Scienza e filosofia, per Leibniz, devono servire a riorganizzare la vita dell'umanità su basi razionali.
Ma la ragione potrà far presa sulla realtà, e trasformarla, solo a patto che la realtà sia tale da assoggettarvisi: cioè che sia essa stessa, fin da principio, razionale.
Egli, infatti, concepisce la realtà in un modo per cui essa si presta ad essere conosciuta fino in fondo dalla ragione, e quindi anche ad essere padroneggiata fmo in fondo dalla scienza, secondo i dettami della filosofia.
Egli pensa che la realtà sia interamente ricostruibile a partire da elementi semplici primitivi, non ulteriormente analizzabili, e che dovrebbero costituire tutto con la loro combinazione.
Quali siano codesti elementi semplici, Leibniz non dice mai: ma presuppone che ci siano; e, perlomeno da giovane, ritiene che sia possibile dame un elenco il più possibile completo.
Fatto l'elenco, a ciascuno degli elementi si farà corrispondere un carattere, e più precisamente un numero.
Ciò permetterà di ricostruire col pensiero ogni realtà possibile come una combinazione di numeri, e quindi anche di risolvere ogni possibile problema per mezzo di un calcolo.
Quando due persone saranno in disaccordo su un punto qualsiasi, dice Leibniz, potranno sedersi a un tavolo e dire: calcoliamo.
Sul risultato di un calcolo il disaccordo non è più possibile.
A questo ideale rispondono diversi scritti giovanili, alcuni editi, altri incompiuti, e in particolare gli abbozzi di una Caratteristica universale (per far corrispondere i caratteri ai dati reali) nonché la Dissertatio de arte combinatoria (1666).
Un'arte che Leibniz riprende da Lullo (e dal gesuita Atanasio Kircher), dandole però una veste scientifica più rigorosa, e la funzione di ricostruire, attraverso un calcolo combinatorio, tutti i composti a partire dai concetti primitivi.
Grazie a questa scienza generale l'universale pacificazione, perseguita da Leibniz, sarebbe divenuta possibile: il calcolo avrebbe messo tutti d'accordo.
Tanto che, ancora nell' 84, egli sperava, per mezzo della sua logica combinatoria, di fornire la base per la conciliazione delle Chiese.
In seguito, pur dovendo accantonare in parte il suo programma, Leibniz continuò a concepire la realtà come una combinazione di elementi primitivi semplici, perché una realtà siffatta era la sola su cui la logica potesse far presa perfettamente.
I concetti semplici di cui si è parlato sono i possibili primitivi, pensati dalla mente divina, e con cui Dio costituisce il mondo.
La loro possibilità è data, secondo Leibniz, dal fatto di essere pensabili senza contraddizione, possibile essendo «tutto ciò che non si contraddice».
L'intelletto divino è il luogo ideale di tutti questi possibili, che hanno sede in esso.
Come pensieri attuali di Dio, non sono soltanto possibili, ma anche, in un certo senso, reali, perciò tendono a porsi nell'esistenza, come entità reali anche di fatto.
Non tutti i possibili, però, possono esistere insieme nella realtà di fatto.
Non tutti, cioè, sono compossibili, perché dalla loro compresenza nascerebbero contraddizioni.
Tutti i possibili che Dio pensa si organizzano allora in insiemi, che Leibniz chiama mondi, ciascuno dei quali è tutto compossibile in se stesso, ma non è compossibile con gli altri, nel senso che l'esistenza dell'uno esclude quella dell'altro e viceversa.
Alcune di queste combinazioni di possibili, o mondi, sono più ricche, altre meno; e Dio, potendo farne passare all'esistenza una e non più, sceglie naturalmente la più ricca, e cioè il migliore dei mondi possibili.
Su questa perfezione relativa (non assoluta come quella di Dio) del nostro mondo si fonda il famoso ottimismo leibniziano.
E la perfezione consiste nel racchiudere la massima varietà possibile nella minima complessità.
Una sorta di «problema dei massimi e dei minimi», del tipo di quelli di cui Leibniz, con il calcolo infinitesimale, aveva insegnato a trovare la soluzione.
