Assieme alla musica più "colta" e più ricercata, che conobbe lungo la prima parte dell’Ottocento complesse evoluzioni, va menzionata una musica più "facile" e meno "autonoma", ma che ebbe una straordinaria fortuna presso il pubblico più largo della classi medie: il melodramma.
Esso era peraltro alquanto articolato: il Grand-Opéra non era l’opéra-comique. Nel corso del Settecento aveva già conosciuto una sua peculiare storia, contrassegnata dal declino della musica e dei musicisti italiani. La riforma che vi aveva apportato Christoph Willibald von Gluck aveva avuto questa ed altre conseguenze: ne pagarono fra gli altri le conseguenze Luigi Cherubini (1760-1842) e Gaspare Spontini (1744-1851) che, andati a Parigi, dovettero adattarvi la propria musica.
Nel melodramma di questi anni Gioacchino Rossini (1792-1868) giocò un ruolo ambivalente. Per un verso, si distanziò dai canoni più esasperati del romanticismo dei suoi tempi, per un altro, dovette in parte adattarsi alle nuove tendenze.
Importante fu la fortuna che riscosse presso il pubblico italiano, che riuscì ad unificare, conquistando anche il pubblico meridionale. Il melodramma romantico italiano, come poi in genere il romanticismo italiano, non era incline - a differenza di alcuni suoi omologhi europei - ad aneliti verso l’infinito o a irresolubili drammi individuali: in una parola, fu più appassionato che tragico.
Questo lo si riscontra tanto nell’opera del siciliano Vincenzo Bellini (1801-1835), l’ultimo grande rappresentante della musica melodrammatica meridionale, quanto in quella del bergamasco Gaetano Donizetti (1797-1848).
Costituì invece un fenomeno musicale non solo italiano Giuseppe Verdi (1813-1901), che seppe interpretare le aspirazioni nazionali del suo pubblico, non solo borghese, il quale dal 1848 in poi vide in lui il musicista capace di fondere melodie auliche e vena popolare, di costruire grandiose opere corali e collettive.
La sua opera fu ampia e la sua attività musicale durò a lungo ed è anche probabile che le sue più meditate consapevoli realizzazioni vennero dopo il 1871, anno in cui mise in scena la sua Aida. Certo è che l’origine della sua poetica e della sua ispirazione musicale era intrecciata alla riforma romantica del melodramma ottocentesco e al tentativo dei musicisti italiani di riguadagnarvi un ruolo di protagonisti.
Anche chi non sapeva leggere e scrivere poteva, almeno teoricamente, andare a teatro o comunque seguire una rappresentazione teatrale (semmai, ad esempio, in strada).
Nel processo di costruzione di un’identità culturale e nazionale italiana, quindi, il teatro svolse un ruolo non trascurabile, rispetto a quello pur sempre fondamentale della scuola e della stampa. Come altrove, però, anche in Italia il mondo del teatro era profondamente diversificato e stratificato.
Rispetto alla Francia e alle sue compagnie stabili, quello della penisola continuò ad essere un teatro di compagnie mobili. Tragedie settecentesche ed azioni comiche "a soggetto" costituivano il repertorio. Fra le tragedie, la Francesca da Rimini (1815) di Silvio Pellico, o Il conte di Carmagnola (1819) e l’Adelchi (1822) di Manzoni conobbero una notevole fortuna.
La commedia di costume continuava però ad attrarre pubblici importanti. Commedie comiche goldoniane o riprese da testi ottocenteschi stranieri (Dumas, per esempio) riscontrarono successi di pubblico. Il melodramma musicale, infine, era un punto di forza italiano.
Fra i titoli di Rossini possono essere ricordati opere buffe come Il barbiere di Siviglia (1816) o serie come Mosé (1818) o Guglielmo Tell (1829).
Dopo le sue, i teatri ospitarono opere di un Bellini o di un Donizetti.
