Nel corso dell'XI secolo, un fremito attraversò buona parte dell'Europa occidentale, un vento che, nel corso del secolo successivo, si sarebbe trasformato in una bufera: la popolazione delle città stava dando vita ai comuni.
Gli abitanti si organizzarono per governarsi da soli, giurando, a tal fine, di aiutarsi l’un l’altro: quest’associazione giurata, che non comprendeva soltanto mercanti e artigiani, ma anche nobili ed ecclesiastici, prese il nome di comune. A differenza di quello feudale, profondamente asimmetrico, questo giuramento fu di carattere egualitario, ma ciò non escluse l’esistenza di lotte e conflitti.
In effetti, nell’origine e nel successivo sviluppo del comune, si bilanciarono due opposte tendenze: la coscienza dei cittadini di essere comunità e l’aspirazione egemonica delle grandi famiglie in lotta fra loro.
Il comune nacque da un compromesso provvisorio fra le due tendenze e si realizzò inizialmente all’interno della classe dirigente - la cui concordia, infatti, era fondamentale presupposto nella creazione degli organi governativi - e in seguito fra i cittadini più eminenti e il resto della popolazione.
Così poté accadere che, intorno al 1077, il vescovo e signore di Cambrai, nella Francia del nord, si assentasse dalla città lasciandola "in piena pace e letizia", ma trovando al suo ritorno le porte sbarrate dagli stessi cittadini, stretti dal giuramento che aveva portato alla nascita del comune. Come in molte altre vicende simili, lo scopo di questo atto di forza era il tentativo di riconoscimento della nuova entità politica: un atto destinato a tradursi in un'evidente autonomia di quella comunità rispetto al signore-prelato. Questi, dopo un tentativo di assedio sostenuto con l'aiuto di un conte, si decise ad instaurare delle trattative che indussero i cittadini alla convinzione che il loro comune avesse ottenuto la legittimazione da parte del loro signore. Le porte di Cambrai vennero aperte, ma a varcarle furono le truppe del vescovo e dei suoi alleati che - come narra una cronaca del tempo - misero a ferro e fuoco la città, punendone gli abitanti per la loro arroganza e costringendoli a prestare nuovamente l'omaggio vassallatico al loro signore.
Episodi come quello appena evocato lasciavano però il segno e la loro fama si diffondeva nelle regioni vicine, monito per reprimere ulteriori tentativi, ma anche esempio per altre comunità desiderose di dar forma concreta al loro bisogno di autonomia. La presenza di questa forza nuova, composta da individui di origine non aristocratica, i quali, ad onta del loro status, rivendicavano il diritto di intervento anche in questioni politiche rilevanti, suonò quasi ovunque come una stupefacente novità. Per questo, il comune nato a Londra alla fine del XII secolo, mentre re Riccardo Cuor di Leone era in viaggio per la Terra Santa, venne identificato da un cronista evidentemente avverso, come "tumore del popolo, terrore del regno, spregio del clero": niente però sarebbe più stato come prima.
Un'altra esperienza significativa fu quella del comune di Asti che, alla fine del XII secolo, poteva vantare la legittima esistenza di un'istituzione comunale ormai consolidata. Il vescovo astigiano non costituiva un problema in tal senso, avendo accettato la nuova situazione; semmai il problema veniva dal fatto che, sul piano istituzionale, il potere del prelato continuava a sopravvivere ed il rispetto formale di questa situazione imponeva una risoluzione di compromesso.Fu così che qualcuno, certo molto esperto in materia giuridica, dovette suggerire una soluzione ancorata ai vecchi schemi giurisdizionali feudo-vassallatici che, salvando le forme, avrebbe accontentato tutti, senza peraltro costituire una minaccia per l'autonomia comunale. Così, il 28 marzo del 1095, il vescovo Oddone nominò i dieci consoli di Asti, i massimi esponenti del comune e dei cittadini, suoi vassalli, attribuendo loro, a titolo di beneficio, un castello con tutta la sua corte e le sue pertinenze, ubicato nel territorio astigiano. Con questo escamotage, i consoli divenivano formalmente vassalli del vescovo: il compromesso aveva di fatto sancito la convivenza tra il nuovo ed il vecchio potere.
