Critico, e in parte anche continuatore, di Hegel, anche se autore di una concezione per molti altri aspetti originale e soprattutto destinata ad influenzare profondamente la storia politico-sociale, è Karl Marx.
Marx nacque a Treviri (Renania) nel 1818, da famiglia ebraica costretta a convertirsi al protestantesimo dalle leggi antisemitiche; studiò giurisprudenza prima a Bonn e poi, dal 1836, a Berlino, dove seguì i corsi dello storicista Savigny e di Eduard Gans, hegeliano di tendenze liberali.
Qui entrò nel «Doktorclub», un circolo di hegeliani, e strinse amicizia soprattutto con Bruno Bauer, che proprio in quegli anni stava passando dalla destra alla sinistra hegeliana.
A partire dal 1838 Marx si orientò verso lo studio della filosofia, aderendo a posizioni sostanzialmente hegeliane, e preparò una tesi di laurea in questa disciplina, dal titolo Differenz der Demokritischen und Epikurischen Naturphilosophie (Differenza tra la filosofia della natura di Democrito e quella di Epicuro), che presentò nel 1841 all'università di Jena, conseguendovi la laurea in absentia.
Dopo la laurea Marx tentò la carriera universitaria, confidando nell'appoggio dell'amico Bauer, allora professore a Bonn, ma, in seguito all'allontanamento di quest'ultimo dall'università, dovette rinunciarvi, dedicandosi al giornalismo.
Dal 1841 fu infatti redattore della «Rheinische Zeitung» (Gazzetta renana) giornale liberal-radicale a cui collaboravano gli esponenti della sinistra hegeliana (Bauer, Ruge ed altri), che venne chiuso dal governo nel 1843.
In questo periodo Marx studiò Feuerbach e ne condivise la critica a Hegel, scrivendo a sua volta Zur Kritik der Hegelschen Rechtsphilosophie (Critica alla filosofia hegeliana del diritto pubblico, 1843), di cui pubblicò però, nel 1844, solo l'introduzione negli «Annali franco-tedeschi» fondati da Ruge a Parigi, dove nel frattempo egli stesso si era trasferito.
Qui Marx conobbe i socialisti Proudhon e Blanc e soprattutto Friedrich Engels, allora studioso di economia, che diventò suo collaboratore per tutta la vita. Egli stesso cominciò a interessarsi di economia studiando gli autori dell'economia politica classica (Smith, Ricardo e altri) e scrivendo, sempre nel 1844, i cosiddetti Manoscritti economico-filosofici del 1844, rimasti inediti e pubblicati solo nel 1932.
In questo periodo avvenne la sua adesione al comunismo.
Nel 1845, a causa della sua collaborazione ad un giornale di socialisti tedeschi che si pubblicava in Francia, il «Vorwärts!» (Avanti!), Marx fu espulso dal paese e si recò a Bruxelles, dove scrisse in collaborazione con Engels Die Heilige Familie (La sacra famiglia), Die deutsche Ideologie (L'ideologia tedesca) e le Thesen über Feuerbach (Tesi su Feuerbach), tutte nel 1845, in cui si criticano prima gli esponenti della sinistra hegeliana (Bruno Bauer, suo fratello Edgar e Stirner) e poi lo stesso Feuerbach, e, nel 1847, la Misère de la philosophie (Miseria della filosofia), in cui si critica Proudhon.
Nel 1848, per incarico della «Lega dei comunisti», Marx ed Engels scrissero il Manifesto del partito comunista. Scoppiata la rivoluzione del 1848, Marx tornò in Germania, dove fondò a Colonia la «Neue Rheinische Zeitung» («Nuova Gazzetta renana»), che però fu subito chiusa per il fallimento della rivoluzione.
Riparato di nuovo a Parigi, Marx fu nuovamente espulso anche dalla Francia e si rifugiò a Londra, dove visse fino alla morte (1881), mantenendo se stesso e la sua famiglia praticamente grazie all'aiuto finanziario dell'amico Engels.
In questo periodo si dedicò soprattutto a studi di economia, scrivendo i Grundrisse der Kritik der politischen Ökonomie (Lineamenti fondamentali di critica dell'economia politica, 1857-58), pubblicati solo nel 1939-41, Zur Kritik der politischen Ökonomie (Per la critica dell'economia politica, 1859) e Das Kapital.
Il primo libro di quest'opera uscì nel 1867, mentre il secondo e il terzo uscirono postumi a cura di Engels, così come le Theorien über den Mehrwert (Teorie sul plus-valore), che dovevano formarne il quarto libro.
Nel 1864, a Londra, Marx fondò l'«Associazione internazionale dei lavoratori», nota come «Prima Internazionale», che per vari contrasti interni si sciolse nel 1876.
Alla dottrina di Marx si ispirò il partito operaio tedesco, fondato a Eisenach nel 1869, che poi prese il nome di Partito socialdemocratico.
Quando però, nel 1875, questo partito si fuse con l'Associazione nazionale degli operai tedeschi fondata da Ferdinand Lassalle filosofo tedesco socialista, già amico di Marx e poi entrato in dissidio con lui, Marx prese le distanze da esso, scrivendo la Kritik der Gothaer Programms (Critica del programma di Gotha), che fu la sua ultima opera importante.
Già nella tesi di laurea, e specialmente nei lavori preparatori ad essa, Marx, prendendo posizione a favore di Epicuro, si schiera implicitamente con i «Giovani Hegeliani» contro Hegel, e mostra di essere al corrente delle critiche rivolte a quest'ultimo da Feuerbach e da Trendelenburg.
Anzi, in polemica contro lo stesso Trendelenburg, egli prende le difese addirittura della dialettica di Aristotele, da lui giudicata molto più reale e meno formale di quella di Trendelenburg.
