Siamo così giunti all’ultimo passaggio di questo complesso raffronto. Abbiamo descritto nell’ultimo capitolo il passaggio dalla ragion pura di Kant alla ragion pratica come una variazione di registro rispetto alla concezione del noumeno e della dialettica. In realtà, a ben vedere, la stessa dialettica trascendentale della ragion pura lasciava intuire una qualche possibilità differente di percorso.
L’indicazione proveniva dalla cosmologia razionale dove Kant, analizzando le famose quattro antinomie si esprimeva in modo singolare descrivendo una differenza capitale tra le prime due antinomie e le due successive.
Nel caso della terza e quarta antinomia (chiamate "dinamiche", perché riguardano la regressione all'incondizionato) Kant osserva che la soluzione sta nel pensare che la tesi e l'antitesi possano essere entrambe vere, e tuttavia non in contraddizione fra loro, perché riferite ad ambiti diversi: le antitesi al mondo dell'esperienza, le tesi al mondo intellegibile, quel mondo che è sempre possibile pensare, pur senza poterlo mai conoscere. Prendiamo la terza antinomia. La tesi afferma che, «La causalità in base a leggi della natura non è l'unica da cui sia possibile far derivare tutti i fenomeni del mondo. Per la loro spiegazione si rende necessaria l'ammissione anche d'una causalità mediante libertà.» Mentre l’antitesi contraddice tale ipotesi affermando che, «Non c'è libertà alcuna, ma tutto nel mondo accade esclusivamente in base a leggi di natura.» Ora, rispetto ai fenomeni possiamo ritenere vero che tutto ciò che avviene sia determinato assolutamente entro leggi causali come recita l’antitesi: proprio questo rende possibile l'indagine scientifica. Ma, rispetto al noumeno, è possibile invece pensare, con la tesi, l’esistenza della libertà, ovvero la possibilità di agire secondo volontà: è questo un presupposto ineliminabile della vita morale. Specularmente, la quarta antinomia si occupa di un altro problema fondamentale per la vita morale e per il suo significato. Si tratta in realtà di un problema che apparentemente riguarda l’origine del cosmo ma la portata del problema abbraccia anche il significato ultimo dell’esistenza dell’uomo e il problema dell’esistenza di Dio. Infatti la tesi dichiara che, «del mondo fa parte qualcosa che - o come suo elemento o come sua causa - costituisce un essere assolutamente necessario» mentre l’antitesi controbatte che, «in nessun luogo - né nel mondo, né fuori del mondo - esiste un essere assolutamente necessario che ne sia la causa».
Di fronte alle questioni poste dalla terza e quarta antinomia, quindi, si può operare una distinzione tra ciò che è oggetto della scienza e ciò che è oggetto della moralità: ciò che non può essere affermato nel primo campo, può esserlo nel secondo. La condizione è che non si pretenda di attribuire legittimità, contenuto, valore conoscitivo a concetti privi di un oggetto corrispondente nell'esperienza: in questo caso, si cade nell'arbitrio della metafisica dogmatica, inevitabilmente dialettica, cioè illusoria.
Tutta la trattazione delle illusioni della dialettica trascendentale presuppongono la distinzione di tutti gli oggetti in fenomeni e noumeni.
Il noumeno infatti non deve essere inteso in senso positivo come l'oggetto di un'intuizione non sensibile ma puramente intellettuale, poiché sappiamo che tale tipo di intuizione (intellettuale) non ci appartiene; esso deve invece essere inteso in senso negativo, come ciò che non è oggetto della nostra intuizione sensibile. Noumeno è quindi soltanto un «concetto limite per descrivere le pretese della sensibilità e di uso perciò puramente negativo. Esso tuttavia non è foggiato ad arbitrio, ma si connette con la limitazione della sensibilità, senza perciò porre nulla di positivo al di fuori del dominio di essa».
In altre parole si cade in forme illusorie quando si pretende di considerare queste affermazioni e la loro plausibilità alla stessa stregua delle affermazioni che scaturivano dalla corretta applicazione del metodo sperimentale, base e fondamento della conoscenza prodotta dall’unione di sensazioni e categorie. Di quel grado della conoscenza che abbiamo considerato come la conoscenza dianoetica in Kant.