Qui come altrove, la crescita dell'esperienza comunale fu costante e dovette articolarsi seguendo le necessità più diverse che dovevano tenere conto della preesistenza di mature strutture istituzionali. Il comune infatti nasceva come un agente di rottura degli equilibri giuridici, tanto nuovo da costringere tutti alla riformulazione di una strumentazione normativa destinata a soddisfare le esigenze legate all'inserimento stabile di questo nuovo soggetto nel panorama politico.
L'Italia centro-settentrionale fu - insieme con la Provenza - l'area in cui l'autogoverno delle città raggiunse la maggiore pienezza. La specificità della situazione vigente nella penisola può essere ricondotta essenzialmente a due elementi caratteristici. Il primo di essi è costituito dalla pluralità dei ceti che concorsero alla creazione del governo comunale. Semplificando un panorama notevolmente vario e sfumato, vi si possono infatti riconoscere le seguenti componenti: gli uomini d'arme, ovvero le aristocrazie di tradizione militare, spesso legate al vescovo da un rapporto vassallatico e detentrici di beni in proprietà o in feudo nel territorio; gli uomini del denaro, vale a dire mercanti, cambiatori e monetieri, la cui ricchezza si era formata principalmente grazie all'attività di scambio. Gli uomini di cultura, quei giudici e notai in possesso di un sapere di governo e della capacità di dare al nuovo potere rappresentatività sul piano del diritto. Il secondo tratto distintivo dell'esperienza comunale nell'Italia centro-settentrionale si concretizza in un’originalità di rapporto fra la città e il territorio circostante. Già all'indomani della sua nascita, infatti, il comune italiano puntò all'affermazione della sua autorità in ambito extra-urbano, sfruttando la forza delle armi, la persuasione del denaro e la copertura giuridica che gli derivavano dalla presenza nelle sue file di uomini in grado di fornire tutti questi apporti.
L'elemento-base del comune, da cui si sarebbero sviluppate tutte le articolazioni successive, era costituito dall'assemblea, che era indicata (secondo le città e i momenti) con vari nomi: consilium, concio, colloquium, arengum. Originariamente era composta da tutti i cittadini, ma, ben presto, fu ridotta ai soli capifamiglia. Era convocata al rintocco della campana, al suono della tromba o per voce di un banditore e si teneva in piazza o nel palazzo vescovile, se non in chiesa; essa deliberava sugli affari di maggiore importanza: guerra e pace, alleanze, tributi e destinazione dei beni del comune.
Inoltre, nominava le magistrature e provvedeva ai singoli uffici. Era dunque la sede del potere deliberativo (oggi diremmo legislativo). Con il crescere della popolazione cittadina e il complicarsi della legislazione, l'assemblea fu rapidamente sostituita da consigli meno affollati, eletti con i sistemi più vari. Normalmente due: uno più ristretto (detto dei Savi, degli Anziani, di Credenza), un secondo più largo, che arrivò a comprendere anche seicento persone (Maggiore, Generale, della Campana). Mentre i consigli erano depositari del potere legislativo, il potere esecutivo e il potere giudiziario erano affidati a quello che potremmo definire, con una similitudine un po' modernizzante, il governo del comune.
Fin verso la fine del XII secolo, la suprema magistratura fu quella dei consoli, nome che richiamava direttamente i governanti dell'antica Roma.
