Il Fedone (Φαίδων) è uno dei più celebri dialoghi di Platone. Come suggerito dal sottotitolo Περί ψυχής (Sull'anima), l'argomento su cui Socrate ragionerà insieme agli allievi nelle sue ultime ore (nella seconda e terza parte del dialogo) sarà la sua certezza nell'immortalità dell'anima. La dimostrazione di tale tesi è portata avanti con molta attenzione dal filosofo, così da persuadere completamente i suoi due interlocutori. Il timore di Socrate, il vero lutto da scongiurare, non è infatti la propria morte, bensì la «morte del logos»: come afferma parlando con il giovane Fedone, bisogna impegnarsi con tutte le forze per giungere, attraverso la maieutica, a un risultato positivo per la propria indagine. In caso contrario, il rischio è quello che il ragionamento muoia e, di conseguenza, si cada nella misologia - ovvero si inizi a diffidare del logos come strumento di indagine (89b-c).
Echecrate, membro della scuola pitagorica di Fliunte, chiede a Fedone, allievo di Socrate, di narrare a lui e ai suoi allievi le ultime ore di Socrate, poiché le notizie giunte da Atene al riguardo sono poche e vaghe. Fedone, presente al momento dell'esecuzione, accetta di buon grado, e inizia a narrare ciò che accadde quel giorno, riportando i discorsi intrattenuti da Socrate con i due filosofi tebani Simmia e Cebète. Il dialogo si svolge, per l'appunto, a Fliunte, presumibilmente nella famosa scuola pitagorica della città.
Dopo un mese di prigionia, è infine giunto per Socrate il giorno dell'esecuzione, momento per lungo tempo rimandato, poiché dovevano far ritorno le navi che ogni anno venivano mandate a Delo in onore di Apollo, per ringraziarlo di aver aiutato Teseo a liberare Atene dal pericolo del Minotauro (58b). Appresa la notizia dal messo degli Undici, Critone, Fedone e gli altri allievi della cerchia socratica si riuniscono attorno al maestro in carcere, per passare insieme a lui le ultime ore. Scena emblematica a cui si trovano di fronte è la tranquillità d'animo del filosofo, il quale - dietro invito di Apollo, apparsogli in sogno - ha iniziato a comporre poesie, mettendo in musica i propri insegnamenti (60d-61c). In questo senso, Platone ci informa che il Fedone sarà il «canto del cigno» di Socrate, come Socrate stesso ammetterà in 85a. Platone è invece stranamente assente, forse malato (59b): in realtà, nessun'altra fonte antica parla per quell'epoca di una malattia del filosofo, tanto grave da impedirgli di assistere il maestro nelle ultime ore. Con la sua assenza, Platone forse vuole affermare che il dialogo non sarà una cronaca puntuale della morte di Socrate, quanto piuttosto, come afferma Centrone, una sua ricostruzione letteraria in linea con lo spirito dialogico del maestro. Più precisamente Reale, nella raccolta da lui curata dell’Opera Omnia platonica, evidenzia: «La spiegazione più probabile del fatto che Platone si citi qui come malato sarebbe questa: egli vuole rendere il lettore avvertito del fatto che quanto farà dire a Socrate non è la pura verità storica». E alcune pagine oltre prosegue: «Platone non presenta in questi dialoghi un documento storico, ma mette in bocca a Socrate le proprie convinzioni metafisiche e fornisce la grandiosa dimostrazione del mondo intelligibile delle Idee e dell'essere metasensibile».
Socrate inizia a discutere della propria condizione di condannato a morte con quelli che saranno i suoi interlocutori nel dialogo: i tebani Simmia e Cebète, allievi del pitagorico Filolao (61d). Socrate afferma infatti che la sua condizione non è affatto da compiangere, poiché qualsiasi filosofo, in quanto tale, desidera morire; ciò non significa, però, che la morte debba essere ricercata attraverso il suicidio, perché sarebbe un atto empio. L'apparente contraddizione che si viene a creare si scioglie nel momento in cui Socrate prende in esame il fatto che, come affermano certi misteri, il corpo è come un carcere, da cui non possiamo liberarci di nostra iniziativa: gli uomini sono infatti proprietà degli dèi, e sarebbe un gesto oltremodo empio togliersi la vita senza che essi lo abbiano ordinato apertamente (62a-c). Cebète tuttavia obietta a Socrate che, se gli uomini si trovano veramente nelle mani di padroni così buoni e savi come sono gli dèi, non vi sarebbe alcun motivo di desiderare la morte. A tali parole, Socrate risponde enunciando quello che sarà il fine del dialogo: il filosofo, quasi tenesse una seconda apologia, tenterà di dimostrare che nulla di male può accadere all'uomo buono né in vita né in morte, e che anzi, anche dopo la morte l'anima continuerà ad esistere, sempre protetta da divinità benevole (63b-c).
Continuando nella risoluzione del precedente paradosso, la morte è intesa come separazione dell'anima dal corpo. Il filosofo non si cura del corpo e dei suoi piaceri, ma ambisce al perfetto sapere, che appartiene solo all'anima. La morte, dunque, in quanto liberazione dal corpo, è una purificazione per l'anima; la vita del filosofo sarà allora un continuo esercizio di preparazione alla morte (64a-68b). In questo senso solo i filosofi sono coraggiosi e temperanti, mentre gli altri uomini, paradossalmente, lo sono per paura e intemperanza: la virtù infatti necessita la vera conoscenza e la purificazione da ogni altra passione, il che è prerogativa del filosofo, non dell'uomo comune (68b-69e).Con questa prima dimostrazione generale si conclude quella che è la prima parte del dialogo.