Tuttavia la soluzione mostra le difficoltà e l’impaccio nel quale si trova il grande pensatore tedesco. Non si può ricorrere ai noumeni per dare risposte così importanti alla condizione umana ma non se ne può fare a meno, visto quello che Kant scrive nell’Appendice della dialettica trascendentale in cui sviluppa il versante "positivo" della dialettica della ragione:
«Si dice allora, ad esempio: le cose del mondo debbono esser considerate, come se traessero la loro esistenza da una intelligenza suprema. In tal caso, l'idea è propriamente solo un concetto euristico, per nulla ostensivo; essa non mostra in qual modo un oggetto sia costituito, ma in quale modo noi dobbiamo procedere, sotto la guida di quel concetto, a cercare la costituzione e la connessione degli oggetti dell'esperienza in generale. Pertanto, se si può mostrare che, quantunque le tre idee trascendentali (psicologica, cosmologica e teologica) non importino un riferimento diretto ad alcun oggetto che corrisponda a esse, né una determinazione dell'oggetto, tutte le regole dell'uso empirico della ragione, una volta presupposto l'oggetto nell'idea, portano a un'unità sistematica e ampliano comunque la conoscenza sperimentale, senza mai contrastarla - il procedere in base a tali idee costituisce una massima necessaria della ragione. E in ciò consiste la deduzione trascendentale di tutte le idee della ragione speculativa, nella loro qualità non già di princìpi costitutivi per l'estensione della nostra conoscenza a oggetti non compresi nella nostra esperienza, ma di princìpi regolativi dell'unità sistematica del molteplice della conoscenza empirica in generale, che è consolidata e ordinata dentro i suoi limiti; il che non potrebbe aver luogo senza tali idee e col semplice uso dei princìpi dell'intelletto. Renderò la cosa più chiara. Seguendo le suddette idee in qualità di princìpi, prima di tutto collegheremo (nella psicologia) tutti i fenomeni, le operazioni e la recettività del nostro animo secondo il filo conduttore dell'esperienza interna, come se il nostro animo fosse una sostanza semplice, esistente permanentemente (nella vita, almeno) con identità personale, mentre i suoi stati, in cui quelli del corpo rientrano soltanto come condizioni esterne, sono in costante cambiamento. In secondo luogo (nella cosmologia), attraverso un'indagine che non potrà mai aver sosta, incalzeremo la serie delle condizioni, tanto dei fenomeni naturali interni come degli esterni, come se essa fosse in sé infinita e sprovvista di un termine primo e supremo, benché ciò non importi da parte nostra la negazione, fuori di tutti i fenomeni, dei fondamenti primi, puramente intelligibili, di essi fenomeni, anche se non ci è mai permesso di inserirli nella connessione delle spiegazioni naturali, visto che non ne abbiamo conoscenza. Infine, in terzo luogo, dovremo (in relazione alla teologia) assumere tutto ciò che può in qualche modo far parte della connessione dell'esperienza possibile, come se questa esperienza desse luogo a un'unità assoluta, e tuttavia pienamente dipendente e pur sempre condizionata rispetto al mondo sensibile, e come se l'insieme di tutti i fenomeni (il mondo sensibile stesso) avesse, fuori di sé, un unico fondamento, supremo o onnisufficiente, cioè una ragione, per così dire, autosufficiente, originaria e creativa, in rapporto alla quale noi disponiamo ogni uso empirico della nostra ragione nella sua massima estensione, come se gli oggetti provenissero da quel prototipo di ogni ragione. Questo vuol dire, che non bisogna far derivare i fenomeni interni dell'anima da una sostanza semplice pensante, bensì gli uni dagli altri, in base all'idea d'un essere semplice; che non bisogna derivare l'ordine e l'unità sistematica del mondo da una suprema intelligenza ma, invece, dall'idea d'una causa sommamente sapiente, occorre ricavare la regola secondo cui la ragione, nella connessione delle cause e degli effetti nel mondo, sia usata nel modo migliore per la propria soddisfazione.»