Quanto si è detto serve a Leibniz ai fini della teodicea, cioè della giustificazione di Dio dall'accusa di avere creato il male.
Dio non ha creato il male, ma lo ha permesso, ossia ha permesso nel mondo una certa mancanza di perfezione, perché senza di essa il mondo non si sarebbe potuto distinguere da Dio stesso.
Ma tale mancanza di perfezione è, nel mondo reale, la minima possibile: cioè, in nessun caso Dio avrebbe potuto far di meglio.
Avrebbe potuto non far nulla; e avrebbe potuto anche (ma solo in un certo senso) scegliere un mondo meno perfetto, essendo la sua scelta del tutto libera.
Tuttavia entrambe queste ipotesi sono del tutto irreali, perché, essendo Dio perfettissimo, è chiaro che, potendo creare qualcosa e potendo scegliere, ha scelto il meglio.
Questo è precisamente in motivo per cui Leibniz ammette la possibilità di molti mondi, tuttavia incompossibili tra loro.
Se non vi fossero molti mondi possibili, non si potrebbe dire che Dio scelga, non sarebbe un essere intelligente, buono, provvidente, ma solo una necessità cieca ed assoluta, come per Spinoza.
D'altro canto, se Dio potesse scegliere più di un mondo, e non lo facesse, si potrebbe sempre accusarlo di «non aver fatto tutto il possibile».
Dunque, Dio è giustificato solo se è costretto a scegliere un mondo e uno soltanto: perché in tal caso sceglierà il massimo, cioè il meglio.
La teodicea leibniziana, lascia alcune difficoltà rispetto a Dio perché è difficile ammettere che ci sia un limite determinato a ciò che Dio può fare.
Ma soprattutto pone il mondo nella strana condizione di essere la copia esatta di un pensiero divino e non potersi svolgere se non in un modo prefissato da tutta l'eternità.
Il nostro mondo, infatti, è la posizione nell'esistenza di un insieme di possibili a cui nulla può essere sottratto (perché ne nascerebbe un'imperfezione) e nulla può essere aggiunto (perché ne nascerebbe un'incompossibilità).
Dunque, è un insieme di possibili che non può assolutamente essere variato.
Allora, se ogni diversità è impensabile negli avvenimenti del mondo, come potrà l'uomo essere libero?
Se un uomo si comportasse diversamente da come fa, il mondo reale non corrisponderebbe più esattamente al mondo scelto da Dio.
Essendo il migliore possibile, non può esser diverso e la libertà è impensabile.
Leibniz risponde che la relativa perfezione del mondo non gli impedisce di essere contingente.
Il nostro mondo è pur sempre soltanto uno degli infiniti mondi possibili, e Dio «avrebbe potuto» anche sceglierne un altro.
Ma, per considerare libero un uomo che agisce nel nostro mondo, non basta ammettere che, in linea teorica, sarebbe potuto esistere un altro mondo in cui un altro individuo si comporterebbe in modo diverso, ecc.
Per considerare libero l'uomo bisogna che questo individuo, di questo mondo possa comportarsi diversamente: ciò che, nell'impostazione leibniziana, è impensabile.
C'è dunque un groviglio di difficoltà, che è opportuno vedere di dove nascano.
Il fatto è che la libertà umana (e, a ben vedere, anche la divina) riesce incompatibile con la concezione che Leibniz ha del reale.
Per un verso egli (a differenza di Spinoza) vuole che l'agire umano e l'operare divino siano liberi (e quindi passibili di giudizio morale), non frutto di assoluta necessità.
Ma per un altro verso concepisce la realtà come tutta preordinata, nel suo contenuto e nel suo svolgimento, da una sorta di calcolo combinatorio automatico, che si svolge nella mente di Dio.
Leibniz vuole avere una realtà perfettamente padroneggiabile dalla ragione, e quindi dal calcolo che della ragione è strumento.
Nulla può esservi d'incerto nel risultato di un calcolo; nulla può prodursi di nuovo, se non relativamente alla nostra ignoranza.
Tutto discende con necessità dai dati iniziali.
E, in una realtà siffatta, la libertà non può trovare posto.