Il discorso di Socrate sulla morte come distacco dell'anima dal corpo viene accettato di buon grado dai due tebani. Tuttavia, ciò che ancora non li convince è l'effettiva immortalità dell'anima una volta uscita dal corpo. Come afferma infatti Cebète, gli uomini «temono che, nell'atto medesimo in cui ella si distacca dal corpo e ne esce, subito come soffio o fumo si dissipi e voli via». Inoltre, la persistenza dell'anima dopo la morte non basta per affermare che essa sia immortale: essa deve conservare anche «potere e intelligenza», cioè mantenere la propria coscienza individuale (70b). Socrate inizia ad argomentare la propria tesi, proponendo tre dimostrazioni.
Anzitutto, Socrate mostra come ogni cosa tragga origine dal proprio contrario. Dal forte si genera il debole, dal grande il piccolo, dal veloce il lento, e, perché ciò avvenga, tra i due contrari vi deve essere un processo che permetta di passare dall'uno all'altro (per esempio: il crescere e il decrescere, il raffreddarsi e il riscaldarsi …). La stessa cosa accade per il vivere e il morire: dal vivo si genera il morto, e allo stesso modo, con il processo contrario del rivivere, dal morto si genera il vivo. E se è possibile rivivere, è necessario che le anime non scompaiano, ma continuino ad esistere anche fuori dal corpo. D'altra parte, se si esclude che dal morto nasca il vivo, si dovrebbe ammettere che una legge di natura («i contrari si generano dai contrari») non abbia valore universale, il che è impossibile. Questo argomento viene anche detto della palingenesi o dell’antapòdosi.
«(70c) C'è un'antica dottrina, secondo la quale laggiù esistono anime giunte da quassù, che poi quassù tornano, rigenerandosi dai morti in nuovi esseri. Se così è, che cioè i vivi si generano dai morti, che altro concluderne se non che (d) laggiù appunto esistono le nostre anime? Infatti, non potrebbero certo rinascere se già non esistessero; e per provarlo basterebbe si chiarisse che i vivi non si generano da altro se non dai morti. Se invece non è così, bisognerà ricorrere a qualche altro argomento. Benissimo, disse Cebète. -Ma, se vuoi comprenderla più facilmente, riprese Socrate, non devi esaminare la cosa solo in rapporto agli uomini, ma anche agli altri animali e alle piante; e vedere in generale se tutte le cose che sono soggette a generazione (e) si generino in questo modo, ossia se tutto ciò che ha un contrario non si generi dal suo contrario: per esempio, il bello dal brutto, il giusto dall'ingiusto, e così gli infiniti altri. (71a) -Senza dubbio. -E ancora: in queste coppie sempre appaiate di contrari, c'è in mezzo come due processi di generazione, (b) per cui da un contrario si passa all'altro, e poi da questo secondo al primo. Così, per esempio, tra il piccolo e il grande c'è in mezzo il processo di aumento e il processo di diminuzione; quello che noi diciamo crescere e decrescere. - Sì, disse. -E dunque, lo scomporsi e il ricomporsi, il raffreddarsi e il riscaldarsi, e tutti gli altri processi del genere, anche se talvolta non abbiamo un nome per indicarli, è necessario avvengano in questo modo, e che in ogni coppia di contrari ci sia un processo generativo che porta a vicenda dall'uno all'altro. -Senza dubbio, concordò. (c)
-Ebbene, disse Socrate, c'è qualcosa che è il contrario dell'esser vivo, come il dormire lo è dell'esser sveglio? -Certo, disse. -E che cosa è? - L'esser morto, rispose. -E questi due stati non si generano l'uno dall'altro, dal momento che sono contrari? E poiché sono due, non sono due forse anche i processi di generazione tra loro? -Senza dubbio. -Bene, disse Socrate: delle due coppie di contrari di cui ora parlavo, te ne dirò una, e ti dirò anche i suoi processi di generazione; e tu mi dirai l'altra. lo dico che c'è, da un lato il dormire, dall'altro l'esser sveglio, e che (d) dal dormire si genera l'esser sveglio, e dall'esser sveglio il dormire, e dico che i processi che li generano sono l'uno l'addormentarsi e l'altro lo svegliarsi. Ti basta, o no? -Certo. -Ora dimmi tu, allo stesso modo, della vita e della morte: non dici che all'esser vivo è contrario l'esser morto? -Sì. -E che si generano l'uno dall'altro? -Sì. -E cos'è che si genera dal vivo? -Il morto. -E cos'è, continuò Socrate, che si genera dal morto? -Bisogna convenire, rispose, che si genera il vivo. -E dunque, Cebète, da ciò che è morto si genera ciò che è vivo, e insomma dai morti si generano i vivi. (e) -Così sembra, disse. -Dunque, le nostre anime esistono veramente nell'Ade. -Così sembra.