Si trattava dunque di una magistratura collegiale, designata per elezione, all'inizio in carica per periodi molto brevi (sistema che garantiva un'ampia rotazione) e poi solitamente per un anno. La comparsa dei consoli nella documentazione è solitamente considerata come la prova di una piena affermazione dell'istituzione comunale. Ciò avvenne a Pisa nel 1081-1085, ad Asti nel 1095, ad Arezzo nel 1098, a Genova nel 1099, a Pistoia, Lucca e Ferrara nel 1105, a Cremona nel 1112, a Piacenza e a Bologna nel 1123, a Perugia nel 1130, e infine a Firenze nel 1138.Non è raro sentire utilizzare, a proposito dei sistemi governativi nelle città italiane dei secoli XI-XIV, l'espressione "democrazia comunale". In realtà, sebbene si trattasse di governi che derivavano la loro autorità "dal basso" e non da un'investitura di poteri superiori (il re, l'imperatore o il papa), il concetto designa una realtà assai diversa da quella delle democrazie moderne.
È stato calcolato che erano al massimo il 20-25% coloro che godevano dei diritti politici, legati a requisiti come la maggiore età, il sesso maschile, il possesso della cittadinanza e, talvolta, la proprietà di una casa in città. Dall'insieme della popolazione adulta vanno poi sottratti i servi, le donne, gli immigrati poveri impossibilitati a pagare la tassa di cittadinanza o ad acquistare una proprietà in città, i lavoratori salariati, i senza fissa dimora e, infine, gli ebrei e i musulmani non convertiti.
Al di là delle Alpi, il comune si affermò nelle Fiandre, nella Germania renana e in Francia settentrionale e meridionale, ossia in quelle regioni dove più intenso era lo sviluppo economico. I comuni transalpini si distinsero per il carattere spiccatamente borghese e per la limitazione del loro potere all’interno delle mura urbane. Sul territorio circostante alle città, infatti, continuarono a dominare le aristocrazie rurali, che rimasero in gran parte estranee alla vita cittadina. Le autonomie cittadine furono il risultato dell'iniziativa di ceti eminentemente mercantili e non videro, come accadde nel caso italiano, un significativo concorso di forze signorili del territorio. In Francia la nascita dei comuni fu favorita, oltre che dai privilegi e dalle franchigie concesse dai sovrani alla borghesia mercantile e artigiana, anche dalle paci giurate fra i cittadini promosse dalla Chiesa. Lo sviluppo dei governi comunali fu debole invece nelle zone dell’Europa centro-orientale, sulle quali più stretto era il controllo dell’impero, della Chiesa e della feudalità, ma anche in quelle regioni dove più marcata era l’autorità dei regimi monarchici, come nella penisola iberica, nell’Italia meridionale e in Scandinavia.
In Inghilterra, dove pure esistevano numerosi centri commerciali e manifatturieri, il movimento comunale fu quasi inesistente e soltanto Londra ottenne dai sovrani alcuni privilegi politici.
Nella seconda metà del XII secolo e in tutto il XIII, continuò l'espansione dei comuni italiani, ma la loro affermazione giuridica, politica ed economica non fu certo lineare. Al loro interno, infatti, si accesero ben presto contrasti profondi fra le famiglie, le fazioni e i ceti sociali. All'esterno, una nuova conflittualità, generata dalla costante ricerca di egemonia, divise le città comunali in schieramenti che si scomponevano e ricomponevano senza sosta. Queste vicende, in più, non avvenivano in uno scenario vuoto, ma si intrecciavano con quelle dei due maggiori poteri del tempo, il papato e l'impero, il cui antagonismo coinvolgeva le nuove realtà cittadine in complesse strategie politiche e militari.
Gli imperatori tedeschi, dopo il Mille, presi com’erano delle questioni interne della Germania, si erano generalmente disinteressati dell’Italia, a parte poche eccezioni. Tale situazione, che aveva favorito la diffusione del movimento comunale nell’Italia centro-settentrionale, cambiò con l’ascesa al trono di Federico I di Svevia, detto il Barbarossa. Il suo disegno politico aveva il triplice obiettivo di ristabilire l’autorità imperiale sui comuni italiani, riaffermare il primato dell’impero sul papato e realizzare l’antica aspirazione dei sovrani tedeschi: annettere ai loro domini anche l’Italia meridionale.