È questo l'aspetto per cui il pensiero di Leibniz vien considerato un panlogismo: dottrina di una realtà interamente fondata sulla logica.
E il panlogismo si traduce, per lui, in un panmatematismo, perché il lògos (o ragione) a cui tutto è sottomesso consiste, per i moderni in genere, e per Leibniz in particolare, un lògos matematico.
Tale tendenza è, senza dubbio, feconda di scoperte, perché induce Leibniz a presupporre, e quindi a cercare dappertutto, un ordine definibile matematicamente.
Non c'è curva, per quanto complicata, dice Leibniz, di cui non si possa indicare l'equazione.
E non solo l'essere, statico, ma anche il divenire, dinamico, segue rapporti matematici, che il calcolo differenziale permette di determinare.
Gli stessi eventi sono assoggettabili ad una valutazione precisa mediante il calcolo delle probabilità, che Leibniz riprende da Pascal e perfeziona (vantandosi di integrare, su questo punto, la logica aristotelica).
Ma per un altro verso, il panlogismo leibniziano si lascia sfuggire aspetti della realtà di cui Leibniz, per primo, riconosceva l'importanza.
Esso minaccia di appiattire il reale su un piano di pure essenze logiche, dove ciò che caratterizza l'esistente di fatto, in quanto distinto dal mero possibile, svanisce.
In Leibniz, perciò, vi sono molti spunti in contrasto - o, almeno, in tensione - con il panlogismo, e che tuttavia non sono meno essenziali di esso per definire il suo pensiero.
Una prima distinzione, che può servire a superare il panlogismo, è quella che Leibniz ammette tra verità di ragione e verità di fatto.
Le verità di ragione sono i rapporti eterni, che legano tra loro i possibili nella mente di Dio.
Esse non dipendono punto dal volere di Dio, che non può non riconoscerle, così come sono.
Verità di questo genere sono, ad esempio, tutte le proposizioni della matematica.
Oppure le regole che distinguono in senso assoluto il giusto dall'ingiusto (le quali non dipendono dall'arbitrio divino, ma sono approvate da Dio perché valide, anzitutto, per se stesse).
Tutte queste verità di ragione sono eternamente valide e immutabili, quindi fuori del tempo.
Le verità di fatto concernono invece gli accadimenti che si producono in un certo momento.
Ad esempio, che Cesare passò il Rubicone, che fu ucciso davanti alla statua di Pompeo, ecc. sono verità di fatto.
Ora, dato il modo in cui la sostanza Cesare è costituita - in un mondo perfettamente determinato dalla condizione di dover essere il migliore possibile - l'intelletto di Dio non ha bisogno di apprendere come un fatto o un evento, il passaggio del Rubicone, ecc.
Dio vede la pura essenza di Cesare quale sussiste da tutta l'eternità nella sfera dei possibili, al contrario di come accade a noi che facciamo esperienza a poco a poco.
I rapporti di Cesare con tutto il resto del mondo si presentano a Dio come rapporti necessari, fissati da tutta l'eternità, e quindi come «verità di ragione».
Se, dunque, cancellassimo la differenza tra verità di fatto e verità di ragione, tutta la storia, cioè lo sviluppo successivo dell' esistente nel tempo, scomparirebbe, riducendosi a un insieme di rapporti logici astratti, sussistenti nell'eternità.
Ma Leibniz ci avverte che, per noi, è impossibile cancellare tale differenza: perché, per questo, dovremmo essere capaci di analizzare perfettamente tutta la realtà, e vederla tutta insieme di fronte a noi, come Dio solo può fare.
Abbiamo visto che il mondo esistente differisce dal corrispondente mondo possibile solo perché è prospettato da infiniti punti di vista diversi (le monadi).
Si distinguono l'uno dall'altro, non per il contenuto (che è sempre l'intero mondo) ma unicamente per la maggiore o minore chiarezza e distinzione con cui colgono questo identico contenuto.
Pertanto, la relativa oscurità e confusione, per cui le monadi si distinguono l'una dall'altra, non è, per definizione, riducibile in termini di idee chiare e distinte.
È un principio irriducibile ai puri rapporti logici.
Dunque, solo in virtù di un principio irriducibile ai rapporti logici qualcosa esiste, distinguendosi dal mero possibile.