Questo testo merita una riflessione vista l’importanza che riveste rispetto al nostro percorso. Abbiamo lascito sospesa a un punto interrogativo la trattazione della noesis in Kant. Abbiamo già detto qual è il suo ruolo in Platone e vi ritorneremo per completare il raffronto. La nostra trattazione h assunto come decisiva l’affermazione kantiana sulla inaffidabilità della dialettica. Ma quest’ultimo testo sembra affinare e chiarire meglio il punto di vista kantiano e prepara anche la svolta morale, per così dire, che Kant attuerà nella Ragion pratica.
Qui nel testo dell’Appendice i significato delle idee trascendentali, illusorie sul piano della conoscenza, mostrano il loro valore “euristico” cioè la loro utilità come principi attorno ai quali strutturare le concrete conoscenze che vengono acquisite dalla scienza sperimentale. In altri termini sono i “principi regolativi” della scienza perché pur non avendo un oggetto (sperimentale) sono fondamentali nel dare un ordine e un senso all’insieme globale della nostra esperienza. L’unità trascendentale dell’io, del mondo e la sua coerenza rispetto all’unità totale espressa dall’idea di una causa sommamente sapiente non sono elementi che io posso afferrare attraverso la conoscenza sperimentale ma che devo presupporre per render degna di significato la stessa scienza concreta. Si tratta dunque di una supposizione che riconosce i noumeni come l’orizzonte stesso nel quale la nostra effettiva conoscenza è possibile e spiegano perché Kant abbia difeso così strenuamente l’esistenza dei noumeni e del mondo esterno. I fenomeni, senza i noumeni, sarebbero incomprensibili e non avrebbero più alcun senso. Tuttavia i noumeni sono appunto oggetti del pensiero, cioè della noesis, e questo ci riporta al genuino significato platonico della dialettica che non sembra essere del tutto estraneo alla trattazione kantiana.
In effetti, la conclusione del testo ci ricorda che l’idea di una causa sommamente sapiente richiede che la ragione deve essere usata nel modo migliore. Un’affermazione che non può passare inosservata rispetto alle affermazioni di Platone sul metodo noetico e sul Bene.
Nel VI libro della Repubblica Platone definisce la noesis,cioè la dialettica, attraverso l’immagine della linea tagliata in due segmenti disuguali - che abbiamo già utilizzato nei precedenti capitoli- per disporre i quattro gradi della conoscenza. Essa rappresenta il vertice del sapere. Ma la raffigurazione e le motivazioni teoriche portate da Platone nel corso del dialogo sembrano decisamente simili al principio euristico appena introdotto nel discorso, partendo dall'Appendice della dialettica trascendentale. Per comprendere appieno l’argomentazione bisogna partire dall'immagine del sole come simbolo del bene che viene completata dall'affresco del mito della caverna nel VII libro, nelle pagine immediatamente successive a quelle in esame. Il sole è il principio per il quale noi possiamo vedere in piena luce la vera realtà ma è soprattutto indicato come analogo del Bene nel mondo intellegibile, anzi nell’immagine platonica il sole è “figlio” del Bene: «il Bene generò analogo a sé stesso: e che ciò che il Bene è nel mondo intelligibile rispetto all'intelletto e agli intelligibili, altrettanto è questo [il sole] nel visibile rispetto alla vista e agli oggetti visibili» (508c). L’analogia spiega lo stato dell'anima: o si eleva nell’intelletto alla luce della verità o resta nella penombra delle apparenze mutando le sue opinioni senza mai raggiungere un punto fermo.
L’analogia conduce dunque a una conseguenza determinante per lo sviluppo della conoscenza platonica:
«Or questo elemento che conferisce la verità alle cose conosciute e la facoltà al soggetto conoscente, dì pure che è l'idea del Bene. Ed essa, causa di conoscenza e verità, ritienila a sua volta conoscibile; e pur essendo entrambe, conoscenza e verità, così belle, sarai nel giusto ritenendo questa come cosa da esse diversa ed ancora più bella; mentre la conoscenza e la verità, a quel modo che lì la luce e la vista è giusto ritenerle simili al sole, ma non il sole stesso, cosi è giusto qui ritenerle entrambe simili al bene, ma nessuna delle due ritener che sia il bene, la cui condizione va tenuta in ancor più alto pregio» (508e-509a).