-Orbene, disse Socrate, dei due processi di generazione che concernono questa coppia di contrari, uno è fuor di dubbio: il morire. O no? -Ma certo, disse. -E allora, disse Socrate, cosa dobbiamo fare? non dobbiamo contrapporre ad esso il processo di generazione contrario? o la natura, su questo punto, risulterà zoppa?!
-Certo, disse. -E qual è questo processo di generazione contrario? -Il rivivere. -Ma se c'è, questo rivivere, non sarà (72a) un processo di generazione da morto a vivo? -Certo. -E dunque si conferma, anche per questa via, che i vivi si generano dai morti, così come i morti dai vivi. Ma se ciò è vero, si era detto, è una prova bastante che le anime dei morti esistono necessariamente in qualche luogo, dal quale poi tornano a nascere. -Mi pare, Socrate, che proprio così debba essere.»
Argomento della reminiscenza (72e-78b)
Cebète richiama allora la dottrina della reminiscenza socratica (anamnesis), secondo cui ogni nostro apprendimento è in realtà un ricordo di qualcosa conosciuto in precedenza, prima della nostra nascita. Ma, obietta Simmia, come può Socrate dimostrarlo, quali prove dà di questa teoria? Il filosofo richiama anzitutto l'attenzione su alcune basi condivise: se qualcuno ricorda qualcosa deve averla vista in precedenza; inoltre il ricordo di una cosa può smuoverne un altro (un oggetto, per esempio, ricorda l'innamorato) e tale associazione può avvenire anche di fronte alle semplici immagini dipinte di tali oggetti. Ora, noi diciamo che queste associazioni sono possibili in base alla somiglianza o alla dissomiglianza tra gli oggetti: ma il concetto di "simile", ovvero l'uguale in sé, da dove proviene? Poiché noi infatti lo conosciamo, è necessario che da qualche parte lo abbiamo visto e conosciuto, e siccome in questa vita abbiamo esperienza di oggetti uguali, ma non dell'uguale in sé, è necessario che sia successo in una vita precedente. A questo punto, Socrate può ricollegarsi al precedente argomento dell’antapòdosi, e riaffermare che le anime sono immortali e posseggono conoscenza.
«(72e) -E poi, disse Cebète, c'è anche quella dottrina, che spesso sostieni, per cui apprendere per noi non è che ricordare. Anche in base a questa dottrina, è necessario che abbiamo appreso in un tempo anteriore ciò che al presente ricordiamo. Ma ciò (73a) non sarebbe possibile, se la nostra anima non fosse esistita in qualche luogo, prima di generarsi in questa forma umana. Anche per questo, dunque, l'anima risulta qualcosa di immortale. Interloquì allora Simmia: -Bene, ma quali prove hai di questo, Cebète? Rammentamele, perché in questo momento non le ricordo. -Te ne addurrò una sola, rispose Cebète, ma molto bella, e cioè che gli uomini, quando sono interrogati, se li si interroga bene, rispondono da soli su ogni cosa come è; e non potrebbero certo far questo, se non ne fosse già in loro conoscenza e retto giudizio. E se (b) li si mette davanti a figure geometriche e a cose del genere, appare nel modo più chiaro che la cosa è veramente così.
-Se così non ti persuadi - aggiunse Socrate - vedi se riesci a condividere questa opinione esaminando la cosa in quest'altro modo. Non credi che ciò che si dice apprendimento sia una reminiscenza? -Non è proprio che non lo creda, disse Simmia; solo, avrei bisogno di provar su me stesso ciò di cui si ragiona, e cioè di ricordarmene. (e) -Vediamo. È possibile che, vedendo un cavallo o una lira dipinti, ci si ricordi di un uomo, e vedendo Simmia dipinto, si ricordi di Cebète? -Certamente. -Ed ed anche possibile che, vedendo Simmia dipinto, ci si ricordi di Simmia stesso? (74a) -Certamente, è possibile. -Ora, in base a tutti questi esempi, non risulta forse che la reminiscenza avviene in due modi, per via di somiglianza e per via di dissomiglianza? -Sì, risulta. -E quando uno si ricorda di qualcosa per via di somiglianza, non gli viene necessariamente da chiedersi se, quanto a somiglianza, la cosa che ha prodotto il ricordo non sia per qualche aspetto manchevole, rispetto alla cosa ricordata? - Necessariamente.