Che il melodramma o l’opera lirica avessero un ruolo anche nel processo di unificazione, politica e culturale, degli italiani è comunque elemento che risalta dai titoli e dai successi di pubblico di Giuseppe Verdi: del quale si ricordano almeno opere come Nabucco (1842), Ernani (1844), Rigoletto (1851), Il trovatore (1853), La traviata (1853), Aida (1871), per arrivare poi sino all’ultima sua e più complessa fase
Nato il 29 febbraio 1792 a Pesaro, Gioachino Rossini ricevette le prime nozioni musicali proprio dal padre, suonatore di corno, e dalla madre cantante.
Nel 1804 si iscrisse al Liceo musicale di Bologna, dove la famiglia si era stabilita, divenendo allievo dello stesso fondatore del Liceo, il celeberrimo contrappuntista padre Stanislao Mattei (1750-1825), studiando appassionatamente, sotto la sua guida, oltre ai modelli contrappuntistici, i capolavori cameristici e vocali di Haydn e Mozart.
Risalgono al periodo bolognese lavori nel genere sacro e strumentale, quali le sei sonate a quattro per archi (1804) e la prima opera seria, al momento ineseguita, Demetrio e Polibio (1807-8).
A Bologna Rossini rimase fino al 1810, l’anno in cui debuttò a Venezia con la farsa La cambiale di matrimonio, cui seguirono freneticamente il dramma giocoso L’equivoco stravagante, eseguito a Bologna nel 1811, le farse L’inganno felice, La scala di seta e L’occasione fa il ladro, messe in scena a Venezia nel 1812, anno in cui Rossini approdò anche a Milano col dramma giocoso La pietra del paragone, e Il signor Bruschino, allestito a Venezia nel 1813.
L’attività di Rossini proseguì febbrile sia con l’opera seria (Tancredi, la prima del genere, nel 1813, cui seguirono con ben diverso successo Aureliano in Palmira andato in scena a Milano nel 1813 e Sigismondo, allestito a Venezia nel 1814) che col repertorio comico-farsesco (Il turco in Italia, rappresentato a Milano nel 1814): finché nel 1815 divenne direttore artistico e musicale dei teatri San Carlo e del Fondo di Napoli. L’impresario era lo scaltro Domenico Barbaja, che nel giovane compositore pesarese aveva già individuato un talento impareggiabile.
A Napoli Rossini incontrò un’agguerrita compagine di cantanti, nella quale spiccava il grande soprano Isabella Colbran, la cui voce agile e limpida gli ispirò le pagine più belle. La Colbran, che Rossini aveva conosciuto amante di Barbaja, sarebbe poi divenuta sua moglie nel 1822.
La loro felicità non fu però durevole. A Napoli scrisse ben nove opere serie in sette anni: Elisabetta regina d’Inghilterra (1815), Otello (1816), Armida (1817), Mosè in Egitto e Riccardo e Zoraide (1818), Ermione e La donna del lago (1819), Maometto II (1820) e Zelmira (1822).
Il contratto che legava Rossini a Barbaja non gli impediva di comporre per altri teatri, cosa che il musicista continuò a fare: a Roma andarono così in scena Il barbiere di Siviglia e La Cenerentola.
Negli anni napoletani immediatamente successivi al Barbiere (1816) Rossini ebbe modo di sperimentare l’enorme espansione dei finali d’atto e del tessuto orchestrale, i procedimenti di accumulazione timbrica e di stratificazione sonora che tanto avrebbero contato per l’evolversi dell’orchestrazione verdiana.
Tecnica drammaturgica tutta rossiniana fu quella d’innescare lungo tutto l’atto la miccia della tensione spingendola al massimo proprio prima della chiusura del sipario, in lunghi pezzi d’insieme conclusivi in cui il coro partecipa attivamente all’ingarbugliarsi dell’azione.
Il nonsense, che prende vita dalla frantumazione del testo e del suono scheggiato in timbri sempre più acuti, cresce col lievitare dello spessore sonoro.