Dunque, al di là dell’immagine, è evidente che anche in Platone il bene ha una funzione euristica fondamentale e rappresenta il principio regolativo attorno al quale si sviluppa la conoscenza del molteplice dell’esperienza. Infatti Platone proseguendo nella sua analogia afferma: «Anche ai conoscibili dunque dirai che venga dal bene non solo l'esser conosciuti, ma che l'essere stesso e la sostanza vengon loro da quello, pur non essendo il bene sostanza, ma superandola ancora per dignità e potenza» (509c).
Sebbene Platone sia decisamente meno rigido nell’applicazione dei principi trascendentali del sapere è indubbio che la sua visione del bene abbia ispirato la visione regolativa dell’ideale della ragione: «dall'idea d'una causa sommamente sapiente, occorre ricavare la regola secondo cui la ragione, nella connessione delle cause e degli effetti nel mondo, sia usata nel modo migliore per la propria soddisfazione». Il bene platonico rappresenta questa causa sommamente sapiente usata nel modo migliore, cioè bene, che è al di là dello stesso concetto di sostanza. Esattamente come in Kant dove l’idea regolativa della somma sapienza non scaturisce da una suprema intelligenza ma da un principio al di là della sostanza.
E su questo punto un’ultima comparazione risulta particolarmente stimolante. L’idea regolativa kantiana, non va dimenticato, è un noumeno e per questo è oltre la conoscenza scientifica sperimentale. Il noumeno, come già detto rappresenta un ideale negativo, nel senso che parla del limite insuperabile della conoscenza fenomenica indicando che esiste qualcosa che la oltrepassa: oltre il fenomeno che mi appare c’è una realtà che non posso conoscere come i fenomeni ma che è il presupposto dell’esistenza dei fenomeni stessi. Per ciò che riguarda Platone, nonostante il differente registro del discorso, il Bene ha tratti descrittivi non molto distanti da questa sensibilità kantiana. Nel VII libro della Repubblica, mentre sta spiegando il mito della caverna e la sua funzione, così si esprime: «nel campo conoscibile come suprema l'idea del Bene, che a fatica si vede, ma che una volta vista va considerata essa come causa a tutti di tutte le cose rette e belle, generatrice nel visibile della luce e del suo signore [il sole], e nell'intelligibile essa stessa legittima largitrice di verità e di ragione; e che questa deve vedere chi debba saggiamente diportarsi in pubblico ed in privato» (517b-d). Dunque, nello stile più visionario di Platone la funzione regolatrice resta immutata. Certo la logica kantiana parte dal come se mentre Platone parla di verità e realtà intelligibile.
Tuttavia, il parallelismo si mostra ancora più efficace se si va a verificare quali siano le argomentazioni platoniche che accompagnano l’ultimo grado della conoscenza: «l'altra parte invece, non poggiante al principio su ipotesi, l'anima la cerca muovendo da ipotesi ma senza le immagini a essa relative, e compiendo l'indagine proprio con le idee e per mezzo di esse» (510c) l’altra parte della conoscenza razionale è quella noetica che per analogia con la conoscenza sensibile non parte dalle immagini (cioè dall'equivalente dell’eikasìa) com’è invece il grado dianoetico ma dalla realtà stessa delle cose e sviluppandosi mediante le idee.
Così infatti la spiega lo stesso Platone: «Intendi ora che io dico l'altra sezione dell'intelligibile quella attinta dalla ragione stessa con la forza della dialettica, facendo delle ipotesi non già dei principi bensì dei veri «presupposti», quasi punti d'appoggio e di lancio, affinché movendo sino a ciò che non ha più presupposti, al principio del tutto, ed esso attingendo, e poi attenendosi via via a ciò che da quello deriva, si torni a scendere verso la fine, senza servirsi assolutamente di nulla di sensibile, ma delle idee stesse, per esse e verso esse, e si finisca nelle idee» (511b-c). Dunque la posizione della dialettica non sembra differente da quell'ideale regolativo proposto da Kant. In entrambi i casi il discorso si rivela rigorosamente trascendentale rispetto alla realtà delle cose.
