Un'opposizione particolarmente decisa all'idealismo fu quella di Arthur Schopenhauer, il quale contestò di esso non tanto i presupposti teorici (che sostanzialmente condivise), quanto il razionalismo e l'ottimismo da questo conseguente, in particolare nella visione di Hegel, cui contrappose una concezione radicalmente irrazionalistica e pessimistica.
ARTHUR SCHOPENHAUER nacque a Danzica nel 1788. Il padre, ricco uomo d'affari, lo fece educare in Francia e in Inghilterra, e viaggiare in molti paesi d'Europa, perché conoscesse il mondo. Il giovane avrebbe voluto dedicarsi agli studi, ma il padre lo avviò agli affari; nel 1805, tuttavia, il padre: mori (suicida, forse per dissesti finanziari) ed egli si stabilì a Weimar con la madre (nota scrittrice di romanzi) e la sorella, e poté seguire la sua vocazione. Nel salotto della madre conobbe Goethe, la cui teoria dei colori sostenne in uno scritto Sulla vista e sui colori (1816). In quel periodo conobbe anche l'orientalista F. Mayer che lo iniziò alla filosofia indiana, le cui Upanishad esercitarono una profonda influenza sul suo spirito. Rotti i rapporti con la madre ed entrato in possesso della sua parte di eredità, poté vivere di rendita, dedicandosi completamente agli studi.
Orientatosi ormai decisamente alla filosofia, seguì i corsi di Schulze a Gottinga, poi quelli di Fichte a Berlino; ma le letture per lui determinanti furono quelle di Kant e di Platone. Nel 1813, mentre ferveva la guerra contro Napoleone, compose la sua tesi di laurea, Sulla quadruplice radice del principio di ragion sufficiente, in cui studia i significati che il principio ha nei diversi ambiti del sapere (rapporti tra oggetti naturali, tra entità logiche, tra entità matematiche, e tra moventi e azioni), e li riconduce al principio di causa, approdando a una visione deterministica della realtà.
Dal 1814 al 1818, a Dresda, elaborò quello che doveva rimanere il suo capolavoro, Il mondo come volontà e rappresentazione, che uscì nel 1819, ma fu completamente ignorato. Dopo un viaggio in Italia, si recò a Berlino e, ottenuta la libera docenza, iniziò il suo insegnamento in quell'università. Era il periodo del massimo prestigio di Hegel, e Schopenhauer, che collocò le proprie lezioni nelle stesse ore di quelle di Hegel, dovette esperimentare un nuovo insuccesso. Tali delusioni contribuirono certo ad accentuare la misantropia del suo carattere. Nonostante i fallimenti, Schopenhauer non desiste però dalla sua opposizione all'idealismo, e in particolare ad Hegel. In varie occasioni egli parla di Fichte, Schelling ed Hegel come di "tre sofisti", "tre impostori", "tre ciarlatani", e in particolare di Hegel come un "Calibano intellettuale"; e in un libretto polemico denuncia La filosofia delle università come un pensiero al servizio dello Stato e della Chiesa.
Rinunciato all'insegnamento, nel 1831 si stabili a Francoforte, dove nel 1836 scrisse La volontà nella natura; nel 1839 una memoria Sulla libertà del volere umano (per un concorso indetto dalla regia Società delle scienze di Danimarca, che la premiò), e nel 1840 una seconda memoria Il fondamento della morale (per un altro concorso della stessa Società), che nel 1841 raccolse col titolo I due problemi fondamentali dell'etica. Nel 1844, dopo molte insistenze con l'editore, pubblicò una seconda edizione del Mondo, con un volume di Supplementi; ma nemmeno questa ebbe successo. Il successo arrivò nel 1851 con la pubblicazione di Parerga und paralipomena (Cose aggiunte e tralasciate), una serie di saggi alcuni dei quali in stile brillante e popolare; nel 1859 poté pubblicare la terza edizione del Mondo, mentre la sua fama andava crescendo in tutto il mondo. Schopenhauer visse il successo tardivo con grande soddisfazione. Morì nel 1860.