Negli stessi scritti Marx rileva l'inadeguatezza di una filosofia, come quella hegeliana, che vorrebbe comprendere interamente il mondo, ma lascia sussistere accanto al mondo reale-razionale un mondo apparente, ed afferma la necessità di una filosofia nuova, che si ponga col mondo in un rapporto pratico di trasformazione.
Ma la presa di posizione radicalmente critica nei confronti di Hegel si ha con la Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, dove Marx critica uno ad uno i paragrafi dei Lineamenti di filosofia del diritto di Hegel dedicati al rapporto tra famiglia, società civile e Stato.
Una prima importante osservazione sviluppata da Marx è che, in Hegel, famiglia e società civile sono due momenti astratti, o ideali, che trovano la loro realtà concreta nello Stato, incarnazione dell'idea reale, cioè dello Spirito; invece, secondo Marx, famiglia e società civile sono i veri soggetti reali, che agiscono nella realtà e sono indispensabili all'esistenza dello Stato, mentre lo Stato non è altro che un'idea, nella quale Hegel vorrebbe unificarli.
Insomma Hegel scambia l'elemento ideale, lo Stato, per il soggetto concreto della storia e gli effettivi soggetti reali, la famiglia e la società civile, per suoi momenti, ovvero per suoi predicati, commettendo un'inversione di soggetto e predicato.
Marx riprende dunque l'accusa mossa a Hegel da Feuerbach nel 1839, di avere cioè invertito i rapporti di predicazione. Il linguaggio in cui si esprime il giovane Marx è addirittura aristotelico, infatti egli indica il soggetto reale col termine hypokeimènon, cioè «sostrato».
Ma nella stessa opera Marx muove a Hegel anche una seconda obiezione, cioè quella di avere considerato i ceti (gli Stände, cioè gli «stati»), di cui è formata la società civile, come elementi di mediazione tra l'individuo, particolare, e lo Stato, universale, mentre per Marx dopo la Rivoluzione francese i ceti sono stati sostituiti dalle «classi sociali» (caratterizzate dall'uguaglianza giuridica e dalla disuguaglianza economica), le quali sono realtà tra loro opposte, cioè sono i termini di un'opposizione reale, in cui non è possibile nessuna mediazione logica.
Insomma, per Hegel la contraddizione è solo nel fenomeno, cioè nella realtà finita, che è pura apparenza, mentre nell'idea, che è la realtà vera, c'è l'unità; per Marx, al contrario, la contraddizione è reale, esiste nella società civile, che è la vera realtà, e non può essere risolta nell'unità dell'idea.
Si noterà che qui Marx concepisce la contraddizione nei termini di quella che Kant chiamava opposizione reale e Aristotele contrarietà, e, accusando Hegel di averla confusa con la contraddizione logica, riprende esattamente la critica mossagli da Trendelenburg nel 1840.
Analoga a questa è la critica che Marx muove alla dialettica hegeliana un anno dopo, cioè nei Manoscritti economico-filosofici, dove l'opera di Hegel presa in considerazione è la Fenomenologia dello spirito e Feuerbach è esplicitamente menzionato. Della dialettica hegeliana Marx non critica la forma, cioè «la negazione della negazione», vale a dire la posizione della contraddizione e l'affermazione della necessità del suo superamento, bensì il contenuto, ossia il modo in cui sono intesi i termini della contraddizione e la loro sintesi.
I primi, cioè le realtà finite, che Hegel considera puramente ideali, sono infatti per Marx autentiche realtà, quali la coscienza, cioè l'uomo, e l'autocoscienza, cioè l'uomo che si oggettiva nel prodotto del suo lavoro, mentre la sintesi indicata da Hegel, ossia il sapere assoluto, o l'infinito, che per Hegel è l'unica vera realtà, per Marx è soltanto un «oggetto mistico», cioè un'ipostatizzazione del pensiero umano, da cui, tra l'altro, non si vede come possa generarsi la natura. La stessa critica ritorna nel «Poscritto» alla seconda edizione del Capitale, uscita nel 1873, cioè trent'anni più tardi.
Qui Marx dichiara che Hegel è stato il primo ad esporre ampiamente e consapevolmente «le forme generali del movimento della dialettica», cioè il movimento prodotto dalla contraddizione, in base a cui «la comprensione positiva dello stato di cose esistenti include simultaneamente la comprensione della negazione di esso, cioè del suo necessario tramonto».
In Hegel, tuttavia, la dialettica è stata «capovolta», perché il soggetto reale del movimento è stato identificato con l'idea, cioè col processo del pensiero, e il reale è stato identificato col fenomeno, cioè con l'apparenza esterna di tale processo.
Per scoprire il «nocciolo razionale» della dialettica hegeliana, racchiuso entro il suo «guscio mistico», è necessario pertanto, secondo Marx, «rovesciarla», cioè restituire il ruolo di soggetto reale del processo alla società e alle sue classi.
In tal modo la dialettica diventa «critica e rivoluzionaria».
Il soggiorno di Marx a Parigi, iniziatosi nel 1844, orientò il suo interesse decisamente verso i problemi economici, come è attestato dai Manoscritti economico-filosofici del 1844, che contengono la prima formulazione della sua critica all'economia politica classica. Da questa Marx riprende anzitutto la nozione di lavoro, osservando che nella società capitalistica, formatasi in seguito alla rivoluzione industriale, cioè all'introduzione delle macchine come mezzi di produzione, il lavoro non è altro che una merce, il cui prezzo è costituito dal salario, il quale è determinato unicamente dalla legge della domanda e dell'offerta.
Poiché l'operaio è costretto, per sopravvivere, a vendere il suo lavoro: colui che lo acquista, cioè il padrone delle macchine, lo paga al prezzo più basso possibile e si appropria della differenza tra il valore del prodotto e il costo della forza-lavoro necessaria a produrlo, che costituisce il suo profitto, formando in tal modo il capitale.
La tendenza della società capitalistica è di pagare il lavoro sempre meno e di accrescere sempre più il profitto, cioè il capitale, determinando in tal modo uno sfruttamento sempre maggiore degli operai.