Dopo una prima discesa in Italia nel 1154, il Barbarossa tornò nel 1158 alla testa di un consistente esercito per recuperare quei diritti sovrani - come il battere moneta, il levare imposte o il dichiarare guerra - che sosteneva essere stati usurpati dai comuni. Le campagne militari continuarono negli anni successivi e si indirizzarono prevalentemente verso i centri padani che avevano rifiutato di sottomettersi all'autorità imperiale, primo fra tutti, quello di Milano. L’esigenza di opporsi a Federico I indusse le città ribelli ad unirsi prima nella Lega veronese (1164) e poi nella potente Lega lombarda (1167), entrambe appoggiate dal papa, preoccupato per le pretese egemoniche avanzate dall’imperatore. Nel 1176, a Legnano, l'esercito imperiale subì una sconfitta decisiva, alla quale seguì la fine delle ostilità. Dopo la quinta discesa di Federico in Italia e la sconfitta di Legnano, la politica imperiale scelse infatti la via dell’azione diplomatica. Nel 1183, con la pace di Costanza, si chiuse il conflitto con i comuni: il Barbarossa riconosceva la Lega lombarda e rinunciava alla nomina di propri ufficiali nelle città, nonché ai diritti regi fino a quel momento rivendicati. Per i comuni, che accettarono di dichiararsi vassalli dell'imperatore, entrando così a pieno diritto nella struttura dell'impero, si trattava di una sostanziale vittoria: le città della Lega e, ben presto, tutte le altre, si videro, infatti, riconosciute le più importanti prerogative di autogoverno e il diritto a mantenere un proprio esercito.
L'esito della lunga lotta fra i comuni e Federico Barbarossa segnò l'inizio di un’ulteriore fase di sviluppo delle città nell'Italia centro-settrentionale. Nel clima di euforia seguito alla pace di Costanza (1183), i governi cittadini affermarono con maggiore decisione la propria sovranità, estromettendo gli antichi titolari del potere cittadino (normalmente i vescovi) da ogni giurisdizione civile e perseguendo un'effettiva sottomissione del contado; intrapresero, inoltre, la sistemazione urbanistica delle città con la creazione di edifici pubblici destinati alla vita comunitaria e agli scambi economici. Di fronte a questa nuova stagione della storia del comune, il sistema dei consoli si rivelò, però, insufficiente. A determinare la crisi della vecchia magistratura di governo, furono soprattutto i contrasti fra i diversi gruppi sociali che vivevano all'interno della città, ma anche le lotte fra le principali famiglie per ottenere maggiori quote di potere: ne risultarono veri e propri conflitti armati. Sui documenti risalenti alla fine del XII secolo, infatti, un po' ovunque, cominciano ad emergere i nomi di due fazioni antagoniste: quella dei nobili e quella dei popolani.
Al di là delle connotazioni di ceto che differenziavano i due schieramenti, certamente esistenti, una semplice, ma efficace definizione consiste nel vedere la nobiltà come la classe che deteneva e cercava di mantenere il potere e il popolo come l'insieme di coloro che miravano a sostituirsi alla vecchia classe dirigente. La soluzione per uscire da questa difficile situazione fu trovata nella creazione di una nuova magistratura, stavolta né collegiale né cittadina: quella del podestà. Almeno inizialmente, il nuovo magistrato fu scelto come mediatore tra le parti, come colui che poteva meglio garantire, in qualità di esterno, il governo della città; ben presto, tuttavia, egli sarebbe divenuto lo strumento di potere e quasi rappresentante del partito, di volta in volta, dominante e sarebbe stato scelto esclusivamente nelle città dove prevaleva la stessa fazione.