Ne Il mondo come volontà e rappresentazione, Schopenhauer delinea la propria concezione partendo dalla dottrina kantiana della natura fenomenica del mondo dell' esperienza: esso è rappresentazione, e non esiste che in rapporto al soggetto che se lo rappresenta ("egli non conosce né il sole né la terra, ma un occhio che vede il sole, una mano che sente la terra"). Schopenhauer la considera una scoperta determinante, per cui attribuisce un merito fondamentale a Kant. Nella rappresentazione, come Kant, egli distingue la forma e il contenuto: la prima viene dal soggetto, il secondo gli è dato; ciò, secondo Schopenhauer, dimostra che l’idealismo è falso, ma anche che il materialismo non vale che per il mondo fenomenico. Da Kant, peraltro, Schopenhauer si discosta su alcuni punti fondamentali. In primo luogo, egli riduce le forme a priori dell' esperienza a spazio, tempo e causalità, e considera anche l'intelletto un'attività percettiva, non discorsiva; questa è da lui attribuita alla ragione. In secondo luogo, concepisce il fenomeno come apparenza soggettiva, cioè illusione; egli credeva così di riprendere la dottrina platonica, e soprattutto la sapienza indiana (di cui fu uno dei primi estimatori e divulgatori), per cui il mondo è la Maya, cioè il velo che cela la realtà ai non iniziati. Allontanandosi ulteriormente da Kant, Schopenhauer si propose di sollevare questo velo, cioè di scoprire la realtà in sé celata dietro i fenomeni; e indicò la via per scoprirla nell'esperienza che ciascuno fa di sé come essere vivente.
L'uomo infatti non è solo ragione ("un'alata testa d'angelo"), ma corpo; e il suo corpo lo conosce non solo "dall'esterno", come fenomeno (quale possono conoscerlo anche gli altri), ma anche lo sente “dall’interno”,in un modo che agli altri sfugge, e quindi, secondo Schopenhauer, come “cosa in sé”. (Il fatto di "sentirsi" nel tempo non altera, a suo giudizio, la percezione che si ha del proprio essere profondo, che rimane sostanzialmente sempre quello).
Dall'interno, l'uomo si sente pervaso da quella che Schopenhauer chiama "volontà", intendendo non la volizione consapevole, ma un fascio di tendenze istintive (volontà di vivere): "un cieco, irresistibile impeto, quale già noi vediamo apparire nella natura inorganica e vegetale, come anche nella parte vegetativa della nostra propria vita ... perciò è semplice pleonasmo, quando invece di 'volontà' senz'altro, diciamo 'volontà di vivere'." (Mondo)
Questa volontà è, secondo Schopenhauer,il fondo non solo del nostro, ma di tutti gli esseri. Come "cosa in sé", infatti, la volontà è fuori dello spazio e del tempo; e poiché da questi dipendono la molteplicità e l'individualità degli esseri, la volontà non è molteplice ma unica, e si trova tutta in ciascun essere. I vari esseri non sono che i modi in cui la volontà, moltiplicandosi e individuandosi nello spazio e nel tempo, realizza se stessa.
Gli esseri in cui la volontà si individua appaiono e scompaiono, ma in essi si ripetono forme sempre uguali; perciò Schopenhauer afferma che la volontà si obiettiva per gradi, prima in tali forme generali, poi negli individui, e nelle prime riconosce "le idee di Platone, in quanto essi gradi sono appunto le specie determinate, o le originarie, immutabili forme e proprietà di tutti i corpi naturali, sia organici che inorganici".
Secondo questa concezione, ne La volontà nella natura, Schopenhauer prospettò una filosofia della natura affine a quella di Schelling: egli infatti mette in risalto l’organicità degli esseri naturali, nella quale vede riflessa l’unità della volontà che domina ogni essere. Dall'altra parte, però, fa risaltare i contrasti che caratterizzano la natura, e dipendono dal fatto che ogni essere, contenendo in sé l'intera volontà, tende a realizzare se stesso in modo esclusivo, anche a danno degli altri. “Il mondo animale - sintetizza Schopenhauer - ha per proprio nutrimento il mondo vegetale; ogni animale diventa preda e nutrimento di un altro; la specie umana ritiene la natura creata per proprio uso e consumo e rivela in sé la medesima lotta o il dissidio della volontà: homo homini lupus”.
L'uomo, in effetti, è la manifestazione culminante della volontà, in cui questa acquista (con la comparsa del cervello) l'intelligenza e la coscienza; ma anche l'intelligenza non è che uno strumento della volontà. Qualunque cosa l'uomo voglia o faccia, anche se crede di proporsela liberamente, non è in effetti per Schopenhauer che un’affermazione della volontà di vivere. Così, ad esempio, l'amore che ciascuno vive come una scelta personale, non è in realtà che un trucco del "genio della specie", che procura alla volontà nuovi esseri in cui manifestarsi (rovesciamento della concezione "romantica" dell'amore).
In quanto dominata dalla volontà, la vita è essenzialmente dolore: volontà è infatti desiderio, cioè mancanza, e quindi dolore. “L'appagamento e la gioia non possono essere altro, se non la liberazione da un dolore, da un bisogno”; sicché “ciò che in genere si chiama felicità è propriamente negativa, mai positiva”. Con la soddisfazione del bisogno, inoltre, cessa il desiderio ma con questo anche il piacere; se non sopravviene un nuovo desiderio (cioè un nuovo dolore) subentra la noia: “dei sette giorni della settimana, sei sono colmi di fatica e di dolore e il settimo di noia”.