In tal modo si costituiscono in essa due classi, la borghesia, o classe dei capitalisti, i quali sono proprietari dei mezzi di produzione, e il proletariato, o classe degli operai, i quali sono proprietari soltanto della propria «prole»: queste due classi sono necessariamente in conflitto tra di loro, cioè costituiscono i termini di un'opposizione reale.
Fino a questo punto l'analisi di Marx non si discosta gran che da quella degli economisti politici classici, in particolare di Ricardo, il quale aveva già affermato il carattere necessariamente conflittuale della società industriale.
Un contributo originale portato da Marx, grazie alla sua formazione hegeliana, è invece l'osservazione che il lavoro è un'oggettivazione dell'uomo, perché l'uomo si realizza nel prodotto del suo lavoro, cioè trasferisce, per così dire, in esso la sua stessa essenza, come aveva detto Hegel nella Fenomenologia.
Tuttavia, aggiunge Marx, nella società capitalistica la proprietà del prodotto del lavoro viene sottratta a colui che lo produce, cioè all’operaio, perciò l'oggettivazione si trasforma in una alienazione e quindi l'uomo non solo si oggettiva nel lavoro, ma anche si aliena in esso, cioè diventa proprietà altrui, viene espropriato della sua stessa essenza.
L'alienazione però, prosegue Marx, non è necessaria, come credeva Hegel, il quale la confondeva con l'oggettivazione, ma è dovuta solo al modo in cui è organizzata la produzione nella società capitalistica, cioè al fatto che in questa i mezzi di produzione, vale a dire le macchine, sono proprietà privata.
Tale situazione, secondo Marx, non è dunque naturale, come sostiene l'economia politica classica, ma è legata ad una determinata situazione storica e pertanto è superabile.
Il superamento di essa è costituito dal comunismo, cioè da una nuova organizzazione dei rapporti di produzione, in cui la proprietà privata dei mezzi di produzione, che è la vera causa dell'alienazione, sia stata abolita e questi siano diventati di proprietà comune.
Nella società comunista, pertanto, cessa l'alienazione dei lavoro (non il lavoro come oggettivazione di sé), cioè l’uomo si riappropria della sua essenza, realizza la perfetta autocoscienza, vale a dire la coscienza di sé come essere sociale, ovvero come «essere appartenente ad un genere» (Gattungswesen, termine usato già da Feuerbach).
In tal modo l'uomo si riconcilia con gli altri uomini e si riconcilia anche con la natura, perché questa, trasformata da un lavoro non più alienato, non è più causa di alienazione e viene essa stessa umanizzata. Il comunismo dunque, conclude Marx, è un perfetto umanismo ed insieme un perfetto naturalismo.
Qui, come si vede, Marx applica alla società capitalistica l'analisi fatta dall'economia politica classica, però a differenza da quest'ultima, egli ritiene che le leggi della società capitalistica non siano leggi naturali, cioè universali ed eterne, ma siano espressione di una situazione storica particolare e destinata a cessare: in ciò consiste la sua critica dell'economia politica classica, cioè la negazione del suo carattere di scienza, di conoscenza di leggi necessarie.
Secondo Marx gli economisti classici (come Adam, Smith, Ricardo e Malthus) avevano messo in luce soltanto metà del problema.
Essi avevano mostrato il lato positivo del capitalismo in contrasto con quanto lo aveva preceduto. Mancava una critica storica del capitalismo.
Il capitalismo non è l'ordine naturale, stabile e permanente dello sviluppo sociale. Si tratta, allora, di stabilire il posto che esso occupa nell'evoluzione storica della società umana.
La scienza economica non faceva altro che criticare le sopravvivenze delle forme feudali di produzione; si deve ora passare alla critica dello stesso tipo capitalistico di produzione.
Il punto decisivo, secondo la visione marxista, era stabilire una precisa interpretazione del profitto come categoria del reddito.
Il profitto veniva considerato come quantità residuale, la cui entità è determinata da quella degli altri fattori dati: il valore del prodotto e il valore della forza-lavoro.
Tuttavia, secondo Marx, in questo modo il profitto restava qualcosa di residuale, senza una propria spiegazione: un enigma.
La necessità del profitto era stata presupposta dagli economisti classici, ma non spiegata. Mentre l'offerta limitata e la conseguente scarsità delle terre disponibili venivano suggerite come ragione della rendita e della sua acquisizione da parte del capitalista, il profitto restava inspiegato.
Perché, ad esempio, in regime di libertà economica e di concorrenza tale sovrappiù non tende a essere conglobato nella rendita o nei salari?
Per Marx, la spiegazione del profitto sta non in una qualità inerente al capitale come tale, né in un costo reale o in un'attività produttiva compiuta dal capitalista. La genesi del profitto sta come l'essenza nel rapporto tra capitalista e lavoratore.
Nelle precedenti strutture di classi (nell'età antica ed in quella medioevale) non esisteva alcun dubbio sul carattere di forza e di sfruttamento del rapporto padrone/schiavo o signore/servo. Anche la natura e l'origine del reddito della classe proprietaria erano chiaramente distinguibili.
Il padrone o il signore si appropriavano del sovraprodotto, al di sopra dell'occorrente al sostentamento dei propri schiavi o servi. Descrizione e realtà del rapporto coincidevano.
Nella società capitalistica, invece, le cose non sono così chiare.
Il rapporto qui assume esclusivamente la forma del valore. Marx applica inoltre alla società capitalistica la dialettica hegeliana, descrivendola in termini di alienazione (o espropriazione) e riconciliazione (o riappropriazione), ma sostituendo al soggetto posto da Hegel, che è lo Spirito oggettivo, le classi sociali, cioè la borghesia ed il proletariato.
La dialettica hegeliana, sulle orme di Feuerbach, viene in tal modo «rovesciata».