-Considera allora, disse Socrate, se la cosa sta così. C'è qualcosa di cui diciamo che è uguale? Uguale, dico, non come legno a legno, pietra a pietra o simili, bensì un uguale che è al di là di tutte le cose uguali e diverso da esse, voglio dire l'uguale in sé. Ebbene, diciamo noi che questo uguale è qualcosa o non è nulla? (b) -Certo che lo diciamo, disse Simmia; e come no? -E conosciamo anche ciò che esso è in se stesso? - Certamente, rispose. -E da dove abbiamo tratto conoscenza di esso? È forse a partire da quegli uguali di cui si diceva, cioè legni o pietre o altre cose uguali, vedendo che sono uguali, che abbiamo pensato a quell'uguale che è pur diverso da essi? O non ti pare che le cose stiano altrimenti? Considerale da questo punto di vista: pietre uguali e legni uguali, pur rimanendo gli stessi, non succede che a qualcuno sembrino uguali e ad altri no? -Sì, certo. (c) -E l'uguale in sé, può mai apparire disuguale, e l'uguaglianza disuguaglianza? -No, mai, Socrate. (d) -E allora? soggiunse Socrate: ci appaiono essi uguali come l'uguale in sé, o per qualche aspetto manchevoli in rapporto all'uguale in sé, o per nulla manchevoli? -Manchevoli, e molto! (e) -Ma chi pensa così, siamo d'accordo che deve pur aver visto prima ciò cui dice che la cosa, sia pur in modo difettoso, assomiglia. -Necessariamente. -Dunque, è necessario che noi abbiamo veduto prima l'uguale: prima cioè (75a) del momento in cui, vedendo per la prima volta cose uguali, abbiamo pensato che esse tendono sì ad essere come l'uguale in sé, ma rispetto ad esso sono difettose. -È così. (c) -Dunque, a quanto pare, questa conoscenza noi dovevamo possederla prima di nascere. -Pare di sì. -Ma allora noi, prima di nascere e subito dopo nati, conoscevamo non solo l'uguale, il maggiore e il minore, ma anche tutte le altre realtà di questo genere. Infatti, il ragionamento vale non solo per l'uguale in sé, ma anche per il bello in sé, (d) per il buono in sé, per il giusto in sé, per il santo in sé, e insomma, come dico, per tutti gli esseri su cui noi, domandando e rispondendo, poniamo a sigillo che "è in sé". Necessariamente. (76c) -Ma quando le nostre anime hanno acquistato la conoscenza di tali cose? Non certo da quando siamo diventati uomini! -No certo! Allora, prima. -Sì. -Dunque, Simmia, le nostre anime esistevano anche prima: prima, dico, di essere in questa forma d'uomini, separate dai corpi; e avevano intelligenza.(d) -Sì. -Dunque, Simmia, riprese Socrate, le cose stanno così? Se esistono veramente le realtà di cui continuamente parliamo, ossia il bello, il buono e tutte le altre del genere, e ad esse noi rapportiamo e compariamo le impressioni dei sensi, come a modelli già in nostro possesso, ebbene, non è ugualmente necessario che la nostra anima esista prima ancora che nasciamo? Se invece quelle realtà non esistessero, il mio discorso sarebbe del tutto vano.-Mi pare proprio che la necessità sia la medesima, rispose Simmia, e che il nostro ragionamento si sia posto al sicuro, (77a) nello stretto legame che c'è fra l'esistenza delle nostre anime prima che nasciamo e l'esistenza delle realtà di cui tu dici. -E Cebète?, disse Socrate: bisogna persuadere anche lui. (c) -A me, disse Cebète, pare sia dimostrato solo la metà di quanto si doveva, cioè che la nostra anima esisteva prima che nascessimo; ma resta da dimostrare che dopo morti esisterà come prima di nascere, se la dimostrazione vuole essere completa. -Ma anche questo, rispose Socrate, è dimostrato fin da ora: basta che colleghiate questo argomento con l'altro su cui già ci siamo accordati, ossia che tutto ciò che è vivo si genera da ciò che è morto. Infatti, (d) se l'anima esiste anche prima, ed è necessario che, venendo alla vita, non da altro si generi se non dalla morte, come potrà non essere necessario che essa continui ad esistere anche dopo la morte, se è vero che deve poi nuovamente rinascere? Dunque, anche il secondo punto rimane senz'altro dimostrato. Però, mi pare che tu e Simmia avreste piacere di andare più a fondo ...(78a) -Certo! (b)»
Nonostante tutto, Simmia e Cebète non sono ancora persuasi dalle parole di Socrate, e riportano la credenza di molte persone, secondo la quale l'anima, dopo la morte del corpo, si dissolve nell'aria. Socrate però allontana subito tali timori: solo ciò che composto può decomporsi e, dissolvendosi nelle sue parti, perire. L'anima invece è simile alle idee le quali - e qui Socrate fornisce l'unica definizione delle idee presente nell'intero corpus platonico - sono quelle cose che «permangono sempre costanti e invariabili», le uniche che si possano pertanto dire «non composte». Essendo dunque congenere alle idee, e quindi di natura elementare e invisibile, l'anima non può modificarsi né tanto meno perire. Dimostrazione di questa superiorità dell'anima sul corpo è anche il fatto che è la prima a governare sul secondo, e non viceversa.
Dopo queste tre prime dimostrazioni Socrate passa a descrivere il destino che le anime avranno dopo la morte. Lasciato il corpo, l'anima buona (cioè di chi ha praticato la filosofia e si è astenuto dalla stoltezza del corpo), di natura invisibile, va verso un luogo altrettanto invisibile (l'Ade, nel suo significato etimologico); le anime di quanti, invece, si sono dedicati solo a ciò che è corporeo, risulteranno appesantite da tutte le impurità accolte e potranno solo vagare come fantasmi per tombe e sepolcri (81d). La seconda parte del dialogo termina poi con un ulteriore discorso di Socrate circa la virtù dell'anima e l'importanza della filosofia.