La maggiore drammaticità dei recitativi accompagnati e il ripensamento della funzione dell’ouverture, o "sinfonia avanti l’opera", che diviene un pezzo strumentale in tutto e per tutto autonomo e indipendente sono le altre novità che Rossini continua a introdurre e sviluppare in opere composte a partire dal 1816 e fino alla Semiramide del 1823.
Iniziavano ora i viaggi del maestro pesarese che si spostò prima a Londra e poi a Parigi, dove si stabilì accettando l’incarico di direttore artistico del Théâtre-Italien e componendo lavori per l’Opéra di Parigi che culminarono nel Guillaume Tell del 1829.
È il capolavoro, il gioiello di Rossini che getta le basi di tutto l’operismo europeo ottocentesco. Neppure lo stesso Rossini se la sentì di provare a superare questa sua opera e da quell’anno, al colmo del successo, decise di ritirarsi dalle scene teatrali.
A trentasette anni Rossini si era ritirato dal teatro, principalmente - a quanto è dato sapere - per motivi di salute, anche se sulla sua decisione influì il clima poco favorevole creatosi con l’avvento della monarchia di Luglio per la sua persona e per la sua musica, legate strettamente agli ultimi Borbone.
Rientrato in Italia nel 1836, si stabilì prima a Bologna e poi a Firenze. Isabella Colbran moriva nel 1845, e l’anno successivo Rossini si risposò con Olympe Pélissier.
Concluso il soggiorno italiano, angustiato anche da accuse di atteggiamenti reazionari e antipattriottici, nel 1855 Rossini tornò definitivamente in Francia, prendendo dimora a Passy, nei pressi d’una Parigi ormai troppo caotica e salottiera per lui.
Oltre a prodigarsi per avvantaggiare la carriera di Bellini e Donizetti, gli tornò la voglia di comporre. Sono di questo periodo vari pezzi per pianoforte, danze e cantate, e i Pechés de vieillesse, i "peccati di vecchiaia". Rossini chiamò così, spiritosamente, i suoi ultimi lavori, fra i quali spiccano opere sacre quali lo Stabat Mater e la Petite Messe solennelle (Piccola Messa solenne), per soli, piccolo coro, due pianoforti e armonium.
La musica sacra rossiniana fa capitolo a sé nella storia della musica ed esce totalmente dagli schemi liturgici. La vicenda compositiva dello Stabat Mater aveva avuto inizio nel 1831: Rossini era riuscito a comporre solo sei dei dieci brani dell’opera, dopodiché ne aveva affidato al suo vecchio compagno di studi Giovanni Tadolini il completamento, ma la vena creativa era tornata e Rossini portò l’opera a termine da solo.
Più curiosa che mai la Petite Messe solennelle del 1863, già con quel titolo che pare uscito dal cervello novecentesco di Erik Satie. La Messa era accompagnata da una postilla: "Buon Dio," scrisse di suo pugno Rossini "eccola finita questa povera piccola Messa. È della musica sacra che ho fatto, o della musica dannata? Ero nato per l’opera buffa, tu lo sai bene! Poca scienza, un po’ di cuore, tutto lì. Sii dunque benedetto e accordami il paradiso". Gioachino Rossini si spense a Passy il 13 novembre 1868.
Domenico Gaetano Maria Donizetti nacque a Bergamo nel 1797, penultimo dei sei figli d’una famiglia poverissima, che mai poteva avere i mezzi per incoraggiarne il talento musicale.
Una circostanza fortunata segnò però la vita del piccolo Gaetano: a Bergamo, il compositore di origine bavarese Giovanni Simone Mayr aveva fondato le "Lezioni caritatevoli di musica", scuola musicale professionale.
Qui dal 1806 al 1815 Donizetti ricevette una seria e severa educazione, alla quale seguirono due anni di perfezionamento presso il Liceo Musicale di Bologna con il più illustre maestro d'Italia, padre Stanislao Mattei, già istruttore di Rossini.