Il passaggio di Marx da interessi prevalentemente filosofici a interessi prevalentemente economici, contrassegnato dalla collaborazione con Engels, lo portò al distacco definitivo prima dalla sinistra hegeliana (i fratelli Bauer e i loro seguaci, soprannominati spregiativamente «la Sacra famiglia»), che Marx accusò di idealismo perché sviluppava la critica di Hegel esclusivamente sul piano delle idee religiose e filosofiche, e poi dallo stesso Feuerbach, che accusò di trascurare completamente la collocazione dell'uomo nella storia. Perciò la concezione elaborata da Marx in questo periodo, vale a dire nella Sacra famiglia, nelle Tesi su Feuerbach e nell'Ideologia tedesca, opere scritte tutte in collaborazione con Engels, viene chiamata «materialismo storico», dove il sostantivo allude alla polemica contro la sinistra hegeliana e l'aggettivo alla polemica contro Feuerbach.
Ciò che Marx rimprovera ai «Giovani hegeliani» è di avere criticato la teologia di Hegel in nome soltanto della filosofia, cioè di avere creduto che la causa dell'alienazione umana siano soltanto le idee e che tale alienazione si possa combattere soltanto per mezzo di altre idee.
In tal modo essi non solo sono rimasti degli idealisti, ma hanno finito con l'essere, loro malgrado, anche dei conservatori, perché hanno tenuto la teoria separata dalla prassi, cioè non hanno saputo indicare una via pratica per trasformare la realtà sociale e politica esistente.
La loro posizione, secondo Marx, si deve considerare soltanto «ideologia», termine con cui egli indica una concezione puramente teorica, la quale crede di essere indipendente dalla realtà materiale, e quindi di avere valore di per se stessa, mentre in realtà ne dipende e in particolare, dipendendo dall'organizzazione capitalistica della società, contribuisce a conservarla.
A Feuerbach, invece, Marx rimprovera di avere concepito la realtà umana come natura, cioè come semplice materia statica, anziché come prassi: cioè come azione trasformatrice e rivoluzionaria nei confronti dello stato di cose esistente.
La stessa critica alla teologia hegeliana, sviluppata da Feuerbach, rimane sul piano puramente filosofico, cioè indica nella religione la causa dell'alienazione umana, senza comprendere che l'alienazione religiosa è una conseguenza di un'alienazione più fondamentale, che è quella economica, ossia l'alienazione del lavoro, propria della società capitalistica.
L'uomo, secondo Marx; crea la religione perché è alienato nel suo lavoro e cerca nella religione una consolazione alla miseria reale, cioè economica, in cui si trova.
Questo è il significato della famosa espressione: «la religione è il sospiro della creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, lo spirito di situazioni in cui lo spirito è assente. Essa è l'oppio del popolo».
Ovviamente, una volta eliminata l'alienazione economica, scomparirà spontaneamente anche la religione. L'uomo, secondo Marx, è essenzialmente un essere sociale, cioè storico, e pratico: «tutta la vita sociale - egli afferma - è essenzialmente pratica.
Tutti i misteri che trascinano la teoria verso il misticismo trovano la loro soluzione razionale nella prassi umana e nella comprensione di questa prassi».
Nelle Tesi su Feuerbach Marx indica nella prassi addirittura il criterio della verità, affermando: «la questione se al pensiero umano spetti una verità oggettiva, non è questione teoretica bensì una questione pratica. Nella prassi l'uomo deve provare la verità, cioè la realtà e il potere, il carattere immanente del suo pensiero».
In altre parole, è vero solo quel pensiero che si rivela capace di trasformare la realtà per mezzo della prassi rivoluzionaria.
Perciò Marx può concludere con la celebre affermazione: «i filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo; si tratta di trasformarlo».
Malgrado questa dichiarazione di sostanziale superamento della filosofia, tuttavia Marx elabora una filosofia, precisamente una filosofia della storia, quando afferma, nell'Ideologia tedesca, che gli uomini si distinguono dagli altri animali per il fatto che essi producono i propri mezzi di sussistenza, e che quindi la loro vita, il loro stesso essere, dipende dalle condizioni materiali di tale produzione, più precisamente dal modo di produzione.
Quest'ultimo varia col variare delle condizioni materiali della produzione e con lo sviluppo delle forze produttive (cioè degli individui che producono) derivante dalla divisione del lavoro.
Nella storia si è determinata innanzitutto la divisione tra lavoro agricolo, svolto in campagna, e lavoro commerciale, svolto in città, poi la distinzione tra lavoro commerciale e lavoro industriale, e così via.
A ciascuno di questi stadi corrisponde un diverso modo di organizzare la proprietà: anzitutto la proprietà tribale, la quale non è altro che un'estensione della proprietà familiare; poi quella delle comunità antiche, caratterizzate dal modo di produzione schiavistico e quindi dalla contrapposizione tra liberi e schiavi; poi quella della società feudale medievale, caratterizzata dalla contrapposizione tra nobili e contadini; infine quella della società industriale moderna, caratterizzata dalla contrapposizione tra borghesia e proletariato. In ciascuna di queste fasi storiche l'intera vita umana, quindi anche le attività spirituali (politica, diritto, religione, filosofia), sono determinate dalle condizioni materiali di vita, cioè dal particolare modo di, produzione caratteristico di quella fase.
Quando le attività spirituali credono di essere indipendenti dalle condizioni materiali, si ha, secondo Marx, l'ideologia, cioè la falsa coscienza, vale a dire una coscienza che crede di essere indipendente, mentre non lo è.
Questo perché, egli afferma, «non è la coscienza che determina la vita, ma è la vita [materiale] che determina la coscienza».
Tale visione della storia è stata chiamata «materialismo storico», perché pone alla base della realtà non la pura materia, cioè la natura, come faceva Feuerbach, bensì la vita materiale degli uomini quale si realizza nella storia, cioè il modo in cui essi producono i propri mezzi di sussistenza.
