Due grandi scansioni caratterizzano la storia economica di questo periodo di contrasti: la fase espansiva del '500, detto anche il "secolo lungo" e la crisi del '600. È ovvio che su questa ampia tela, i colori e le sfumature cambiavano di molto, al mutare delle situazioni e dei contesti. È qui che si può collocare la nascita del capitalismo moderno? La parola ha origini più recenti, ma molti aspetti che poi si affermeranno si possono ritrovare nell’economia degli stati in espansione. Più opportunamente è stato detto che i primi secoli dell’età moderna fanno da ponte, sono una "transizione", tra il mondo feudale e la moderna società capitalistica. Ciò significa che non vi furono particolari momenti di svolta o di repentino cambiamento, ma piuttosto un lungo periodo in cui convissero elementi tipici dei diversi modi di vita, dei diversi rapporti di produzione, dei differenti universi culturali e mentali. Numerosi autori, da Weber, a Marx, a Braudel, collocano i primi germi del capitalismo fra la fine del XV e l’inizio del XVI secolo riferendosi, essenzialmente, ai settori più dinamici della vita economica, circoscrivibili, soprattutto, alla circolazione dei capitali e ai commerci. Il termine assumerà un significato preciso in concomitanza della rivoluzione industriale e della nascita del sistema di fabbrica. In realtà, al di la delle interpretazioni teoriche, vi sono alcuni grandi cambiamenti che sembrano caratterizzare le vicende dell’economia nel corso del '500: l’incremento delle attività commerciali e industriali, l'arrivo massiccio dei metalli preziosi americani, le vicende del credito pubblico e privato, insieme al rinvigorimento dell'agricoltura costituirono certamente gli aspetti più innovativi di questo periodo.
Il fenomeno economico che si presentò con i tratti più disorientanti per i contemporanei fu certamente il costante aumento dei prezzi che, a partire dalla fine del '400 investì in primo luogo gli stati atlantici e poi si estese, con intensità diversa, a tutto il continente. Non era un fenomeno nuovo ma in questo caso assunse i caratteri di una progressione costante che si rifletté sulla vita di tutti i ceti sociali accellerandone i mutamenti. Per circa cento anni i prezzi dei generi di largo consumo aumentarono costantemente, e il fenomeno fu così rilevante da essere definito dagli storici moderni una "rivoluzione dei prezzi". I generi alimentari aumentarono con al ritmo del 2-3% annuo a partire dalla fine del XV secolo ma intorno alla metà del '500 il processo subì una decisa accelerazione inflazionistica. Un contemporaneo, lo scrittore politico francese Jean Bodin, stabilì un nesso diretto fra l’aumento dei prezzi, che raggiunse la sua punta massima nel 1585, e il massiccio afflusso di metalli preziosi proveniente dalle Americhe (culminato negli ultimi decenni del secolo) la cui accresciuta offerta avrebbe provocato l’inflazione. In realtà è più probabile che questo fattore abbia solamente aggravato notevolmente l’inflazione visto che la dimensione continentale dell'influenza politica, diretta o indiretta, della Spagna costrinse la monarchia iberica a inondare l'Europa dei metalli preziosi di cui deteneva il monopolio (e le spese militari furono un capitolo tutt’altro che secondario). L’aumento dei prezzi si era già manifestato precedentemente e, avendo in primo luogo interessato i generi di consumo alimentare, è più probabile che fosse connesso all’incremento della domanda seguito alla crescita della popolazione che fu particolarmente consistente fra '400 e '500. Va tenuto conto dell’impatto di questi fenomeni in un’economia assai meno flessibile di quella di oggi; larghi strati della popolazione vivevano di redditi che si mantenevano fissi per cui anche una tendenza inflazionistica piuttosto bassa su base annua, aveva effetti disastrosi. Il livello dei salari, infatti, non si elevò proporzionatamente e con la stessa velocità dell’aumento dei prezzi a causa delle caratteristiche intrinseche del sistema produttivo e per l’ampia disponibilità di manodopera. I salari raddoppiarono o triplicarono nel corso del '500, ma vi fu un'innegabile perdita del loro potere di acquisto (dovuta anche alle ripetute svalutazioni monetarie): quindi più soldi ma per acquistare una minore quantità di merci.