Fu un periodo molto fecondo, in cui il giovane compositore si dedicò prevalentemente alla musica sacra e strumentale: e fu nel 1817 che ebbero inizio gli appuntamenti settimanali, ai quali non sarebbe mai mancato fino al 1821, con i concerti tenuti in casa del musicofilo Alessandro Bertoli da una formazione in cui Simone Mayr era alla viola.
Per essi nel 1818 compose, "alla maniera di Haydn", il primo di una serie di quartetti per archi, in mi bemolle maggiore. Tuttavia già in questi anni emerse la vocazione di Donizetti per il melodramma: l'occasione di rappresentare finalmente una sua opera (ne aveva già scritte tre durante il soggiorno a Bologna) gli venne offerta dall'amico d'infanzia Bartolomeo Marelli, giovane agente teatrale e futuro impresario della Scala, nonché librettista, che ottenne una scrittura per il teatro San Luca di Venezia.
Tuttavia gli sfortunati esordi veneziani del 1818 con Enrico di Borgogna e del 1820 a Mantova con I piccioli virtuosi ambulanti lo allontanarono dal teatro per l’intero anno seguente, essendo egli convinto di non essere ancora in grado di "dominare le convenienze teatrali".
Nel 1821 però Mayr offrì alla coppia Donizetti-Marelli una nuova occasione per dimostrare il proprio talento, girando loro l'incarico di scrivere un’opera per il Teatro Argentina di Roma.
Così, nel 1822, la Zoraide in Granata, riscosse grande successo di pubblico, aprendo finalmente al giovane compositore le porte di Napoli, capitale indiscussa dell'opera italiana.
Nel 1822 a Napoli l'opera semiseria La zingara e la farsa La lettera anonima vennero accolte con favore. Per Donizetti era il momento propizio per tentare d’imporsi sul pubblico settentrionale: Rossini si era trasferito a Parigi, lasciando campo libero alla Scala di Milano.
L'esordio milanese fu però decisamente infelice. Dopo altri insuccessi napoletani, finalmente nel 1824 la fortuna volse a suo favore: L'aio nell'imbarazzo venne accolto con grande entusiasmo e varcò i confini della penisola, consacrandone la fama anche all'estero. Dopo una parentesi palermitana (nel 1825 venne nominato direttore del Teatro Carolino), tornò a Napoli, dove nel 1827 venne nominato direttore del Teatro Nuovo e si legò all'impresario Domenico Barbaja con un contratto per dodici opere in tre anni.
Gli anni 1829-30 furono anni di intenso lavoro di routine che non diedero soddisfazione a Donizetti, la cui salute cominciava a vacillare e il cui spirito era rattristato dalla morte del primo figlio, nato prematuro. Alla fine del 1830 vide però la luce il suo primo capolavoro drammatico, Anna Bolena.
Nel 1832 scrisse il melodramma giocoso L'elisir d'amore, che segnò la raggiunta maturità donizettiana nell'opera buffa. Anche nel dramma tragico dette prova d’una maggiore padronanza stilistica e fra il 1832 e il 1833 i trionfi si avvicendarono in tutta Italia. Nel 1834 venne nominato maestro di contrappunto e di composizione del Real Collegio di Musica e Rossini lo invitò al Théâtre-Italien di Parigi.
L'esordio parigino con Marin Faliero (1835) non fu dei migliori: ma al ritorno a Napoli, dall'incontro con il poeta Salvatore Cammarano, nacque il suo capolavoro tragico, Lucia di Lammermoor. Gli anni fra il 1835 e il 1837 furono anni drammatici per la sua vita privata: morirono il padre, la madre e la secondogenita, anch'essa nata prematura, poi il terzo figlio appena nato e infine, all'età di soli 29 anni, anche la moglie Virginia.
Queste circostanze e varie delusioni professionali lo spinsero a lasciare definitivamente Napoli per Parigi. Qui nel 1840 La fille du régiment segnò il suo trionfo all'Opéra-Comique. Pochi mesi dopo, con il dramma La favorite debuttò all'Opéra riscuotendo grande successo.