Marx non si ferma, tuttavia, alla descrizione della storia passata, ma, rilevando nella fase storica presente al suo tempo, cioè nella società capitalistica, una serie di contraddizioni, determinate dall'alienazione del lavoro, predice la necessità di un superamento della società capitalistica e l'instaurazione della società comunista, caratterizzata dall'assenza, della divisione del lavoro, e dunque dall'eliminazione dell'alienazione e delle stesse classi sociali.
Egli anzi ha cura di precisare che «il comunismo non è uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi.
«Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente.Le condizioni di questo movimento risultano dal presupposto ora esistente».
La storia in tal modo viene ad essere un processo orientato ad un fine, l'instaurazione appunto del comunismo, dovuto non a motivi di carattere ideale, o morale, ma al movimento stesso in atto nella storia. Quest'ultimo, però, non è un movimento meccanico, bensì un «movimento pratico», prodotto cioè, dall'azione umana, e precisamente una rivoluzione, cioè «un rovesciamento pratico dei rapporti sociali esistenti».
Il Manifesto del partito comunista si apre con l'osservazione che «la storia di ogni società sinora esistita è storia di lotte di classi» e che nella società industriale moderna la classe dominante è divenuta la borghesia, la quale ha avuto nella storia una funzione sommamente rivoluzionaria, perché ha eliminato tutte le altre classi (nobiltà feudale, contadini, piccoli artigiani). La borghesia tuttavia non ha eliminato le classi, ma ha creato essa stessa una nuova classe, il proletariato, che è in conflitto con essa ed è destinato a soppiantarla nel dominio della società. Quando, infatti, lo sfruttamento del proletariato, compiuto dalla borghesia attraverso l'alienazione del lavoro, avrà raggiunto limiti insopportabili, le «forze produttive», cioè il proletariato stesso, si ribelleranno ai «rapporti di produzione» vigenti, cioè alla divisione fra la classe dei proprietari dei mezzi di produzione e la classe dei proletari. La borghesia, secondo Marx ed Engels, ha fabbricato le armi con cui ha abbattuto il feudalesimo, cioè l'industria moderna; ma la borghesia ha anche generato gli uomini che di queste stesse armi si serviranno per mandarla a morte, ovvero i proletari.
Lo sviluppo sempre maggiore dell'industria, voluto dalla borghesia al fine di aumentare sempre più il profitto, creerà infatti un proletariato sempre più grande, sempre più concentrato, sempre più potente e sempre più sfruttato, che, ad un certo punto, esploderà in una rivoluzione aperta e, col rovesciamento violento della borghesia, stabilirà il suo dominio nella società. «Lo sviluppo della grande industria - scrivono Marx ed Engels - toglie dunque di sotto ai piedi della borghesia il terreno stesso sul quale essa produce e si appropria i prodotti. Essa produce innanzitutto i suoi propri seppellitori. Il suo tramonto e la vittoria del proletariato sono ugualmente inevitabili». I comunisti - scrivono sempre Marx ed Engels - sono la parte più risoluta del proletariato, quella che conosce le condizioni e l'andamento del movimento proletario, quella che ha come scopo di far sì che il proletariato prenda coscienza di sé come classe rivoluzionaria, rovesci il dominio borghese e conquisti il potere politico. La loro dottrina si riassume in un'unica espressione: abolizione della proprietà privata (dei mezzi di produzione).
L'instaurazione di una società comunista, in cui non esistano più le classi sociali, non sarà tuttavia immediata. Ci sarà una prima fase, detta anche fase di transizione, consistente nell'elevarsi del proletariato a classe dominante. In questa prima fase, secondo Marx ed Engels, verrà mantenuto in vita lo Stato, il quale è lo strumento di cui la classe dominante si serve per tenere sottomesse le altre: mentre nella società capitalistica la borghesia se ne è servita contro il proletariato, nella fase di transizione verso il comunismo il proletariato se ne servirà contro la borghesia'. In questa fase la proprietà dei mezzi di produzione, cioè i fondi agricoli, i crediti, i mezzi di trasporto, le scuole, dovrà essere trasferita nelle mani dello Stato, e tutti dovranno essere costretti dallo Stato a lavorare. Quando poi, nel corso dell'evoluzione, saranno sparite tutte le differenze di classe, il potere pubblico perderà il carattere politico, cioè non ci sarà più bisogno dello Stato. Si avrà così la fase conclusiva della rivoluzione, cioè la società comunista vera e propria, che Marx ed Engels definiscono come «un'associazione nella quale il libero sviluppo di ciascuno è la condizione per il libero sviluppo di tutti».
Nella Critica al programma di Gotha Marx chiamerà la prima fase «dittatura del proletariato», senza chiarire il significato del termine «dittatura», che non va inteso nel senso antiliberale di abolizione dei diritti politici, ma nel senso antico di esercizio provvisorio dei pieni poteri. La tradizione marxista successiva parlerà di «socialismo», per indicare la prima fase, e di «comunismo», per indicare la seconda. In realtà Marx ed Engels usano il termine «socialismo» per indicare la loro stessa dottrina, distinguendola però dal socialismo di Proudhon - da loro definito «conservatore o borghese» perché non prevede l'abolizione della società borghese, ma solo il suo miglioramento attraverso la riduzione dello sfruttamento -, nonché dal socialismo di Saint-Simon, Fourier, Owen e altri - da loro definito «critico-utopistico» perché vuole migliorare le condizioni di esistenza di tutti, ma respinge l'azione politica rivoluzionaria. Il socialismo di Marx ed Engels è invece, a detta di loro stessi, un socialismo scientifico, perché si fonda su un'analisi scientifica delle condizioni sociali e sulla previsione scientifica della necessità del loro mutamento, cioè sul materialismo storico. Quest'ultima previsione, tuttavia, non deve portare ad un atteggiamento inerte di fiduciosa attesa che le cose cambino, perché i comunisti - sempre secondo il Manifesto - appoggiano dappertutto ogni moto rivoluzionario contro le condizioni sociali e politiche esistenti, avendo sempre di mira l'abolizione della proprietà. «Essidichiarano che i loro scopi non possono essere raggiunti che con l'abbattimento violento di ogni ordinamento sociale esistente. Tremino pure le classi dominanti davanti a una rivoluzione comunista. I proletari non hanno nulla da perdere in essa fuorché le loro catene. E hanno un mondo da guadagnare». Perciò il documento si chiude col famoso appello: «proletari di tutti i paesi, unitevi!».