L'affermarsi del governo podestarile comportò, senza dubbio, un rafforzamento del potere esecutivo, soprattutto nell'amministrazione della giustizia e nella conduzione degli affari militari, nonché un suo più deciso distacco dal potere deliberativo. Tuttavia, l'autorità del podestà era tutt'altro che assoluta, essendo egli essenzialmente l'esecutore delle decisioni che venivano dai consigli del comune: questi, non il magistrato forestiero, erano infatti gli organi veramente politici. Il compito del podestà, in altri termini, consisteva nel tradurre in atti concreti una volontà collegiale e il suo operato si svolgeva entro i limiti fissati dalle leggi locali. Funzionario stipendiato, inizialmente in carica per un anno, poi per sei mesi, il podestà era solitamente un personaggio di nobile famiglia, per lo più cavaliere e, a volte, giurista, ma sempre comunque competente in questioni militari e giudiziarie. Il gran numero di comuni esistenti nell'Italia centro-settentrionale, la rapida alternanza e il numero relativamente ristretto di famiglie sufficientemente illustri perché i loro membri potessero ottenere l'ufficio fecero sì che molti podestà svolgessero il loro compito in modo che si potrebbe definire professionale. Passando ogni anno da una città all'altra, essi svilupparono infatti un'esperienza in grado di contribuire notevolmente alla diffusione di una cultura politica omogenea all'interno del mondo comunale. Elementi fondanti di tale background erano l'uso sapiente della parola e la capacità di maneggiare le tecniche della comunicazione, indispensabili per funzionari che dovevano presiedere assemblee e consigli e tenere discorsi pubblici in situazioni diverse.
Dopo la morte di Federico Barbarossa, avvenuta nel 1190, i tentativi di limitare le autonomie cittadine effettuati dagli imperatori tedeschi furono occasionali e inconcludenti. Le cose cambiarono però con la comparsa sulla scena del nuovo imperatore, Federico II di Svevia. Nato dal matrimonio fra Enrico VI, figlio del Barbarossa, e Costanza d’Altavilla, ultima erede della monarchia normanna di Sicilia, Federico II aveva assunto la corona del Regno di Sicilia, quella di Germania e, dal 1220, quella imperiale.
In buoni rapporti con papa Innocenzo III, suo precedente tutore, e con Onorio III, che gli aveva conferito la dignità imperiale, il giovane nipote del Barbarossa riprese il progetto dei propri avi, puntando a riaffermare la piena autorità imperiale sul regno d'Italia e il suo controllo sui territori della Chiesa. Ciò lo condusse a sostenere un duro scontro con i papi Gregorio IX e Onorio IV.
Per essere più libero di agire, Federico fece eleggere sul trono di Germania, in qualità di coreggente, il figlio Enrico e lasciò ai principi tedeschi ampi poteri, sperando di utilizzare il loro appoggio per ricondurre all'obbedienza le città dell'Italia centro-settentrionale. Non tutti i comuni, per la verità, erano ostili all'imperatore: quasi ovunque, esistevano un partito filo-imperiale (o "ghibellino") e uno filo-papale (o "guelfo") e, non raramente, in base al gioco degli interessi locali, a prevalere fu il primo. Le divisioni all'interno delle città e fra comune e comune trasformarono l'Italia in un enorme campo di battaglia.
Quando, nel 1237, l'esercito di Federico II sconfisse a Cortenuova le truppe della Lega lombarda, la vittoria dell'imperatore sembrava alle porte, ma i suoi errori politici e l'ostilità del papa Innocenzo IV, che prima lo scomunicò (1239) e poi lo dichiarò deposto (1245), sciogliendo i suoi sudditi dal giuramento di fedeltà, ne decretarono la sconfitta. Federico II non fece in tempo a preparare la sua riscossa: nel 1250 la morte lo colse all'età di cinquantasei anni.
Guelfi e ghibellini
Le fazioni dei guelfi e dei ghibellini, la cui lotta insanguinò, soprattutto nel Duecento, le città italiane, si disposero in campo traendo entrambe il proprio nome e la legittimazione politica dai due tradizionali schieramenti che, nello scenario dell’Europa occidentale, contrapponevano i fautori del papa ai sostenitori dell’imperatore. I primi si rifacevano ai conti di Baviera e di Sassonia, cioè ai discendenti di quel Guelfo IV che, verso la metà del XII secolo, si era invano opposto all’incoronazione di Corrado III, legandosi perciò alla volontà dei vescovi di Germania che volevano sul trono Lotario di Supplimburgo.