L’economia prima dell’avvento dell'industrializzazione rimaneva ancora di tipo arcaico, e la moneta vi svolgeva un ruolo relativamente marginale. Le riserve monetarie disponibili spesso si rivelavano insufficienti a sostenere le fasi di espansione economica segnate dagli aumenti demografici e dall’incremento degli scambi commerciali, come avvenne nel corso del XVI secolo. Sul piano quantitativo era dunque necessario aumentare la massa monetaria, un processo strutturalmente limitato dalla scarsa disponibilità di metalli - l’oro, l’argento e il rame - da convertire in monete, visto che queste erano esclusivamente di tipo metallico. L’elemento nuovo che permise nel corso del '500 di aumentare la massa monetaria - accanto ad un più intenso sfruttamento delle miniere europee grazie ai miglioramenti nelle tecniche estrattive - fu certamente l’afflusso di metalli preziosi dalle miniere del nuovo mondo. Si stima che all’inizio del secolo le riserve monetarie in Europa fossero, complessivamente, pari a 3.500 tonnellate d’oro e 37.500 d’argento. Tra il 1500 e il 1650 aumentarono del 5% quelle d’oro e del 50% quelle d’argento. Sempre sul piano quantitativo va tenuto conto, però, di un elemento importante che impedì di superare in maniera significativa la carenza di circolazione monetaria: nel lungo giro sulle rotte del mondo una parte consistente del tesoro americano non rimase in Europa ma prese la strada dell’oriente asiatico per la presenza di una bilancia commerciale sfavorevole che comportava uno strutturale impoverimento metallico del continente. Gli acquisti di merci sui mercati asiatici accrebbero l’"emorragia" monetaria in conseguenza dei rapporti commerciali sempre più regolari che si svilupparono nel corso del '500 e '600. La risposta tradizionale a questa situazione, che rimase una costante fino ad epoche più recenti, era la svalutazione della moneta ovvero un progressiva riduzione dei suoi contenuti metallici. Aumentava la moneta circolante ma se ne riduceva il valore in un regime di scambi che ne richiedeva quantità sempre crescenti. Simile processo riguardò il contenuto di argento di quasi tutte le monete europee nel corso del '500, contribuendo a deprimere il potere di acquisto e il valore reale dei salari.
La produttività del settore commerciale fu incrementata da una serie di innovazioni nelle pratiche degli affari che, agevolando gli scambi, influenzarono lo svolgimento dei traffici di merci e di denaro. Infatti, a fronte di una massa monetaria difficilmente incrementabile, il mezzo per corrispondere alle esigenze degli scambi commerciali era quello di accrescere la velocità di circolazione mediante l’uso di strumenti creditizi. Un espediente decisivo soprattutto negli scambi a lungo raggio che iniziarono ad affermarsi all’inizio dell’età moderna. L’espansione dei depositi e dei servizi di credito - che comportò importanti innovazioni nelle tecniche contabili dalla "partita doppia" alla "lettera di cambio", senza considerare altre tecniche bancarie ancora oggi in uso - fu una delle caratteristiche principali delle banche private che si affermarono soprattutto nell’Europa mediterranea del basso Medioevo. Protagonisti dello sviluppo delle attività bancarie erano stati nel XII secolo i lombardi, sostituiti successivamente dai fiorentini (nel '400 la compagnia dei Medici aveva filiali in mezza Europa). All’inizio del XVI secolo quasi tutte le città europee (Lione, Augusta, Bruges, Venezia, Genova) erano attive nell’amministrazione del denaro. Si erano affermate quindi grandi dinastie di mercanti-banchieri, che per promuovere i traffici, avevano esteso la loro attività al cambio monetario internazionale. Più portati a trattare servizi finanziari (prestito e cambio) che strettamente bancari (come il servizio di deposito), queste nuove figure imprenditoriali trovarono nei Fugger di Augusta i loro rappresentanti più famosi. Lo strumento principale di questi servizi era la "lettera di cambio" che permetteva, nell’impossibilità di trasferire denaro liquido da un paese all’altro, di trasferire dei crediti: "non si può commerciare senza cambiali, così come non si può navigare senza acqua", diceva un finanziere di Anversa nel 1543. Fra la data di emissione e quella di pagamento, l’operazione finanziaria prevedeva dei costi o "interessi", che aprivano la strada alla realizzazione dei profitti nel mercato dei capitali.