Ne viene che è irriducibile a puri rapporti logici anche lo sviluppo di ciascuna monade.
Il passaggio progressivo dall'oscurità alla chiarezza delle monadi svolge il proprio contenuto a poco a poco tendendo a rappresentazioni sempre più chiare e distinte.
Questo appetere, questo tendere, è anch'esso un principio che non sta nelle dimensioni del panlogismo, e caratterizza, per contro, l'esistenza di fatto.
Perciò le monadi hanno l'esigenza di possedere un proprio corpo esteso, o organismo.
E, reciprocamente, i corpi estesi hanno l'esigenza di radicarsi nelle monadi, attive ed inestese.
Anche la nozione di esigenza infatti, non è esprimibile in termini puramente logici.
Eppure è necessaria per fondare l'esistenza, perché serve a connettere il piano fisico (che altrimenti non esisterebbe) con il piano metafisico delle monadi.
Tutti questi principi, che non consistono in rapporti logici, si possono ricondurre alla nozione generale di virtualità.
La virtualità è un'attività oscura, tendente alla chiarezza e alla perfezione, che non consiste né in un particolare contenuto della monade, né in un rapporto logico tra i suoi contenuti.
Va intesa come un atteggiamento della monade rispetto all'insieme dei contenuti: atteggiamento che Leibniz chiama variamente, con i nomi di conato, impulso, tendenza, appetizione, esigenza, ecc.
Essi designano tutti, non le rappresentazioni che la monade ha, bensì un modo particolare di averle: cioè di averle imperfettamente, e insieme con l'aspirazione a possederle in un modo sempre più perfetto.
Tale concetto di virtualità è la particolare interpretazione leibniziana della nozione aristotelica di entelechia (l'avere il fine in sé: ma nella forma di tendere a un fine).
Il concetto che abbiamo esposto di virtualità è fondamentale anche per la teoria leibniziana della conoscenza, presentata dai Nuovi saggi sull'intelletto umano: opera rimasta inedita fino al 1765, in cui Leibniz riporta testualmente lunghi brani del Saggio di Locke, per discuterli e confutarli.
Leibniz esamina, in particolare, la critica lockiana dell'innatismo, condotta in base all'osservazione che nei bambini e nei selvaggi mancano tutti i concetti che alcuni ritengono innati: ciò che induce a concludere che «non c'è nulla nell'intelletto che prima non sia stato nel senso».
Leibniz risponde: «Sì, salvo lo stesso intelletto».
Poiché l'intelletto non è una capacità puramente passiva di ricevere impressioni, come una tavoletta di cera (del resto, neppure Locke lo aveva propriamente pensato così): bensì una potenza attiva di sviluppare certe potenzialità che ha in sé.
Questi caratteri potenziali dell'intelletto, pur senza essere conoscenze in atto (e questo spiega perché non si trovino sviluppate nei selvaggi e nei bambini) prefigurano già quali saranno le conoscenze effettive.
In che consistono le potenzialità virtuali dell'intelletto?
In un senso più angusto, sono le verità di ragione, cioè quei rapporti, validi eternamente, secondo cui non potranno non configurarsi le conoscenze di fatto, che l'esperienza via via fornisce.
Ma in un altro senso, più ampio, considerando che ogni monade ha già in sé tutta la propria storia la quale coincide con l'intero mondo visto in una particolare prospettiva, si può dire che sono innate, per Leibniz, anche tutte le verità di fatto: giacché l'intelletto non le apprende di fuori, ma le sviluppa dal proprio fondo.
Vedendo così le cose, Leibniz verrebbe a opporre un «tutto è innato» al «nulla è innato» di Locke.
Tuttavia, pur entro questo innatismo generale, una differenza rimane: perché le verità di ragione hanno sì, una genesi psicologica in noi, ma, in sé, sono eterne e ingenerate.
Per contro le verità di fatto sono tali perché si presentano come accadimenti nel tempo: e quindi, rispetto ad esse, si può parlare ancora di esperienza, sia pure intendendo l'esperienza non come un contatto diretto con l'esterno, bensì come di un'esperienza tutta interiore.