Nel 1842 era a Vienna dove Linda di Chamounix venne accolta in modo trionfale ed egli venne nominato maestro di cappella e di camera e compositore di corte. Poi tornò in Italia per rappresentare al San Carlo di Napoli il suo ultimo capolavoro comico, Don Pasquale.
La sua salute era decisamente peggiorata: febbri nervose e mal di testa, sintomi di una sifilide contratta forse in gioventù, resero il suo lavoro assai difficile. Dopo l'ultimo successo di Dom Sébastien a Parigi e l'insuccesso di Caterina Cornaro a Napoli, la sua vita artistica si concluse nel 1844.
L'anno successivo tornò a Parigi dove le sue condizioni si aggravarono terribilmente. Colto da paralisi mentale venne rinchiuso nel manicomio di Ivry, dove rimase per quasi due anni.
Solo l'intervento dell'ambasciata austriaca presso le autorità francesi permise a Donizetti, ormai incosciente, di tornare in Italia dove morì a Bergamo nel 1848.
Vincenzo Salvatore Carmelo Francesco Bellini nacque a Catania il 3 novembre 1801 da una famiglia di musicisti. Fu il padre Rosario ad impartirgli le prime lezioni di musica, assieme al nonno Tobia Vincenzo, compositore e organista, con cui Bellini visse a lungo.
Ben presto il nobile locale per cui il nonno lavorava, il duca di San Martino, notò il giovane talento e convinse il vecchio a lasciarlo andare a Napoli. Qui, a partire dal 1819, il benefattore lo inserì nel Real Collegio di Musica di San Sebastiano, diretto dal celebre compositore Nicola Zingarelli (1752-1837), uno dei massimi rappresentanti della scuola operistica napoletana.
Con lui il giovane Bellini studiò composizione, mentre come maestri di armonia e contrappunto ebbe musicisti del calibro di Giovanni Furno e Giacomo Tritto. Gli anni di conservatorio lo videro compiere passi da gigante: arrivato dalla provincia musicale, Bellini venne tenuto un anno intero nella classe dei Principianti.
Poi però spiccò il volo e nel 1824 si vedeva conferire dal direttore Zingarelli la nomina a Primo Maestrino del Conservatorio, con una camera tutta per sé: non poco, nell’organizzazione militaresca del Real Collegio partenopeo.
Un anno dopo il saggio di diploma, l’opera semiseria con dialoghi parlati Adelson e Salvini del 1825, il famosissimo impresario del San Carlo di Napoli e della Scala di Milano Domenico Barbaja, già artefice del successo di Rossini, lo prese sotto la sua ala.
Alla prima commissione per Napoli del 1826, Bianca e Gernando, seguì quella del 1827 per Milano, Il pirata. A partire da quella data Bellini si stabilì nella città lombarda, dove avviò il sodalizio col grande librettista Felice Romani (1788-1865) e dove si rese protagonista della vita mondana nei salotti dell’alta società meneghina. Qui strinse la sua amicizia con donne celebri come Giuditta Pasta e Maria Malibran che furono spesso le sue prime grandi interpreti.
Il sodalizio fra Vincenzo Bellini e Felice Romani, apertosi con Il pirata nel 1827, fu duraturo. Romani scrisse tutti i libretti per Bellini tranne l’ultimo, quello dei Puritani.
Proprio il successo della prima opera su libretto di Romani aprì a Bellini le porte dei più prestigiosi salotti di Milano, introducendolo alle cerchie più esclusive della finanza, dell’arte e della cultura.
Saverio Mercadante, inoltre, gli aveva presentato i coniugi Francesco e Marianna Pollini, anziani musicisti amici di Zingarelli, maestro dell’artista a Napoli, che accolsero Bellini nella loro casa come un figlio, curandolo nei primi anni delle sue difficoltà di salute (le vite di Mercadante e Bellini si intrecciano anche sul piano professionale: il 31 agosto del 1831 la Zaira di Mercadante che va in scena al Teatro San Carlo di Napoli recupera il libretto che due anni prima Felice Romani aveva scritto per Bellini).