La differenza si coglie solo se si considera il valore che Platone assegna al discorso dialettico razionale che considera come il più alto e il più sicuro, «tu vuoi definire come sia più chiara quella parte del reale e dell'intelligibile che vien contemplata dalla scienza dialettica»,(511c).
Ma forse questa impressione così differente potrebbe ulteriormente modificarsi verificando quanto esposto nella Critica della ragion pratica.
Ormai i problemi aperti dalla considerazione del pensiero sui fondamenti della realtà dai due autori sono stati chiariti a sufficienza e le questioni relative all'imperativo categorico mostrano, come abbiamo detto nel primo capitolo del discorso quanto il bisogno di valori universali accompagni al riflessione di entrambi gli autori. Resterà ora da chiarire l’uso dei problemi dialettici kantiani nell’ultima parte della ragion pratica per verificare se si possono scorgere ulteriori elementi utili per la comparazione.
Nella conclusione della su argomentazione sul valore della virtù in rapporto alla felicità Kant parte dalla distinzione fra piano del fenomeno e piano del noumeno. È possibile che la virtù conduca alla felicità. Dobbiamo però pensare questa relazione nell'ordine dell'intellegibile, non del sensibile. Solo in quest'ordine può esserci dato il Sommo bene come oggetto totale della ragion pratica, ovvero l'unione della virtù, che rende degni della felicità, e della felicità stessa. Per questo motivo occorre ammettere alcuni postulati della ragion pratica: l'immortalità dell'anima, l'esistenza di Dio e la libertà.
La libertà è la condizione dell'intera vita morale, mentre l'immortalità dell’anima e l'esistenza di Dio sono invece le condizioni stesse dell’esistenza di una volontà morale, cioè del sommo bene. Infatti, il sommo bene contiene in sé il concetto di una virtù perfetta, cioè di una conformità piena della volontà alla legge morale.
Ma questa perfezione, o santità, non è raggiungibile nel corso dell'esistenza di un essere finito ma è pensabile solo all'infinito, come meta di un progresso continuo di perfezionamento morale, e quindi sotto la condizione dell'immortalità dell'anima. Inoltre, il postulato dell'esistenza di Dio è necessario per pensare l'accordo di moralità e felicità. In Dio, infatti, noi pensiamo «una causa suprema della natura che ha una causalità conforme all'intenzione morale», dunque una Causa prima morale, un «sommo bene originario» che è garanzia dell'accordo fra causalità naturale e volontà morale, tra felicità e virtù.
Perciò - conclude Kant - «è moralmente necessario ammettere l'esistenza di Dio».Un postulato - secondo la definizione che ne dà qui Kant - è «una proposizione teoretica, ma come tale non dimostrabile, in quanto inerisce inseparabilmente a una legge pratica che ha un valore incondizionato a priori». Si tratta dunque non di proposizioni dimostrate, né di concetti dedotti, ma di assunti validi entro i limiti della sfera pratica.
Quest'ultima affermazione, come del resto l'intera dottrina dei postulati della ragion pratica, richiede qualche precisazione. La "necessità morale" di Dio non significa che Kant sia approdato infine a fondare teologicamente la morale. Ciò comporterebbe la rinuncia all'autonomia della volontà, cosa che Kant esclude. L'esistenza di Dio si colloca dunque al centro di una fede morale razionale, per la quale, l'uomo onesto è in condizione di esclamare: «lo voglio che vi sia un Dio!» E la speranza in ultima analisi, che con i postulati della ragion pratica diviene possibile.
D’altra parte, i postulati stessi ci riportano esattamente dinanzi a quelle idee - psicologica, cosmologica, teologica - di cui la dialettica della ragion pura aveva rivelato l'impossibilità a costituire conoscenza di oggetti. Mediante la legge pratica, afferma Kant, «viene postulata la possibilità di quegli oggetti della ragion pura speculativa, la realtà oggettiva che questa non poteva loro assicurare».