Dopo essere stato costretto a riparare in Inghilterra in seguito al fallimento della rivoluzione del 1848, Marx si dedicò quasi esclusivamente allo studio dell'economia politica, uno studio che nelle sue intenzioni voleva essere al tempo stesso esposizione scientifica del sistema dell'economia capitalistica, ossia del modo in cui questa funziona, e critica di essa, cioè illustrazione delle sue contraddizioni e quindi previsione scientifica del suo crollo.
Alla base di questo studio c'è la distinzione tra «struttura» e «sovrastruttura», introdotta nella prefazione all'opera Per la critica dell'economia politica.
Per struttura si intende l'insieme dei rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo della società, per esempio la divisione di compiti tra liberi e schiavi nell'antichità e tra borghesia e proletariato nella società industriale moderna.
La struttura, pertanto, è una realtà economica: essa costituisce la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica, cioè una determinata organizzazione del potere, per esempio l'ordinamento della pòlis nell'antichità e dello Stato nell'età moderna, alla quale corrispondono anche determinate forme della coscienza sociale.
La struttura, secondo Marx, determina la sovrastruttura, e dunque i rapporti di produzione condizionano la vita sociale e spirituale degli uomini (vale a dire la cultura, la religione e la filosofia). «Non è la coscienza degli uomini - dice Marx - che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza».
È a livello di struttura che si producono, secondo Marx, i cambiamenti che fanno passare la società da una fase storica ad un'altra. Tali cambiamenti avvengono quando lo sviluppo delle forze produttive (nella società moderna il proletariato) entra in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti (nella società moderna la proprietà dei mezzi di produzione da parte della borghesia).
Con il cambiamento della base economica si sconvolge allora, più o meno rapidamente, tutta la gigantesca sovrastruttura.
Ebbene, tali cambiamenti, per essere compresi, devono essere studiati anzitutto al livello delle condizioni economiche di produzione, il che può essere fatto, secondo Marx, «con la precisione delle scienze naturali».
Solo così si comprenderanno anche i cambiamenti che si verificano a livello delle forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche o filosofiche, ossia delle forme ideologiche che permettono agli uomini di concepire il conflitto in corso e di combatterlo.
Insomma l'economia politica svolge, a livello della struttura materiale, la stessa funzione di spiegazione, per mezzo di determinate categorie e del loro movimento, che veniva svolta dalla logica hegeliana a livello della sovrastruttura spirituale, cioè del pensiero.
Attraverso la critica dell'economia politica Marx si propone di fare, nei confronti della realtà materiale, che per lui è la realtà fondamentale, ciò che Hegel ha fatto per mezzo della sua logica nei confronti della realtà spirituale: la comprensione della realtà esistente e al tempo stesso la dimostrazione della necessità del suo tramonto.
Lo strumento che consente di fare questo è, anche per Marx come era stato per Hegel, la dialettica, ossia il rilevamento della contraddizione e la necessità del suo superamento.
Abbiamo visto come Marx avesse tentato una prima volta di abbozzare questo discorso nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, da lui non pubblicati. Successivamente egli compie un nuovo tentativo con i Lineamenti fondamentali di critica dell'economia politica del 1857-58, ugualmente non pubblicati, e finalmente sviluppa un discorso compiuto e definitivo con Il capitale.
Qui Marx analizza anzitutto la categoria della merce, distinguendo in essa due tipi di valore: il «valore d'uso», che è la capacità di una merce di soddisfare determinati bisogni, la sua effettiva utilità, e il «valore di scambio», che è il rapporto quantitativo di una merce con un'altra, con la quale essa viene scambiata sul mercato.
Ciò che importa comprendere è che, stante il principio secondo cui, in quanto valori di scambio, tutte le merci non sono che delle misure determinate di tempo di lavoro "coagulato", lo scambio stringe quindi, nel contesto di una divisione sociale del lavoro, dei rapporti di equivalenza tra i prodotti più diversi, astrattamente considerati come prodotti del lavoro in generale.
Questa è la legge del valore. Nella società capitalistica anche il lavoro, come ha mostrato l'economia politica classica, è una merce. Esso anzi è la merce, secondo Marx, che determina il valore di scambio di tutte le altre merci, nel senso che il valore di scambio di una merce è dato dal numero di ore lavorative che essa mediamente richiede per essere prodotta.
A differenza di tutte le altre merci, tuttavia, il lavoro ha la caratteristica di produrre, per le merci di cui determina il valore di scambio, un valore superiore a quello che è il suo stesso valore di scambio, cioè al valore di scambio con cui viene acquistata la cosiddetta «forza-lavoro», che è la capacità di lavoro propria di un operaio.
Spiegare il profitto, come avevano proposto alcuni, a livello di una mera spoliazione del lavoratore, percepita dal capitalista non in quanto l'impresa produca più di quanto gli costi ma in quanto egli non paga tutto quel che gli costa, in quanto egli non dà al lavoratore una retribuzione sufficiente per il suo lavoro, non fornisce alcuna soluzione sufficiente al problema.
Marx pone la distribuzione fra lavoro e forza-lavoro. La produzione capitalistica ha trovato la sua ragione storica nella trasformazione della stessa attività produttiva umana in una merce.
