darmi pensiero di me.[....]
È dunque difficile per ogni singolo uomo lavorare per uscire dalla minorità, che è divenuta per lui una seconda natura. Egli è perfino arrivato ad amarla e per il momento è realmente incapace di valersi del suo proprio intelletto, non avendolo mai messo alla prova. Regole e formule, questi strumenti meccanici di un uso razionale, o piuttosto di un abuso delle sue disposizioni naturali, sono i ceppi di una eterna minorità. Anche chi riuscisse a sciogliersi da essi, non farebbe che un salto malsicuro sopra i più angusti fossati, poiché egli non avrebbe l'abitudine a siffatti liberi movimenti. Quindi solo a pochi è venuto fatto con l'educazione del proprio spirito di sciogliersi dalla minorità e camminare poi con passo sicuro.
Al contrario, che un pubblico si illumini da sé è ben possibile, e se gli si lascia la libertà, è quasi inevitabile. Poiché in tal caso si troveranno sempre fra i tutori ufficiali della gran folla alcuni liberi pensatori che, dopo di aver scosso da sé il giogo della tutela, diffonderanno intorno il sentimento della stima razionale del proprio volere e della vocazione di ogni uomo a pensare da sé.
Al riguardo è singolare vedere il pubblico, tenuto da prima da essi sotto questo giogo, obbligarli poi a rimanervi, quando fosse stato liberato da quel giogo da quelli fra i suoi tutori che fossero essi stessi incapaci di ogni lume. Tanto è pericoloso seminare pregiudizi! Essi infatti finiscono per ricadere sui loro autori o sui successori dei loro autori.Forse una rivoluzione potrà ben determinare la caduta di un dispotismo personale e porre termine a un’oppressione avida di guadagno e di potere, ma non provocherà mai una vera riforma del modo di pensare: piuttosto, nuovi pregiudizi serviranno al pari dei vecchi a guidare la gran folla di chi non pensa.
Sennonché a questo illuminismo non occorre altro che la libertà, e la più inoffensiva di tutte le libertà, quella cioè di fare pubblico uso della propria ragione in tutti i campi.[....]
lo rispondo: il pubblico uso della propria ragione deve esser libero in ogni tempo, ed esso solo può attuare l'illuminismo tra gli uomini: mentre l'uso privato della ragione può anche più spesso essere strettamente limitato, senza che ne venga particolarmente ostacolato l'illuminismo. Intendo per uso pubblico della propria ragione l'uso che uno ne fa come studioso davanti all'intero pubblico dei lettori. Chiamo invece uso privato della ragione quello che alcuno può farne in un certo impiego o funzione civile a lui affidata».
.... nel mito della caverna platonico
Il testo mostra forti punti di contatto con la più famosa pagina platonica racchiusa nel VII libro de La Repubblica dove si sviluppa il mito della caverna che riportiamo sinteticamente: all'interno di una caverna stanno, incatenati sin dalla nascita, alcuni uomini, incapaci di vederne l'entrata; alle loro spalle arde un fuoco e, tra il fuoco e l'entrata della caverna, passa una strada con un muretto che funge da schermo; per la strada passano diversi uomini, portando sulle spalle vari oggetti che proiettano le loro ombre sul fondo della caverna. Per i prigionieri le ombre che vedono sono la realtà; se uno di essi fosse liberato e costretto a voltarsi e ad uscire, in salita, dalla caverna, sarebbe abbagliato dalla luce e proverebbe dolore; tuttavia, a poco a poco si abituerebbe, potrebbe vedere i riflessi delle acque, poi gli oggetti reali, gli astri ed infine il sole. Tornando nella caverna dovrebbe riabituare gli occhi all'oscurità e sarebbe deriso dai compagni qualora provasse a raccontare ciò che ha visto. Con questo mito Platone spiega la sua teoria delle idee, secondo cui la realtà sensoriale è paragonabile alle ombre che i prigionieri vedono sul fondo della caverna, mentre esiste in qualche luogo fuori dal tempo e dallo spazio il "reale" che altro non è che "l'idea".