I secondi sostenevano invece la casata sveva degli Hohenstaufen, signori del castello di Weiblingen. Guelfi e ghibellini erano, dunque, etichette europee, che, nella realtà italiana, trovarono ragioni di rapida affermazione ed utilizzazione, contribuendo a far assumere alle dispute cittadine il duplice aspetto di lotta interna - legata agli equilibri e agli interessi del ceto aristocratico - e di contrapposizione ideologica generale. Non si può comprendere appieno quanto profonda potesse essere la frattura tra i cittadini aderenti ad una parte o all’altra, se non si considera quanto viscerale ed emotivo fosse il senso di appartenenza ed il vincolo che faceva aderire all’una o all’altra delle fazioni in campo e quanto tale senso di "partecipazione" connotasse poi ogni atto, ogni minimo episodio della vita di ciascun cittadino.
Tutto finiva per dipendere dalla catalogazione politica, da quei "maladetti nomi" di guelfo e ghibellino che inquadravano, dividevano e provocavano faide e dissidi profondi. Rose bianche, rose rosse, aquile, gigli, perfino la "frutta" - avrebbe esclamato ben due secoli dopo San Bernardino in una sua famosa predica - si soleva dividere tra guelfa e ghibellina, così come si pretendeva che i santi e gli angeli fossero favorevoli ad una parte e avversi all’altra: "chi dice che santo Giovanni è guelfo, e chi dice che è ghibellino. E così dicono anco degli angioli, che so’ partigiani", aggiunge il frate.
Lo scontro tra i comuni e Federico II
Nonostante le trasformazioni che avevano segnato il passaggio dal comune consolare a quello podestarile, nell’epoca di insediamento e diffusione dei podestà, il potere continuava a rimanere principalmente nelle mani dell’aristocrazia che controllava i consigli. Il "popolo", nel quale si andava ingrossando la componente dei mercanti e degli artigiani, continuava a restare fuori della stanza dei bottoni.
La sua forza diveniva però sempre più consistente e si basava su due strumenti fondamentali: da una parte, le Arti o Corporazioni, ossia le associazioni di mestiere nate per tutelare gli interessi dei ceti produttivi, dall’altra, le "società armate", vale a dire le compagnie di difesa che si sviluppavano su base rionale.
Il conflitto fra nobiltà e popolo non trovò soluzione con l’intervento del podestà, ma continuò ad insanguinare molti comuni dell’Italia centro-settentrionale nella prima metà del Duecento. Il quadro si complicò inoltre con la ripresa dell’iniziativa dell’imperatore Federico II, che, durante il secondo quarto del secolo, condusse l’offensiva contro il papato ed i comuni: l’antagonismo divise le città in guelfe e ghibelline e questo anche al loro interno.
Per mettere un po’ d’ordine, bisogna specificare che spesso la parte guelfa coincideva con il comune popolare. In alcune città, particolarmente vivaci sotto il profilo economico, dopo il 1250, il popolo conquistò il controllo del governo. Il caso più esplicito è quello di Firenze, dove, dopo un’aspra lotta dalle fasi alterne, si arrivò, nel 1282, alla costituzione del Priorato delle Arti e, nel 1293, all’emanazione degli "Ordinamenti di giustizia", una severa legislazione destinata a colpire le famiglie di antica origine nobiliare. In altre città, il popolo conquistò propri spazi, ovvero ebbe la prevalenza in uno dei due consigli e insediò, accanto a quelli esistenti, propri magistrati.