La differenza su esposta induce Leibniz ad ammettere due principi fondamentali del conoscere.
Il primo è il principio di non contraddizione, da cui dipendono tutte le verità di ragione, e che determina quel che è possibile e quel che non lo è.
Il secondo è il principio di ragion sufficiente, da cui dipendono tutte le verità di fatto, e che quindi determina l'esistente in quanto si distingue dal puro possibile.
Il principio di non contraddizione basta da solo a fondare tutte le scienze matematiche, e i principi di tutte quelle altre scienze, i quali dipendono dalle verità eterne (così, ad esempio il diritto).
Il principio di ragion sufficiente serve a fondare le scienze della natura, e si può esprimere così:
«Di tutto ciò che accade, vi è una ragione per cui accade, e per cui accade in un dato modo anziché in un altro».
Questa ragione Dio, che vede distintamente tutti i mondi possibili, potrebbe trovarla nelle sole verità eterne.
Ma per noi questo è impossibile, sicché spesso dobbiamo cercare la ragione delle cose per mezzo dell'esperienza.
Altri principi generali del conoscere meno fondamentali, e che dipendono dal modo particolare in cui Leibniz imposta il problema della realtà, sono il principio di continuità e quello degli indiscernibili.
La continuità non è una legge che appartenga alla sfera dei puri concetti (ossia dei puri possibili): poiché qui abbiamo visto che Leibniz ammette infiniti semplici primitivi, dunque una pluralità discreta (discontinua) di elementi.
Essa vige, per contro, nella sfera del reale, e dipende dalla stessa virtualità delle monadi, per cui esse passano progressivamente da una rappresentazione all'altra, e tendono a rappresentazioni sempre più chiare e distinte.
Appunto questa differenza nel modo di avere rappresentazioni è continua: cioè passa attraverso tutti i gradi intermedi, tra l'ottusità massima delle monadi costituenti la materia bruta, e la distinzione perfetta di tutti i possibili, colti in un unico atto mentale d'intuizione, che è propria solo dell'intelletto divino.
Dato, poi, che da questa differenza dipende la pluralità delle monadi, e quindi anche l'esistenza di fatto, la legge di continuità viene a caratterizzare tutta l'esistenza di fatto.
Caratteristico del leibnizianismo è pensare che la differenza tra il conoscere dei sensi e quello dell'intelletto sia precisamente una differenza di distinzione e, quindi, una differenza di grado (non di natura).
Quindi, come tale, una differenza continua, capace di infinite sfumature.
Entro questa scala continua, si può dire che il senso cominci a conoscere attualmente allorché le sue percezioni si fanno coscienti (appercezioni).
A questo punto le rappresentazioni sono bensì già chiare (nel senso che si staccano da quel fondo oscuro della monade che sono le piccole percezioni) ma non sono ancora distinte, perché in esse non si distinguono ancora, ad uno ad uno, gli elementi della cosa e i loro rapporti.
Il senso coglie, ad esempio, un colore nel suo complesso, e lo coglie con chiarezza: ma solo l'intelletto distingue il modo in cui questo colore è costituito (ad esempio, come una vibrazione periodica, di determinata frequenza).
Nella natura fisica la continuità ha un analogo fondamento.
Essa è dovuta al fatto che la natura risulta dall'attività di un complesso innumerabile di monadi, ciascuna delle quali ha un diverso grado di perfezione e un suo particolare modo di rispecchiare il mondo, diverso da quello di ogni altra.
Non c'è quindi diversità, per quanto piccola, all'interno della quale non si trovino differenze ancora minori.
L’identità degli indiscernibiliIl principio degli indiscernibili afferma che due entità qualsiasi non possono essere due (numericamente) se non sono anche diverse (qualitativamente).
Nel caso dei concetti, la validità del principio è evidente: un concetto può essere distinto da un altro solo se ha in sé qualche nota diversa: altrimenti è lo stesso concetto.
Nel caso delle monadi, è evidente del pari: due monadi il cui punto di vista sul mondo coincidesse perfettamente non sarebbero due, bensì una monade sola.