La metafora della luce ci offre lo spunto anche per una riflessione sulle similitudini e le differenze teoriche più importanti tra queste fondamentali trattazioni del problema della razionalità umana. In primo luogo si registrano due importanti differenze teoriche. La prima apparentemente sembra interessare la differente cifra stilistica tra i due autori e riguarda l’uso del mito nello sviluppo dell’argomentazione. Così caro a Platone, esso è certamente rigettato dall’illuminista Kant che mostra uno spiccato fastidio per tutto ciò che non può essere controllato e verificato con quegli strumenti razionali ai quali l’affabulazione mitopoietica sfugge. La seconda differenza è stata già accennata in precedenza e risulta chiara dal tenore delle due trattazioni. In Platone, in effetti, un solo schiavo si libera dalle catene e dal buio dell’ignoranza rispetto a tutti gli altri che continuano a vivere nell’ombra dell’apparenza. In Kant lo stato di minorità è un’esigenza che coinvolge tutti gli uomini e non pochi a ciò deputati dalla natura e dall'impegno.
nonostante il razionalista Kant, così lontano dalla scrittura mitopoietica di Platone, descrive l’Illuminismo, e la libertà razionale che esso ai suoi occhi esso rappresenta, come l’uscita da una minorità in cui l’uomo si adagia e ma ne parla come di una liberazione dai «ceppi di una eterna minorità», allusione a una schiavitù intellettuale che rende l’uomo incatenato ai suoi pregiudizi, esattamente come Platone l’ha descritta nel mito. E come se non bastasse, mentre Platone mette in scena il dramma dello schiavo che rientra nella caverna, cioè nel mondo dell’opinione, che Kant chiamerebbe pregiudizio e minorità, lo stesso Kant parla di una razionalità che è per tutti gli uomini ma, diffidando della buona volontà di tutti gli uomini che per pigrizia o viltà preferiscono non esercitare la loro facoltà razionale e vivere pienamente la statura della loro libertà, visto lo scarso seguito dichiara che comunque «si troveranno sempre fra i tutori ufficiali della gran folla alcuni liberi pensatori che, dopo di aver scosso da sé il giogo della tutela, diffonderanno intorno il sentimento della stima razionale del proprio volere e della vocazione di ogni uomo a pensare da sé». Con accenti dunque non molto dissimili dall'impegno dello schiavo platonico liberatosi che rientra nella caverna per aiutare gli altri a ritrovare la propria capacità razionale e dialettica. Ma con una differenza importante tra le due concezioni, se si riprende il tema nel Politico. Infatti Platone coniuga il tema della forza al sapere e dunque ai filosofi-re. Un tema che non trova l’approvazione di Kant che vede il “sapere” come frutto di libertà individuale e non può, pertanto considerare la forza come un elemento giustificabile. Non a caso, come abbiamo già indicato, nello scritto sull'Illuminismo scritto cinque anni prima della rivoluzione francese, Kant nega un valore autentico alle rivoluzioni, contestando dunque quel principio giacobino che invece in Platone sembra avere una qualche giustificazione, sebbene non nei termini autoritari nei quali gli è stato contestato nella filosofia contemporanea (sopratutto da Karl Popper). Fermo restando che anche per Kant lo sforzo per la liberazione dai pregiudizi ha un rilevo etico fondamentale e suppone lo sviluppo di criteri razionali per afferrare il valore della libertà.
Quest’ultimo accenno ai termini comuni ci riporta al centro della teoria platonica e ci consente di introdurre una prima breve considerazione sul ruolo dell’anima in Platone. Se razionalità e libertà sono i termini dell’Illuminismo kantiano come negare che anche in Platone questi riferimenti sono altrettanto imperativi? La concezione dell’uomo si ritrova in Platone nelle sue riflessioni sull'anima, soprattutto nel Fedone. Sebbene Platone non abbia una dottrina della libertà individuale così sviluppata come in Kant certamente essa è ben presente come esigenza legata proprio alla razionalità umana. Con le idee, Platone aveva voluto asserire l'esistenza di principi indipendenti dall'esperienza, cioè dalla sua variabilità e mutevolezza, e perciò capaci di garantire la stabilità e l'oggettività del sapere e dell'agire; e per questo motivo aveva affermato, con la loro indipendenza, anche la loro presenza e influenza nell'esperienza, e in particolare la possibilità di accedere ad esse mediante la ragione.