Il '500 fu l’epoca in cui si affermarono i banchieri-industriali, che unirono le speculazioni finanziarie alle attività commerciali e industriali. In prima fila vi furono i banchieri tedeschi, Wesler, Höchstaetter e soprattutto i Fugger. Questi ultimi, originari di Augusta, nella Germania meridionale, si affermarono lentamente verso la fine del XV secolo grazie soprattutto a Jakob Fugger, detto "il Ricco", il creatore della grande dinastia commerciale e bancaria che dominò la finanza europea nella prima metà del XVI secolo. I Fugger ottennero i diritti di sfruttamento di importanti miniere d’argento in Boemia e nel Tirolo e il controllo sulle miniere di rame dell’Ungheria e della Slovacchia. Sui profitti delle miniere, attorno alle quali fecero sviluppare importanti industrie siderurgiche, innestarono molte altre attività: gestirono ad esempio il trasferimento del denaro che gli ecclesiastici del centro Europa inviavano alla Curia romana (compreso il ricavato della vendita delle indulgenze), finanziarono il commercio portoghese delle spezie, fabbricarono fustagno. Aprirono inoltre importanti linee di credito con le maggiori corti europee e furono i principali finanziatori dell’imperatore Carlo V di Asburgo. Un successo senza precedenti, riportato da alcune testimonianze significative ("Il nome di Jakob Fugger - scriveva un cronista di Augusta - è stato riconosciuto in tutti i regni e in tutti i paesi. Imperatori, re, principi e signori gli hanno mandato ambascerie, il papa lo ha abbracciato come un caro figlio e i cardinali si sono levati in piedi di fronte a lui"), dall’ascesa sociale (furono nominati principi dell’impero) e da alcuni dati secondo i quali nel 1511 la famiglia disponeva di un patrimonio di circa 200.000 fiorini che nel 1527 era salito a oltre 2.000.000 (con saggi di profitto annuo di oltre il 54%). Il nipote di Jakob, Anton spostò il centro direttivo ad Anversa e il destino della famiglia seguì quello della città. Il prestito di denaro ai sovrani a lungo andare comportò dei grossi rischi; l’indebitamento di Carlo V aprì una voragine sempre più profonda e il suo successore, Filippo II, nel 1557 dichiarò la bancarotta della corona spagnola, provocando danni irreversibili ai Fugger. Una nuova bancarotta della monarchia spagnola nel 1607 segnò il definitivo fallimento della famiglia.
Uno stimolo decisivo allo sviluppo del mercato monetario fu la continua richiesta di denaro liquido da parte delle monarchie nazionali dell’Europa occidentale che si indebitarono progressivamente con i maggiori finanzieri. Gli stati avevano un incessante bisogno di denaro per le crescenti necessità belliche cui un sistema di prelievo fiscale ancora imperfetto e frammentario non riusciva a corrispondere. I governi non riuscivano generalmente a sostenere il ritmo delle spese che dovevano affrontare: perciò impegnavano le loro entrate in anticipo anche di due o più anni. Si ricorreva quindi al prestito dei mercanti-banchieri privati. Quando i galeoni spagnoli arrivavano nel porto di Siviglia con il loro carico di metalli preziosi c’erano i finanzieri di mezza Europa ad attenderli. Nonostante la corona ritirasse il 20% circa di tutte le quantità di metallo prezioso che giungevano dalle colonie americane, ben presto esse si rivelarono insufficienti a sostenere il peso dei debiti e dell’incipiente inflazione. Le bancarotte della Spagna si susseguirono nel 1557, nel 1596, nel 1607, nel 1627 e nel 1647. Quella del 1557, essendo la prima, fu la più rovinosa estendendosi a catena in tutti i territori direttamente controllati dalla Spagna (bancarotte si susseguirono nei Paesi Bassi, a Milano, a Napoli) oppure ad essa legati da stretti rapporti commerciali come la Francia. Il cataclisma bancario provocò vittime soprattutto fra i piccoli risparmiatori che avevano prestato i loro fondi tramite i banchieri privati. L’instabilità finanziaria dilagò in tutta Europa mentre le zecche procedevano a svalutare le monete provocando fenomeni di inflazione. Furono soprattutto i banchieri privati a risentire negativamente della congiuntura e a vedere scoraggiata la loro attività (i fallimenti e le chiusure negli ultimi decenni del '500 riportano cifre consistenti in Spagna, Francia e Italia). La vulnerabilità degli istituti privati fu superata dalla nascita di banchi pubblici che iniziarono a sorgere soprattutto in Italia (Genova, 1586; Venezia e Messina, 1587; Milano, 1597; Roma, 1605). Successivamente le banche pubbliche si diffusero anche al nord nelle capitali del commercio internazionale; quella di Amsterdam fu fondata nel 1609, quelle di Londra e di Amburgo poco dopo. L’espansione del debito pubblico non comportò effetti di sola destabilizzazione, perlomeno nei paesi economicamente più dinamici; al contrario essa favorì una vasta categoria di titolari di rendite che, in cambio dell’acquisto di titoli, si garantirono un interesse annuo più modesto ma meno aleatorio delle grandi somme prestate direttamente e che gli stati si trovavano in difficoltà a restituire interamente.