La forza-lavoro è stata alienata come un qualcosa che si vende e si compra, come un qualcosa che ha essa stessa un valore. Il sorgere del profitto va attribuito non a una qualità creativa del capitale per sé, ma al fatto storicamente condizionato che il lavoro in azione è in grado di realizzare un prodotto di valore maggiore di quello a cui è valutata la stessa forza-lavoro considerata come merce.
Il capitalista acquista la forza-lavoro dell'operaio; questi ottiene in cambio quanto gli basta per compensare nella propria persona la fatica e il consumo che il lavoro per il capitalista comporta.
Il valore di scambio della forza-lavoro è dato infatti, nella società capitalistica, dal salario, il quale, in base alla legge della domanda e dell'offerta, tende al minimo necessario per consentire la sopravvivenza fisica dell'operaio.
Quando però la forza-lavoro, acquistata a questo prezzo minimo, viene usata, cioè viene trasformata in lavoro effettivo, il prodotto di tale lavoro viene ad avere un valore di scambio superiore al prezzo a cui la forza-lavoro è stata acquistata. In tal modo il lavoro, cioè l'uso effettivo della forza-lavoro, ha prodotto un surplus di valore rispetto a, quello che la forza-lavoro aveva inizialmente, cioè un valore in più, che Marx chiama «plusvalore».
Questo «plusvalore» non va all'operaio, a cui va solo il salario, cioè il prezzo minimo a cui il padrone acquista la sua forza lavoro, ma va appunto al padrone, cioè al proprietario dei mezzi di produzione, ovvero delle macchine, e ne costituisce il «profitto».
Insomma, nella società capitalistica, l'operaio produce col suo lavoro un più di valore, il quale, per il modo in cui sono organizzati i rapporti di produzione, cioè per il fatto che i mezzi di produzione non sono di proprietà dell'operaio, ma di colui che acquista la sua forza-lavoro, va a costituire il profitto di quest'ultimo e viene, quindi, sottratto all'operaio stesso. I
l profitto che in tal modo si accumula costituisce il capitale, che il padrone cerca di aumentare sempre più, investendolo nell'acquisto di nuove macchine e di nuove materie prime da sottoporre a trasformazione, per ricavarne prodotti da vendere sul mercato ad un prezzo superiore al costo delle stesse materie prime e della forza-lavoro necessaria a trasformarle.
La formula che esprime questo processo, secondo Marx, non è quella del semplice scambio, per cui una merce (M) viene scambiata con denaro (D) e questo consente di acquistare un'altra merce di uguale valore (M), cioè M-D-M, ma è quella per cui una certa quantità di denaro (D) viene investita per acquistare quella particolare merce (M) che è la forza-lavoro, la cui peculiarità consiste nel produrre, col lavoro, un certo plusvalore, di modo che la vendita del suo prodotto consente di ottenere una quantità di denaro superiore (D'), cioè è D-M-D'.
Per una necessità intrinseca alla società capitalistica, che è la legge del profitto, il suddetto processo tende a continuare all'infinito, cioè il capitale viene continuamente reinvestito per aumentare sempre più.
Ma in tal modo la ricchezza di una nazione, che non è illimitata, si concentra sempre più nelle mani di pochi e fa aumentare sempre più il numero di coloro che, diventando più poveri, sono costretti a fare gli operai.
Le dimensioni del proletariato in tal modo si accrescono sempre di più. Ciò determina, per la legge della domanda e dell'offerta, un abbassamento continuo del prezzo della forza-lavoro, cioè del salario, e quindi uno sfruttamento sempre maggiore del proletariato.
Quest'ultimo, dunque, aumenta sempre più di dimensioni e viene sempre più sfruttato, finché non sopporta più lo sfruttamento e si ribella, rovesciando i rapporti di produzione esistenti, cioè la proprietà privata dei mezzi di produzione, e instaurando il comunismo.
Questa è la contraddizione fondamentale, secondo Marx, della società capitalistica, cioè la contraddizione tra lo sviluppo delle forze produttive (l'aumento progressivo del proletariato) e la struttura dei rapporti di produzione (la proprietà privata dei mezzi di produzione), per cui il primo fattore è al tempo stesso prodotto dal secondo e causa della sua fine.
La società capitalistica, insomma, produce da se stessa ciò che ne determinerà necessariamente la fine. Marx descrive questo processo col linguaggio della dialettica hegeliana, presentando la proprietà privata capitalistica (quella fondata sul lavoro altrui) come le negazione della proprietà privata individuale (quella fondata sul lavoro personale), e dichiarando che «la produzione capitalistica genera essa stessa, con l'ineluttabilità di un processo naturale, la propria negazione, [cioè ... ] il possesso collettivo della terra e dei mezzi di produzione», la quale si configura in tal modo come la negazione della negazione.
Avviene nella realtà ciò che Feuerbach descrive come alienazione religiosa.
Che cos'è infatti il capitale? Lavoro accumulato. Ma lavoro di chi? Del lavoratore, da cui si ricavano sempre maggiori prodotti.
Avviene così al lavoratore che "il suo proprio lavoro sempre più gli sta di fronte come proprietà estranea, e i mezzi della sua esistenza e della sua attività si concentrano vieppiù nelle mani del capitalista". Ciò avveniva anche nell' antichità, ovunque vi fossero un lavoratore e un proprietario.
Ma con la società industriale-capitalistica le cose si sono fortemente radicalizzate e si avviano alla soluzione finale: infatti il mondo della fabbrica capitalistica si porta dietro la "divisione del lavoro", che comporta l'aumento dei lavoratori, la loro concentrazione in grandi stabilimenti; ma "con questa divisione del lavoro da una parte, e il lavoro e l'accumulo dei capitali dall'altra, il lavoratore dipende sempre più meramente dal lavoro, anzi da un determinato, assai unilaterale, meccanico lavoro.
Esso è dunque mentalmente e fisicamente abbassato a una macchina, e da uomo diventa un'astratta attività e un ventre".