Infine, poiché la volontà è infinita, nessun oggetto, una volta conseguito, può darle un appagamento definitivo; ma “rassomiglia all' elemosina che, gettata al mendico, prolunga oggi la sua vita per continuare domani il suo tormento”; e la vita è “perenne tendere senza una meta ultima e ogni meta raggiunta è a sua volta principio di un nuovo percorso e così all'infinito”.
Ma la vita non è solo dolore: essa è in fondo priva di senso e di scopo. La volontà che la agita, infatti, come è fuori dello spazio e del tempo, così è sottratta al principio di causa o ragion sufficiente, e non agisce che per affermare se stessa. E ciò vale per l'individuo e vale anche per l'umanità: per Schopenhauer infatti la storia non ha alcun fine né è guidata da provvidenza alcuna: essa non è dominata dalla ragione, come voleva Hegel, ma dal destino, e, sia pure in forme diverse, ripete fatalmente le stesse vicende. “I desideri sempre inappagati, il vano aspirare, le speranze calpestate senza pietà dal destino, i funesti errori di tutta la vita, con accrescimento di dolore e con morte alla fine: ecco - conclude Schopenhauer - la vita”; e il mondo è “l'inferno, e gli uomini sono a vicenda anime dannate e dèmoni”. Il mondo in cui viviamo è, dunque, il peggiore dei mondi possibili. Di ciò, tuttavia, l'uomo si rende conto, e può anche proporsi di liberarsi dalla volontà di vivere (il che non è contraddittorio, perché la volontà non è razionale). Questa liberazione può avvenire, secondo Schopenhauer, per tre gradi: l'arte, la giustizia e la compassione, e l'ascesi.
La contemplazione estetica, secondo Schopenhauer, diversamente dalla conoscenza comune e scientifica, non mira a conoscere le cose per usarle, e quindi non è legata alla volontà di vivere; essa mira a cogliere nelle cose l’idea (in cui, come si è visto, si obiettiva innanzitutto la volontà); e “chi è assorto in tale intuizione non è più individuo ma puro soggetto della conoscenza, fuori della volontà, del dolore, del tempo”.
Questa intuizione, secondo Schopenhauer, appartiene soprattutto al genio; ed è da essa che si genera l'arte, nelle sue varie forme. Ogni arte, secondo Schopenhauer, coglie una delle forme in cui si manifesta originariamente la volontà; la musica, invece, coglie direttamente la volontà, e “ne narra la storia più segreta”. In ciò secondo Schopenhauer (che riprende così i motivi salienti dell'estetica romantica) risiede la sua superiorità. Ma l'efficacia dell'arte è limitata e temporanea: essa non è liberazione dalla vita ma consolazione della vita. Per liberarsi dalla volontà è necessario vincere l'egoismo, da cui si generano tutti i contrasti della vita, e quindi l’illusione dell'individualità. Esso è vinto dalla giustizia, che ci fa considerare gli altri pari a noi stessi, e soprattutto dalla compassione, che ci fa avvertire che negli altri si agita la nostra stessa volontà di vivere. Essa fa cadere ogni ragione di preferire sé agli altri e ci rende insensibili ai nostri piaceri in virtù della comprensione dei dolori altrui.
Ma “compatire” è pur sempre “patire”; la liberazione dalla volontà richiede invece l'estinzione di ogni sentimento. Questo si raggiunge solo con l'ascesi, cioè con la castità, la povertà volontaria, la mortificazione e infine la morte come “desiderata liberazione” (che non è il suicidio: questo, infatti non sopprime la volontà ma il corpo, cioè il fenomeno, e, in quanto protesta contro la vita che è toccata, è piuttosto un'affermazione della volontà di vivere).
L'ascesi conduce al distacco dalle seduzioni sensibili; con essa la volontà si converte in “noluntas” e al tumulto della vita succede la quiete del “nirvana”. “Quel che rimane dopo la soppressione completa della volontà, è invero, per tutti coloro che della volontà sono ancora pieni, il nulla. Ma viceversa per gli altri, in cui la volontà si è distolta da se stessa e rinnegata, questo nostro universo tanto reale, con tutti i suoi soli e le sue vie lattee, è esso - il nulla.” .
La concezione di Schopenhauer, come s'è detto, ebbe successo scarso in principio, via via più largo dopo la metà del secolo, certo perché il suo pessimismo venne a corrispondere alla sfiducia e alla depressione che seguirono al crollo delle grandi speranze del Quarantotto. Ad essa si è poi tornati più volte, in momenti di crisi del razionalismo (della filosofia o della scienza); ma il suo fascino è indubbiamente dovuto anche al fatto che essa non affronta solo problemi teorici ma problemi di vita.