Se l’aumento dei prezzi danneggiò i salariati e tutte le categorie a reddito fisso, costituì però un’occasione di arricchimento per le categorie più dinamiche che operavano nel tessuto economico. I mercanti-imprenditori riuscirono ad accumulare enormi profitti sfruttando, da un lato, il rialzo dei prezzi industriali, dall’altro del ribasso dei salari. L’esempio dei Fugger - che investirono ingenti capitali nelle attività produttive (tessitura, lavorazione dei metalli, miniere) - non fu isolato. I monopoli, l’influsso politico ottenuto attraverso la gestione in concessione di un settore economico, del commercio di esportazione, o del credito misero spesso questi grandi "capitalisti" in concorrenza con gli stati, che pretendevano in nome del diritto di sovranità monopoli e che non volevano rimanere esclusi dai traffici internazionali. L’industria estrattiva e siderurgica si aprì a nuovi orizzonti e fu certamente una delle realtà più dinamiche, in conseguenza dell’accresciuta domanda di ferro ma anche perché forniva materie prime essenziali per altre attività produttive; basti pensare all’allume, usato nella colorazione delle stoffe, la cui accresciuta richiesta incentivò lo sfruttamento di nuove miniere in Germania e in Inghilterra, accanto a quelle consuete di Tolfa e di Cartagena. Il settore tessile, infatti, continuava ad essere quello trainante in ambito manifatturiero. I tessuti erano oggetto, probabilmente, dei commerci più consistenti e le persone impiegate nelle diverse fasi della lavorazione erano centinaia di migliaia in tutti i paesi (nella Firenze del '500 si contavano ancora circa 30.000 impiegati nel settore laniero). Il primato rinascimentale delle città italiane nella lavorazione della lana e della seta (con la diffusione in tutta Europa di tessuti raffinatissimi e costosi come velluti e damaschi) fu affiancato dallo sviluppo della produzione nei Paesi Bassi, in particolare nelle Fiandre, famose per le tintorie e per la produzione di arazzi. La produzione della seta spagnola, che era stata molto famosa, decadde con l’espulsione dei moriscos, eccellenti artigiani del settore; in Francia, un centro tessile molto rinomato fu Lione (sete e velluti), mentre la Germania si specializzò nei rozzi e solidi tessuti di fustagno. Una delle novità più rilevanti di questo periodo fu - oltre all’arrivo dal nuovo mondo di nuovi prodotti come, ad esempio, l’indaco usato nelle tintorie di lana - la crescita della domanda di tessuti meno pregiati e meno costosi in conseguenza dell’incremento demografico e della crisi monetaria. Fu soprattutto l’Inghilterra a sviluppare la produzione di "pannilana" a minor costo, destinati a rinvigorire il commercio inglese e a provocare un parziale spostamento del ciclo produttivo nelle campagne.
Il fenomeno più vistoso dell'agricoltura del XVI secolo fu sicuramente l'espansione dell'area coltivata. L'aumento del prezzo del grano, legato alla crescita della popolazione, incentivò la messa a coltura a grano di nuove terre, tramite bonifiche e dissodamenti, o la conversione alla cerealicoltura di terreni precedentemente sottoposti ad altri tipi di sfruttamento agricolo (pascoli e colture legnose specializzate). Gli alti prezzi ebbero, ovviamente, delle notevoli ripercussioni sui proprietari e sui tenutari delle terre: nell'immediato ne approfittarono soprattutto gli affittuari che continuavano a pagare gli stessi canoni in una fase ascensionale dei prezzi di vendita dei prodotti agricoli; al contrario rimasero svantaggiati tutti quei proprietari che vivevano delle rendite e degli affitti costanti provenienti dai loro patrimoni fondiari. I proprietari, che prima dell’aumento dei prezzi avevano dato in conduzione le loro terre a canoni fissi o che ricevevano dai loro contadini pagamenti in denaro, nell’arco di pochi decenni videro crollare i loro redditi. Infatti mentre le rendite fondiarie rimanevano fisse in valore assoluto, diminuivano notevolmente in valore reale. Dinanzi alle buone prospettive offerte dal mercato, molti proprietari passarono a una conduzione diretta dei loro patrimoni fondiari, indubbiamente più vantaggiosa. Un nuovo patriziato rurale prosperò così in molte regioni dell'Italia centro-settentrionale, oltre che in Inghilterra ed in vari paesi dell'Europa centro-orientale (e il fiorire di una letteratura agraria fornì importanti supporti teorici a questa nuova imprenditorialità). L'aumento della popolazione e dei prezzi rese insomma la coltura della terra un buon affare sia per i nobili sia per il ceto mercantile in espansione, attratto da un investimento che, oltre alle sue ricadute sul piano del prestigio sociale e della sicurezza, era adesso anche redditizio. Ma vi furono anche categorie che risultarono particolarmente svantaggiate da questa congiuntura. I piccoli coltivatori indipendenti, che non disponevano di risorse economiche tali da migliorare la loro produzione e renderla competitiva, caddero schiacciati da un progressivo indebitamento e si ridussero di numero: costretti a cedere o a vendere a basso prezzo le loro terre ai grandi proprietari, andarono a ingrossare le fila dei disoccupati urbani e rurali.