L'esasperazione brutale delle masse sfruttate attraverso guerre, catastrofi e rivoluzioni, fino "alla rivoluzione", alla nascita di una società nuova, in cui l'eliminazione della proprietà privata dei mezzi di produzione non comporterà soltanto un sistema economico diversamente strutturato ma, mutando le strutture economiche, farà cambiare anche tutte le "sovrastrutture", e cioè i rapporti sociali, le forme politiche, la cultura, l'arte, la moralità.
La "lotta di classe", la cui acme si tocca nel sistema capitalistico, cesserà con il venir meno delle classi medesime. Dello Stato, necessario per mantenere stabile una società fondata sull'asservimento, non si avrà più bisogno; e con esso scompariranno le lotte tra gli stati, le guerre. L'umanità, redenta dal bisogno dal suo stesso lavoro, vivrà unita e felice.
Sempre nel Capitale, infine, Marx descrive il comunismo come la società in cui i produttori associati regolano razionalmente il loro ricambio organico con la natura, cioè eseguono il loro lavoro con il minore possibile impiego di energia e nelle condizioni più adeguate alla loro natura umana, in modo da arrivare alla riduzione della giornata lavorativa.
Una volta realizzate queste condizioni minime di lavoro, che costituiscono ancora il «regno della necessità», cioè le condizioni necessarie per la soddisfazione dei bisogni, si apre il «regno della libertà», cioè «lo sviluppo delle capacità umane che è fine a se stesso», vale a dire il godimento del tempo libero. Nella Critica al programma di Gotha Marx descrive la fase di transizione al comunismo, cioè la dittatura del proletariato, come regolata dal principio «a ciascuno secondo il suo lavoro», e la fase del comunismo pienamente realizzato come regolata dal principio «da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni».
Nietzsche riprenderà questo concetto, affermando che i filosofi tedeschi sono quasi tutti figli di pastori protestanti e per questo sono atei. La Riforma avrebbe talmente accorciato la distanza tra Dio e l'uomo da rendere ormai quasi superfluo distinguerli. E questo avvicinamento aveva definitivamente sconfitto la teologia (teologia che Lutero aveva sempre visto come nemica della fede genuina), determinando il trionfo dell'antropologia, della divinizzazione dell'uomo. La "scientificità" che il marxismo si attribuisce spiega l'apparente contrasto che si produce, nella concezione della storia, tra determinismo e intervento volontario dell'uomo. Da un lato, lo sviluppo dalla società capitalistica a quella comunistica pare affidato a un corso necessario della storia, di cui gli uomini sono strumenti; dall' altro, si fa appello all'attiva volontà degli uomini, perché quel corso abbia esecuzione. Se la storia va fatalmente verso quel punto, sembrerebbe che gli uomini non possano che essere trascinati; se, invece, tutto dipende dalla volontà dell'uomo, si può supporre che la storia prenda un corso diverso.
In realtà, l'uomo è strumento passivo della dialettica storica fin quando non si sia impossessato della "scienza": ma, una volta resosene padrone, la scienza stessa lo mette in grado di determinare attivamente gli eventi. Non nel senso che si possa prevedere un esito diverso da quello della rivoluzione e poi da quello della società socialista degli eguali, ma nel senso che si può abbreviare il percorso, renderlo meno crudele (in quest' ottica va vista la polemica di Marx contro i socialisti riformatori, contro i liberali umanitari ecc.: essi infatti, non fanno che ritardare la rivoluzione e, quindi, la renderanno più terribile). Di qui la funzione che il marxismo assegna alle élites, guida consapevole delle "masse", loro "coscienza" nel presente abbrutimento, verso un futuro che la storia non prepara senza l'intervento dell'uomo.
Lo stesso rapporto intercorre anche con la "natura". In apparenza il materialismo dialettico fa dell'uomo un essere meramente naturale, il cui agire è determinato dalle condizioni di fatto. Ma, nella misura in cui l'uomo s'impadronisce della "scienza", egli diviene, al contrario, il demiurgo della natura, e quindi di se medesimo come essere naturale. Il marxismo esclude una "natura" data una volta per tutte, nei limiti della quale l'uomo non sia costretto a muoversi: così nei fatti fisici come negli economici, sociali ecc. Di qui la simpatia di Marx per i positivisti e per Darwin, soprattutto, ricambiata con totale indifferenza e sospetto. Se il marxismo ripone le sue speranze di palingenesi universale nella "produzione", ciò avviene perché per produzione intende non solo una produzione economica di beni, ma, in ultima analisi, una produzione radicale della stessa natura, uomo compreso. L'uomo non sarà più schiavo dei bisogni "naturali", essendo padrone di ogni natura e quindi anche di sé.
Vediamo così delinearsi, sotto una considerazione che vorrebbe essere "critica" e "scientifica" della realtà, la vera anima del marxismo: l'aspirazione dell'uomo all'onnipotenza, a negare i propri limiti, a riconoscere in sé un Dio caduto che si risolleva attraverso la "scienza", fino a ritrovare la sua condizione divina. La negazione di ogni religio, come "legame" che asservisce l'uomo, è invocata a beneficio di una "scienza" che si chiama bensì con lo stesso nome della scienza galileiana, ma che in realtà è gnàsis; "scienza del bene e del male", che ci ripropone ancora una volta: "Eritis sicut Dei". Marx sembra confondersi con tutti gli utopisti del XIX secolo. È evidente, nella descrizione dello stato finale dell'umanità, il ricordo di molti millenarismi medioevali e della corrente escatologica ebraica, tanto che Marx è stato spesso considerato come l' "ultimo grande profeta ebreo". Si tratta, tuttavia, di una profezia dove i cieli nuovi sono tutti sulla terra; l'ateismo conduce, in Marx, ad una visione dell'uomo come nuovo Prometeo e del paradiso come qualcosa di totalmente terrestre.