Dove il principio può sollevare obiezioni è sul piano fisico: dove, secondo Leibniz, non possono trovarsi, ad esempio, due foglie che non presentino qualche diversità, e neppure due gocce d'acqua, ecc.
Ciò avviene perché lo spazio non è indipendente dalle sostanze che contiene, ma esprime solo il loro ordine.
Ma se invece (come penserà Kant) lo spazio fosse indifferente a ciò che contiene, non sarebbe indispensabile, almeno in linea di principio, ammettere che due gocce d'acqua, per essere due, debbano anche essere diverse in qualche particolare: perché potrebbero, pur essendo esattamente uguali, essere due solo perché si trovano l'una fuori dell'altra nello spazio.
La legge di continuità vale, come si è detto, per la gerarchia delle monadi, ma con due eccezioni.
Tra la monade assolutamente perfetta, Dio, e la più perfetta delle monadi finite c'è un salto, perché queste ultime non hanno il loro essere da se stesse, ma lo ricevono da Dio, per un atto istantaneo di creazione (Leibniz parla, a volte, di fulgurazione).
Questo salto qualitativo si esprime nel fatto che tutte le monadi finite, anche le più elevate (poniamo, gli angeli), hanno un corpo, per quanto sottile (e quindi sono inserite, in qualche modo, nella materia), mentre Dio solo è incorporeo.
E l'avere un corpo, per la monade, è l'equivalente esteriore di quello che, interiormente, sono le percezioni oscure e confuse della sensibilità.
Tutte le monadi dunque, salvo Dio, hanno una qualche opacità, passività, sensibilità.
Un secondo iato, seppure minore, è stabilito da Dio tra le monadi della materia o degli animali bruti da un lato, e le monadi dominanti gli organismi umani, e gli spiriti in genere, dall'altro.
Poiché queste ultime hanno, non solo l'indistruttibilità naturale, propria di tutte le monadi, ma anche un'immortalità personale, che consiste nel perdurare di una memoria della continuità della propria persona.
Rispetto alle prime, Dio è come un architetto e un meccanico di infinita abilità: ma rispetto alle seconde è come un legislatore e un monarca di infinita saggezza.
Le une formano il regno della natura, le altre il regno della grazia.
Un adattamento, per certi aspetti, delle due città di Agostino.
L'uomo appartiene ad entrambi i regni contemporaneamente.
Del resto tra i due regni c'è pur sempre una qualche continuità: nel senso che, secondo Leibniz, Dio riesce a far servire gli stessi accadimenti naturali, che si svolgono secondo le leggi di natura, ai fini del regno della grazia, che stanno sotto le leggi morali.
Lo svolgimento stesso della natura, infatti, finisce col premiare i buoni e punire i cattivi.
I buoni, poiché amano Dio, cioè prendono piacere della sua perfezione, non possono non essere tanto più felici quanto più chiaramente colgono la saggezza dell'ordine universale, che dalla perfezione divina discende.
Quindi lo sviluppo naturale degli spiriti buoni, portandoli ad una sempre maggiore chiarezza, li porta anche a una sempre maggiore felicità.
Il finalismo che si manifesta in tanti fenomeni della natura mette capo così, secondo Leibniz, a una fInalità morale.
E l'ottimismo relativo del «migliore dei mondi possibile» tende, da ultimo, a diventare un ottimismo assoluto, per cui ciascuno avrebbe, per le stesse vie naturali, tutta la felicità che si merita.
Questa conclusione, che Leibniz dà ai molti suoi scritti che abbracciano insieme i principi della natura e della grazia può fondarsi, tuttavia, solo su una fede razionale, basata sulla conoscenza della perfezione divina.
Nel piccolo tratto di esistenza che ci è dato di scorgere, non riusciamo a cogliere gli scopi provvidenziali del tutto.
Così come, a chi non vedesse che la minima parte di un quadro, sfuggirebbe l'armonia e la bellezza dell'insieme.
In questo esito finale della filosofia leibniziana non manca l'influsso del quietismo: cioè di una dottrina molto diffusa nel Seicento - soprattutto francese (Fénelon, M.me Guyon) e spagnolo (Molinos) - secondo cui l'amore puro e disinteressato di Dio basta alla salvezza e alla felicità.