«-Allora, riprese Socrate, bisogna che noi ci facciamo una domanda di questo genere: quale cosa è di per sé suscettibile di disperdersi, ed è da temere che si disperda, e quale quella che non lo è e per cui non c'è da temere? Stabilito ciò, bisognerà vedere a quale di queste cose appartenga l'anima; e, a seconda della risposta, sperare o disperare per l'anima nostra? -Dici bene, osservò. (c) -Ebbene, una cosa che sia stata composta, o sia composta per natura, non è di per sé soggetta anche ad essere decomposta? E viceversa, se esiste cosa non composta, non è essa di per sé sottratta a questa decomposizione? -Mi pare che sia così, disse Cebete. -E non è naturale che a non essere composte siano le cose che permangono sempre identiche e immutabili, e ad essere composte invece quelle che mutano continuamente e non permangono mai identiche? -Mi pare proprio che sia così. -Torniamo ora, riprese Socrate, alle cose di cui parlavamo prima. (d) La realtà in sé, quella che siamo soliti definire facendo domande e dando risposte, si trova sempre nelle medesime condizioni, O a volte in un modo e a volte in un altro? L'uguale in sé, il bello in sé e ciascuna cosa che è in sé ... -Di necessità, o Socrate, rimane sempre nella medesima condizione, rispose Cebète. -E le infinite cose, come uomini, cavalli, (e) vestiti, che diciamo belle o uguali, e cui diamo lo stesso nome delle cose in sé? Permangono sempre nelle medesime condizioni, oppure, al contrario delle cose in sé, non sono mai le stesse, né rispetto a sé né rispetto alle altre, e insomma non sono mai in nessun modo nelle medesime condizioni? -Proprio così! Non restano mai nelle stesse condizioni, disse Cebète. (79a) -Bene: e tu queste cose le puoi vedere, toccare o percepirle con gli altri sensi; quelle invece non c'è altro mezzo di coglierle se non con l'attività della mente, perché sono invisibili e non si possono cogliere con la vista. -È proprio vero quello che dici, osservò.
-E allora, se vuoi, soggiunse, poniamo due specie di realtà, l'una visibile e l'altra invisibile. -Poniamole, disse. -E che l'invisibile permanga sempre nella stessa condizione, e la visibile mai? -Poniamo anche questo, disse. (b) -Ora dimmi, che cosa c'è in noi, se non da un lato il corpo, e dall'altro l'anima? -Non c'è altro, disse. -E delle due specie di realtà, a quale diremo che è più simile e congenere il corpo? -È chiaro a tutti, rispose: a quella visibile. -E l'anima, è visibile o invisibile? -Non è visibile. -Allora è invisibile. -Sì. -Dunque, l'anima è più simile all'invisibile; il corpo, invece, al visibile. (c) -Di necessità, Socrate. -E non dicevamo poco fa che l'anima, quando si avvale del corpo per qualche sua ricerca, servendosi della vista, dell'udito o di qualche altro senso, è tratta dal corpo verso le cose che non restano mai identiche, e come esse erra e si confonde e barcolla come ubriaca? -Certo. (d) -E quando invece fa la sua ricerca restando sola in sé e per sé, allora si innalza a ciò che è puro, eterno, immortale e immutabile, e con esso rimane, ad esso essendo congenere; e cessa di errare e, come esso, rimane sempre nella stessa condizione? condizione che si chiama intelligenza. -Proprio così! Ciò che dici è bello e vero, Socrate.
-Ora, in base alle cose dette prima ed ora, a quale delle due specie di realtà ti pare che l'anima sia più simile? (e) -Così orientato, o Socrate, mi pare che anche il più duro di mente debba ammettere che in tutto e per tutto essa è più simile a ciò che è immutabile che a ciò che muta. -E il corpo? -All'altra. (80a) -E allora vedi, Cebète, se da tutto ciò che si è detto possiamo concludere questo: che l'anima è sommamente simile a ciò che è divino, immortale, intelligibile, uniforme, indissolubile, sempre identico a sé, mentre il corpo è sommamente simile a ciò che è umano, mortale, multiforme, inintelligibile, dissolubile e mai identico a sé. O non è così? -È così. -E allora? Se è così, non appartiene al corpo dissolversi rapidamente, e all'anima restare del tutto indissolubile? -E come no?»
La terza parte del dialogo inizia con un momento di stallo. Socrate e gli allievi rimangono in silenzio a riflettere su quanto appena detto, mentre Simmia e Cebète restano discosti a parlare tra di loro. Interrogati da Socrate, i due tebani affermano di non essere ancora del tutto persuasi e di avere altri dubbi circa l'effettiva immortalità delle anime. Per tale motivo, propongono a Socrate altre due obiezioni. Simmia afferma che il ragionamento proposto in precedenza si adatta anche all'idea che l'anima sia simile a un accordo musicale: come l'accordo è prodotto da uno strumento e non gli sopravvive una volta che lo strumento è rotto, allo stesso modo l'anima potrebbe essere un prodotto del corpo e dissolversi con esso. Cebète invece propone un'analogia con un tessitore di mantelli il quale, dopo aver fabbricato e usurato vari mantelli nel corso della propria vita, alla fine muore prima di aver consumato anche l'ultimo: non può essere allora che anche l'anima, dopo aver vissuto varie vite, alla fine si dissolva e muoia come il tessitore?