Si ebbe una signoria cittadina quando i poteri di governo si concentrarono, più o meno durevolmente, nelle mani di un unico individuo. All'istituzione della signoria si giunse per vie diverse. Talora il podestà o un altro magistrato cittadino, in particolare il capitano del popolo, tramutarono il loro ufficio a tempo in ufficio a vita. Altre volte, fu la fazione vincitrice a proclamare signore il suo leader. In altri casi ancora, si scelse un signore per avere un capo al di sopra delle parti, quasi ripetendo, a distanza di un secolo, ciò che era avvenuto con l’istituzione del podestà. In certi casi, il signore era un cittadino, in altri, un forestiero. Talvolta invece qualche signore di castello o capitano di forze popolari s’impadronì del governo cittadino attraverso un vero e proprio colpo di mano.
Tuttavia, indipendentemente dalla sua origine, il potere signorile fu sempre legittimato da un’acclamazione popolare o dalle assemblee comunali, così che, almeno dal punto di vista formale, la volontà collettiva della città ebbe comunque modo di esprimersi.
La signoria fu la risposta al desiderio delle cittadinanze di pace interna, di rafforzamento militare, di concentrazione dei poteri e di capacità decisionale, contro il perpetuo scontrarsi delle fazioni, delle grandi famiglie e degli interessi organizzati nelle Corporazioni. La signoria fu, comunque, un naturale effetto della vita urbana, una risposta ai problemi generati dalla stessa evoluzione del comune e al difficile rapporto tra centro urbano e territorio, tra città e città.
Se i signori furono spesso rampolli di famiglie aristocratiche e feudali, questo avvenne perché essi godevano di sufficiente prestigio, di legami familiari e di competenze militari e di governo tali, da far sperare che avrebbero corrisposto bene ai compiti cui erano chiamati. In altre parole, la signoria fu, al di sopra o in luogo delle vecchie magistrature elettive, un embrione di burocrazia uniforme ed accentratrice, che si rivelò essere, negli anni a seguire, il primo passo verso lo stato moderno.Le zone d'elezione del fenomeno signorile furono principalmente l'Italia settentrionale e le terre formalmente soggette al potere pontificio, come la Romagna e le Marche, dove, all'inizio del Trecento, le strutture comunali, anche se spesso formalmente intatte, avevano già lasciato il posto al potere di uno solo. Così a Milano, già nel 1240, avevano prevalso i guelfi Della Torre, appoggiati dalla parte popolare, mentre nel 1277 a loro subentrarono i ghibellini Visconti. Nello stesso periodo, dopo il fallimento del tentativo signorile di Ezzelino da Romano, Verona passò ai ghibellini Della Scala (o Scaligeri), Treviso ai guelfi Da Camino, Padova ai guelfi Da Carrara.
Mantova fu soggetta prima ai ghibellini Bonacolsi, imparentati con gli Scaligeri, poi ai guelfi Gonzaga. Ferrara, dopo un effimero prevalere dei ghibellini Torelli, vide il trionfo, nel 1240, dei guelfi marchesi d'Este, la cui ambizione era di creare un dominio territoriale che controllasse le foci dell'Adige e del Po. Nella Romagna e nelle Marche si ebbe un proliferare di signorie, in guerra fra loro, che traevano la ragione del proprio sviluppo dalla debolezza del potere pontificio: i Malatesta a Rimini, i Montefeltro a Urbino, i da Varano a Camerino. Da questo movimento verso la signoria rimasero invece più a lungo immuni le grandi città marittime di Pisa, Genova e Venezia ed i comuni toscani. Probabilmente, la causa di queste differenze va ricercata nella più complessa struttura sociale di questi centri, dove la crescente importanza del capitale mobile e degli interessi bancari e mercantili di respiro internazionale favorirono semmai il sorgere di oligarchie di potere, piuttosto che di esperimenti dittatoriali.
È significativo, peraltro, che tentazioni in questo senso si siano avute anche nei centri a fisionomia più spiccatamente "repubblicana", come la stessa Firenze, dove, nella prima metà del Trecento, si ebbero i brevi esperimenti signorili di Carlo di Calabria e di Gualtieri di Brienne.