L'Argomento del Fedone - il dialogo che rappresenta con commozione le ultime ore di Socrate - è l'immortalità dell'anima. I quattro argomenti avanzati da Platone nel corso del dialogo rimandano di fatto ad un solo argomento, che è quello per Platone fondamentale: l'affinità dell'anima alle idee, da cui partecipa la propria perfezione ed eternità. In base a questo argomento Platone respinge come radicalmente insufficienti le dottrine naturalistiche: esse in effetti spiegano ogni fenomeno (anche quelli relativi all'anima) con cause materiali, e perciò non sanno dar ragione dei comportamenti umani ispirati (come il sacrificio di Socrate) da principi ideali. Argomento decisivo, per il quale la prova decisiva è (come per l'immortalità dell'anima) il modo in cui Socrate affronta la morte. Secondo simili tesi sarebbe come cercare di spiegare la presenza in carcere di Socrate adducendo a cause i suoi nervi e la conformazione dei suoi muscoli, invece che la sua scelta di accettare la decisione del tribunale. Il legame dell' anima con le idee significa sostanzialmente aspirazione dell'anima alla perfezione: e di questa sua condizione Platone vede l'espressione nell'amore, che è l'argomento del Simposio. Per Platone l'amore non è un semplice fatto fisiologico e psicologico, ma coinvolge l'intera natura dell'anima nella sua tendenza a oltrepassare i limiti dell'esperienza. Come dire che in Platone la razionalità, e la libertà che da essa scaturisce rappresenta anche la passione più profonda e intensa della natura umana. Una passione per la verità che si ritrova solo grazie allo sforzo di conquistare, liberandosi dall'ignoranza, il sapere che compete all’uomo e che lo rende pienamente tale. L’espressione più profonda di questa dinamica è data dall'utilizzo del mito lo strumento tipicamente platonico per accedere a quelle verità nascoste che stanno alla base del nostro sapere ma che non hanno un corrispettivo in Kant.
L'Illuminismo ha manifestato forti riserve sul valore delle espressioni poetiche e mitiche tradizionali. Kant le ha esposte nel suo modo di intendere l'arte nella Critica del Giudizio e nel saggio sul valore della religione: La religione nei limiti della semplice ragione.
In realtà la Critica del giudizio si occupa del bello ma non dell'opera d'arte e, in un certo senso, sembra proseguire quell'atteggiamento di condanna dell'arte che anche Platone aveva manifestato ne La Repubblica. L'altra opera esprime invece proprio la condanna di ogni espressione simbolica in quanto dichiara che, sebbene sia un'esigenza insopprimibile della natura umana rendere visibile ciò che tale non è, la religione è un fatto interiore di natura puramente morale e dunque liquida tutta la simbolica espressa nella rivelazione storica del cristianesimo come mito, dando a questo termine un valore diametralmente opposto a quello adottato da Platone.
Tuttavia, Kant pone l'imperativo categorico alla base della morale che deve guidare la stessa aspettativa religiosa dell'uomo il quale, per questo motivo, deve limitare le sue aspettative a una “repubblica morale” contrapposta polemicamente alle chiese storiche. Questa contrapposizione pone il primato razionale della morale sulla fede perché quest'ultima, a suo dire, avanzerebbe le sue pretese sulle “rivelazioni” religiose che non sono attendibili in quanto non razionali.
Tuttavia, se consideriamo che Kant ha giustificato con i postulati della ragion pratica la sua morale del dovere, espressa nell'imperativo categorico, anch'egli come Platone fonda la sua repubblica morale sull'immortalità dell'anima, sulla libertà e sull'esistenza di Dio.
Certamente Kant non avrebbe seguito in alcun caso il mito della caverna o il mito di Er come giustificazione della sua visione razionalistica della repubblica morale ma resta il fatto che essa sembra vicinissima alle ragioni della repubblica platonica. Non a caso i postulati della ragion pratica kantiana pongono le stesse esigenze insopprimibili di Platone: l'immortalità dell'anima e l'esistenza di Dio. Dunque il linguaggio simbolico del mito platonico e la critica razionalistica del mito caratteristica dell'Illuminismo kantiano si contrastano sulle modalità del sapere ma le esigenze fondamentali sembrano costantemente ritrovarsi in tanti punti nevralgici delle due concezioni. Proprio questo strano intreccio, fatto di assonanze e contrasti stridenti, autorizza e giustifica una verifica più puntuale dei contatti e dei rimandi interni di queste due filosofie in modo tale da offrire un'interpretazione anche delle loro evidenti differenze. Un compito decisamente impegnativo ma che avrà il vantaggio di vagliare luci e ombre di due giganti del pensiero. Pertanto il primo vero punto non può che essere il problema stesso della conoscenza, viste le differenti interpretazioni del sapere e delle sue fonti che abbiamo appena verificato sul tema del mito.