Socrate accetta queste due ultime obiezioni, ribadendo che dovrà rispondervi subito, poiché in futuro non ne avrà più l'opportunità. Anzitutto, si sofferma su quanto detto da Simmia. Il filosofo tebano ha riproposto una teoria di origine pitagorica, la dottrina dell’anima-armonia: poiché infatti, dice Simmia, il corpo è l'unione ben temperata di caldo e freddo, umido e secco, e via dicendo, è possibile pensare che l'anima sia l'accordo che armonizza questi elementi - e che quindi, come qualsiasi armonia, essa scompaia con la scomparsa del corpo (85e-86d).
Dopo aver richiamato l'attenzione su alcuni punti condivisi delle precedenti dimostrazioni, Socrate obbietta a Simmia che l'anima non può essere paragonata ad un accordo poiché, mentre l'anima governa il corpo e ne regola le passioni, l'armonia di uno strumento non può governare lo strumento stesso; al contrario, subisce delle modificazioni a seconda di quelle cui va incontro lo strumento (92e4-93a7). Il tebano, accettando allora la dottrina della reminiscenza, deve rifiutare quella dell’anima-armonia (94b-e). Inoltre, se tutte le anime fossero armonie, dovrebbero essere tutte uguali - mentre sono diverse - e dovrebbero sottostare ai desideri dei corpi, in quanto loro prodotti - mentre si è detto che avviene l'esatto contrario (93a-95a).
Persuaso Simmia, Socrate deve ora rispondere a Cebète. Il tebano infatti, ben più sottile dell'amico e concittadino, ha proposto un'obiezione tutt'altro che ingenua, la cui risposta richiede di cercare «la causa (aitía) della generazione e della corruzione delle cose» (96a). Pertanto, prima di rispondervi, il filosofo decide di richiamare l'attenzione sul metodo che si deve adoperare nelle indagini filosofiche.
Socrate racconta di essersi dedicato in gioventù allo studio della natura, e di aver indagato le cause di tutte le cose senza però riuscire a rintracciare una causa prima. Sconfortato da risultati così deludenti, che per di più lo avevano confuso su quanto già sapeva, Socrate racconta di aver pensato di abbandonare quel genere di studi, finché un giorno non sentì leggere «da un tale» (forse da Archelao, suo maestro) alcuni passi del libro di Anassagora, in cui veniva addotta come causa di tutte le cose una mente ordinatrice (nous). Entusiasta, il giovane Socrate si era affrettato a leggere l'opera di Anassagora, ma la delusione fu grande quando si accorse che il filosofo riduceva tutto a cause materiali, come l'aria, l'etere, l'acqua (98c). Secondo simili tesi, commenta Socrate, sarebbe come cercare di spiegare la sua presenza in carcere adducendo a cause i suoi nervi e la conformazione dei suoi muscoli, invece che la sua scelta di accettare la decisione del tribunale.
Fu così che, non trovando né maestri né soluzioni, Socrate decise di mutare «modo di navigazione», ricorrendo qui alla nota metafora della seconda navigazione (99d; ad essa sembra far riferimento anche Simmia in 85d). Non vi è tra gli studiosi un'interpretazione condivisa di questa metafora, ma sembra comunque chiaro che Socrate abbia deciso di abbandonare lo studio degli enti (gli oggetti sensibili) per dedicarsi a quello delle cause prime, ben più difficoltoso. Come appare infatti dalla metafora dell'acqua in 99d5-6, non è possibile guardare direttamente le cose senza finire accecati: è dunque necessario ricorrere ad un filtro, ovvero ai discorsi (logoi). Rivolgendosi ai logoi è però facile perdersi. Per porre rimedio a questo pericolo, afferma Socrate, è necessario procedere con cautela: partendo da una regola generale, riconosciuta ben solida, se ne trarranno le conseguenze, le quali andranno messe in relazione con l'ipotesi di partenza, così da valutare se sono d'accordo oppure no, e quindi se sono accettabili o meno. Nel caso, poi, si dovesse dar ragione dell'ipotesi di partenza, bisognerà procedere allo stesso modo, ponendo via via altre ipotesi di valore sempre più universale, fino a raggiungere l'universalità massima (101c-e). In questo modo è possibile scoprire le cause prime (cioè le cose in sé, le idee) e quindi, per esempio, affermare che, se di due uomini uno è più alto dell'altro, il primo non supera il secondo per la testa, ma perché partecipa dell'idea della grandezza.
Fatte queste premesse, Socrate può ora occuparsi dell'obiezione di Cebète. Nel precedente ragionamento si è detto che le cause prime sono le idee, di cui partecipano gli oggetti sensibili (100a). Ora, le realtà in sé hanno la caratteristica di non accettare in sé il proprio contrario - senza con ciò negare la legge secondo cui il contrario nasce dal contrario, poiché se il piccolo nasce dal grande, non per questo partecipa dell'idea del grande. Anche tra le cose, accade lo stesso: alcuni oggetti partecipano di uno solo dei contrari (per esempio, la neve del freddo, il due del pari), e quando ad essi si avvicina qualcosa che partecipa dell'idea contraria, essi o periscono o vanno via. Per esempio, la neve, che per essenza è fredda, se avvicinata al caldo si scioglie, e lo stesso i numeri pari, se sommati a quelli dispari diventano dispari (103c-105b).