Non abbiamo così superato i limiti posti dal criticismo stesso? Kant dà a più riprese una risposta negativa a questo interrogativo. Nella vita morale, la realtà soprasensibile acquista per noi oggettività, ma ciò non vuol dire che l'anima, la libertà e Dio ci siano divenuti oggetti di una conoscenza teoretica: infatti «non ci può essere dato niente che spetti all'intuizione di essi [e] non è possibile alcuna proposizione sintetica mediante la realtà che si concede loro».
Non è quindi divenuto legittimo alcun uso speculativo di queste idee, per il fatto che ne è necessario l'uso pratico: il concetto di Dio - ribadisce Kant - «non appartiene alla fisica, e cioè alla ragione speculativa, ma alla morale».
Fermo restando il rifiuto di passare dall'ideale alla realtà, fatto che invece caratterizza la dialettica in Platone, si può certamente affermare che esiste un grado morale della dialettica kantiana che in qualche modo si fa strada nello sviluppo delle sue argomentazioni.
E, nonostante i divieti kantiani, ci spinge alla conclusione. Scrive dunque Kant:«Essi [i postulati] partono tutti dal principio della moralità, il quale non è un postulato, ma una legge per mezzo di cui la ragione determina immediatamente la volontà. La volontà, per ciò stesso che viene determinata così, come volontà pura richiede queste condizioni necessarie all'osservanza dei suoi precetti. Questi postulati non sono dogmi teoretici, ma supposizioni da un punto di vista necessariamente pratico, e quindi non estendono la conoscenza speculativa, ma danno alle idee della ragione speculativa in genere (mediante la loro relazione con ciò che è pratico) realtà oggettiva, e le giustificano come concetti, la cui possibilità altrimenti essa non potrebbe neanche soltanto presumere di affermare».
Kant ritiene che questo tipo di delimitazione del concetto di postulato come supposizione lo ponga al riparo da quella metafisica che ritiene così pericolosa per la scienza e per la stessa vita morale. In realtà la supposizione, senza l’ausilio dell’esperienza e che fondi l’universalità dell’imperativo categorico, non è forse analoga a quanto abbiamo visto nella definizione della forza della dialettica stessa in Platone dove partendo da ipotesi(Kant:supposizioni) come punti d'appoggio, «affinché movendo sino a ciò che non ha più presupposti, al principio del tutto», senza utilizzare alcun argomento della sensibilità (Kant:fenomeno) ma solo le idee stesse?
Certo questo non accorda tra di loro le due prospettive ma mostra la vicinanza e la possibilità di dialogo tra le diverse filosofie e le differenti epoche. E certamente si può azzardare che entrambi, in fondo, hanno anche un problema principale comune. Nessuno dei due ha effettivamente ritrovato una risposta compiuta al rapporto tra mondo intellegibile e mondo sensibile. Kant non nega l’esistenza di un mondo intelligibile: è il mondo dei noumeni che resta semplicemente un presupposto dove non è possibile effettuare alcuna ricognizione e che si fa fatica a inquadrare nell’insieme del mondo dell’esperienza fenomenica. Platone ha una visione più ampia e meno restrittiva del mondo intellegibile ma anche lui, pur affinando le armi dialettiche col metodo diairetico nei dialoghi della maturità, resta fortemente a disagio nell’individuare un approccio agli individui concreti nel mondo dell’esperienza.
Certo in Kant questa difficoltà di comunicazione tra mondo sensibile e mondo intellegibile sembra in parte compensata dal fatto di aver distinto la scienza sperimentale dalla ragione e dai noumeni. Ma resta molto nel vago quando si tratta di sviluppare una dimensione del reale che non può che essere pensata come è appunto il noumeno. Su questo punto Platone appare invece decisamente molto più ottimista e quello che è più interessante è il suo modo di procedere. Quella fiducia e speranza che Kant ripone nella dialettica della moralità, in virtù dei postulati, Platone la affida all'insieme dei problemi suscitati dalla scoperta dell’a priori (la reminiscenza) della conoscenza umana.
Si direbbe quasi con la stessa cautela critica con la quale Kant parla dei noumeni, Platone parla degli intelligibili, i suoi noumeni, visto che sono immagini e miti, quelli che ci permettono di sondare i noumeni ideali altrimenti insondabili: un mondo troppo luminoso per non restarne abbagliati mentre si è in questa vita.