Un altro legame significativo fu quello, a partire dal 1828, con la cantante Giuditta Pasta. Nella sua casa, punto d’incontro dei maggiori intellettuali, Bellini conobbe Giuditta Turina, una giovane maritata cui lo legò una passione travolgente. A partire dal 1829 Bellini iniziò a soffrire di strani malanni: attacchi di dissenteria e febbri improvvise lo colpivano senza causa apparente, debilitandolo nel fisico e nella psiche.
Di lì a poco la collaborazione con Romani avrebbe dato i suoi migliori frutti con La sonnambula e Norma del 1831. A separare i due, nel marzo 1833, fu l’insuccesso di Beatrice di Tenda. La loro tempestosa divisione pose fine anche alla ormai tormentata relazione di Bellini con la Turina.
Subito dopo, era aprile, il musicista, sull’esempio di Rossini, partì per Londra, dove aveva firmato una scrittura come compositore di opere e direttore d’orchestra, ma il clima londinese era insopportabile per la sua salute precaria.
Nell’agosto del 1833 Bellini si trasferì a Parigi, dove divenne amico di Chopin e soprattutto di Rossini che lo incoraggiò a scrivere I Puritani. Con quest’opera, a gennaio del 1835, Bellini conquistò Parigi.
Sempre più debilitato, nei mesi successivi tentò la riconciliazione epistolare con Romani.
Non ancora trentaquattrenne, si spense il 23 settembre 1835 nella residenza di Puteaux vicino Parigi.
Rossini partecipò commosso al suo funerale: Bellini venne sepolto provvisoriamente a Parigi e solo nel 1876 i suoi resti vennero trasferiti nella natìa Catania.
Giuseppe Verdi nacque il 9 o il 10 ottobre 1813 a Roncole di Busseto, una piccola frazione di Busseto, in provincia di Parma, dove papà Carlo e mamma Luigia gestivano una piccola osteria: qui ricevette la sua prima formazione musicale dall’organista della chiesa di Roncole, don Pietro Baistrocchi.
Alla sua morte, nel 1823, Verdi si stabilì a Busseto per frequentare il ginnasio presso i gesuiti, proseguendo gli studi musicali con l’organista Ferdinando Provesi, che dirigeva la scuola di musica municipale.
Per la Società Filarmonica di Busseto, ancora adolescente, Verdi iniziò la propria attività compositiva e incontrò il commerciante Antonio Barezzi che, dopo averlo ospitato in casa sua, nel 1832 lo avrebbe aiutato a entrare in conservatorio a Milano, dove al primo tentativo non era stato ammesso.
Nel 1836 Verdi tornò a Busseto per prendere il posto dello scomparso Provesi e sposò Margherita Barezzi. La felicità del fortunato esordio milanese con l’Oberto conte di San Bonifacio fu di breve durata: Verdi perse i due figlioletti e la moglie.
Il suo dolore contribuì al fiasco di Un giorno di regno alla Scala. Nel 1842 il successo di Nabucco segnò l’inizio di quelli che il musicista stesso chiamerà "anni di galera", trascorsi dal 1848 in poi nella tenuta di Sant’Agata da cui continuò a scrivere e a consolidare la propria carriera, iniziando la collaborazione col librettista Francesco Maria Piave.
Poi iniziarono i viaggi. Prima di tutto verso Parigi, dove ritrovò la cantante Giuseppina Strepponi: la sposò nel 1859, otto anni dopo aver perso la madre.
Il lavoro portò Verdi sempre più lontano: dopo Parigi e Londra fu la volta di San Pietroburgo, nel 1862, poi ancora Parigi, nel 1865 e nel 1867.
Gli anni Settanta furono quelli delle polemiche coi filowagneriani e gli "scapigliati", nonché quelli della crisi matrimoniale e della nomina a senatore, nel 1874.
Dopo la morte della Strepponi, nel 1897, Verdi spirò a Milano nella sua stanza dell’Hotel Milan il 27 gennaio 1901.