Questo ragionamento viene applicato all'obiezione in campo: anche l'anima infatti partecipa essenzialmente di un'idea, quella della vita, e per questo motivo essa non potrà morire, poiché altrimenti l'idea della vita non sarebbe più vita; perciò, quando l'anima entra in contatto con la morte, non potendo accogliere su se stessa tale idea, essa se ne andrà via salva e incorrotta (106e). Socrate ha così dimostrato una volta per tutte che l'anima è per essenza immortale e incorruttibile. A Simmia e Cebète non resta che concordare con lui che bisogna prendersi cura della propria anima, e mantenerla sana attraverso l'esercizio della virtù:
«-E non ti pare anche che le cose grandi o più grandi lo siano per la grandezza, e le piccole o più piccole per la piccolezza? -Sì. -E allora, se qualcuno ti dicesse che uno è più grande di un altro per la testa e un altro più piccolo sempre per la testa, tu non lo accetteresti, (101a) e protesteresti che una cosa è più grande solo per la grandezza, e una più piccola per la piccolezza. Altrimenti ti si potrebbe obiettare che è impossibile che la stessa cosa renda maggiore il maggiore e minore il minore, (b) e veramente portentoso, poi, che una cosa sia grande a causa di una che è piccola. O non avresti paura di tali obiezioni? -Certo, disse Cebète ridendo. -E non avresti paura, soggiunse Socrate, anche di dire che il dieci è più dell'otto per il due, e che questa è la causa per cui supera l'otto, e non invece per la quantità, e che questa è la causa? È pur sempre la stessa paura. --Certo, rispose. -E allora, non staresti ben attento a dire che la divisione e l'addizione sono la causa (c) per cui l'uno diventa due? E non diresti a gran voce che tu non sai come possa generarsi ciascuna cosa, se non partecipando dell'essenza della realtà che le è propria, e quindi, per il due non hai altra causa che il suo partecipare alla dualità, e così tutte le altre cose? (102b) -lo sì. -E non sei allora d'accordo anche su questo: che, quando si dice "Simmia è più grande di Socrate", la verità non è proprio come appare dalle parole? (c) E infatti Simmia non è più grande per la propria natura, cioè in quanto è Simmia, ma per la grandezza che si trova ad avere; e neanche perché Socrate è Socrate, ma perché Socrate ha la piccolezza per rapporto alla grandezza di Simmia. -È vero. -E neanche Simmia è più piccolo di Fedone perché Fedone è Fedone, ma perché Fedone ha la grandezza per rapporto alla piccolezza di Simmia. -È così. -E dunque, in questo modo Simmia si dice insieme piccolo e grande perché si trova in mezzo tra Fedone e Socrate, e alla grandezza del primo (d) mette sotto la propria piccolezza, perché ne sia superata, e alla piccolezza del secondo mette sopra la propria grandezza, perché la superi. Cebète assenti. -Dico questo perché vorrei che anche tu fossi del mio parere. Pare a me che non solo la grandezza in sé non voglia mai essere insieme grande e piccola, ma anche la grandezza che è in noi non voglia mai accogliere la piccolezza e ancor meno esserne superata. Ma delle due l'una: o fugge e cede il posto, quando (e) il suo contrario, la piccolezza, si avvicina, oppure, quando essa sopraggiunge, scompare; ma mai rimarrà e accoglierà in sé la piccolezza, diventando altro da quello che era. E così io, Socrate, se accolgo la piccolezza, sono lo stesso di prima, ma piccolo; ma la grandezza in quanto tale non può sopportare di essere piccola, e la piccolezza di diventar grande. E in generale nessuno dei contrari, finché rimane quello che era, vorrà essere o divenire, insieme, il proprio contrario. (103a) -Mi pare proprio che sia così, disse Cebète. (c) -Vedi ora se anche su questo sei d'accordo. C'è qualcosa che tu chiami caldo e freddo? -Certo. -E sono forse le stesse cose che tu chiami neve e fuoco? (d) -No, per Zeus. - Dunque, il caldo è altro dal fuoco, e il freddo dalla neve. -Sì. -Ma sarai convinto che la neve, se riceve il caldo, non può, come dicevamo, rimanere ciò che era, cioè neve, e insieme essere calda; ma, avvicinandosi il caldo, si ritrarrà o sparirà. Certo. -E così anche il fuoco, avvicinandoglisi il freddo, si ritrarrà o sparirà, e non sopporterà, ricevendo il freddo, di continuare ad essere ciò che era, cioè fuoco, e insieme a essere freddo. (e) -È vero. -E dunque, per le cose di questo genere, risulta che non solo l'Idea in sé richiede di mantenere il proprio nome per sempre, ma anche la cosa che non coincide con l'Idea, ma ne ha la forma. (104b) -E come no? rispose. E allora è chiaro che non solo i contrari in sé si possono ricevere l'un l'altro, ma anche tutte le cose che, pur non essendo in sé contrarie, hanno in sé i contrari. -Sicuro.(105b) -E ora, seguimi in questo modo di ragionare. Dunque, se tu mi domandassi che cosa si deve generare in un corpo perché diventi caldo, io non ti darei (c) la risposta ovvia ma superficiale: il calore; ma da ciò che si è detto ne trarrei una più sottile, e cioè: il fuoco. E se mi domandassi che cosa si deve generare in un corpo perché si ammali, non ti risponderei: la malattia, ma: la febbre. -Ho capito bene. -E allora dimmi: che cosa si deve generare in un corpo, perché sia vivo? L'anima, disse. (d) -Ed è sempre così? -E come no, rispose. - L'anima allora, in qualunque cosa entri, sempre vi porta la vita. -È così, disse. -E c'è qualcosa di contrario alla vita, oppure no? -Certo. -E che cosa è? -La morte. -Ma l'anima non potrà mai accogliere il contrario di ciò che apporta, come risulta da ciò che abbiamo concordemente ammesso. -Assolutamente no, disse Cebète. -Ebbene: ciò che non può ricevere l'idea del pari, come lo chiamavamo poco fa? -Dispari, disse. -E ciò che non può ricevere la giustizia e la cultura? (e) -Ingiusto, disse, e incolto. -Bene. E ciò che non può ricevere la morte, come lo chiamiamo? -Immortale, rispose. -E l'anima, non è forse vero che non riceve la morte? -Non la riceve, no. - Allora l'anima è immortale? -Immortale. -Ebbene: questo dobbiamo dire che è stato provato. Ti sembra o no? -Sì, o Socrate; e in modo soddisfacente. (106c)-Ma se siamo d'accordo che l'immortale è anche incorruttibile, l'anima, oltre che immortale, sarà anche incorruttibile.(e) -È necessario. -E dunque, quando la morte coglie l'uomo, la parte di lui che è mortale, come è naturale, muore, ma l'altra che è immortale, se ne va via salva e incorrotta, lasciando il posto alla morte. -Pare di sì»
Persuaso anche Cebète, Socrate può ora concludere il dialogo con un mito escatologico/geografico, il quale descriverà quello che - ragionevolmente - dovrebbe essere il destino delle anime dopo la morte (108c-115a). La Terra, afferma Socrate, è una sfera posta al centro dell'universo, ma quella che noi uomini conosciamo e abitiamo non è che una sua parte. Essa è infatti come una grotta sovrastata dall'aria, di cui noi abitiamo la parte interna - situazione paragonabile a quella degli organismi marini, i quali, vivendo sott'acqua, pensano che il limite del mondo sia il cielo. Ora, sulla terra, a sua volta, esistono altre cavità e altre voragini, la principale delle quali è quella che Omero e i poeti chiamano Tartaro, in cui confluiscono tutte le acque dei fiumi e dei mari e da cui poi escono di nuovo. In questo luogo, inoltre, vi sono vari fiumi che non mescolano mai le proprie acque, tra i quali i quattro principali sono l'Oceano, l'Acheronte (che, attraversando luoghi deserti, alla fine giunge all'Acherusiade, dove sono convogliate le anime dei morti prima della loro palingenesi), il Piriflegetonte (in cui scorrono i lapilli e la lava che poi eruttano dai vulcani) e lo Stige (che nasce dalla palude Stigia).
Per quanto riguarda il destino delle anime nell'Oltretomba, esse dovranno dapprima essere sottoposte a giudizio, in modo da distinguere quelle buone da quelle cattive: le buone ricevono un premio, le cattive vengono relegate per sempre nel Tartaro - o in altro luogo, secondo la colpa -, mentre quelle la cui vita non è stata né buona né cattiva vengono raccolte nella palude dell'Acherusia, dove dovranno purificarsi in vista dei premi futuri.
Dopo tanti discorsi, viene però il momento per Socrate di abbandonare questa vita. La scena descritta da Platone, tuttavia, non è tragica: l'intero dialogo ha infatti dimostrato che all'uomo buono, che ha esercitato la filosofia per tutta la vita, non può succedere nulla di male né in vita né in punto di morte. Si viene così delineando l'immagine di Socrate come anti-eroe tragico, e il Fedone risulta in questo modo l'anti-tragedia per eccellenza. Si consuma in questo modo quella che Nietzsche ne La nascita della tragediadefinisce la morte del tragico e dell'elemento dionisiaco in esso contenuto, ad opera dell'apollineo Socrate. Socrate, con la propria morte, dimostra nella pratica ciò che era andato spiegando durante la propria vita: non può succedere che il saggio soffra senza colpa a causa del proprio destino, ma anzi, gli dèi non gli imputeranno dolore e sofferenza. Questo è il più puro insegnamento che il logos socratico ci ha lasciato, la certezza, secondo ragione, che chi vive una vita morigerata, dedita alla filosofia e alla cura della propria anima, non deve temere alcun male.
Giunta l'ora, Socrate abbandona i propri allievi per congedarsi dai parenti, quindi si lava e, date le ultime raccomandazioni ai suoi cari, ribadisce a Critone che gli sta appresso di non preoccuparsi per la propria sepoltura, poiché la sua anima verrà liberata dal carcere in cui è stata rinchiusa per tanto tempo. Dopodiché, preso il pharmakon (la tradizione vuole fosse cicuta, ma i sintomi descritti hanno indotto alcuni interpreti a metter in dubbio tale notizia), trangugiatolo tutto d'un fiato - non prima di aver chiesto se fosse possibile offrirne in libagione agli dèi - Socrate muore.