Nato a Mosca il 30 ottobre 1821 e morto a Pietroburgo il 28 gennaio 1881. Nel 1838 entra all'Istituto militare di ingegneria, per volontà paterna. Nel 1839 il padre muore ucciso dai suoi servi e Dostoevskij terminato l'Istituto entra in servizio effettivo a Pietroburgo, ritirandosi l’anno dopo dal servizio militare. Nel 1846, pubblica il suo primo romanzo Povera gente e subito dopo Il sosia e Il signor Procharcin. Nel 1847 comincia a frequentare il fourierista Petrasevskij e partecipa alle riunioni del suo circolo. Nel 1849 è arrestato e rinchiuso nella Fortezza di Pietro e Paolo. Il processo ai membri del circolo Petrasevskij si conclude con la condanna a morte ma all'ultimo momento la fucilazione è sospesa e la pena è commutata con i lavori forzati in Siberia dal 1850 al 1854. Scontata la pena si arruola come soldato semplice e comincia a scrivere il romanzo ispirato alla sua prigionia, Memorie di una casa morta. Segue ad esso, nel 1861, Umiliati e offesi, ma soprattutto, nel 1864, Memorie del sottosuolo. Nel 1866 pubblica Delitto e castigo e Il giocatore. Nel 1868 pubblica L'idiota, nel 1871 I Demoni e nel 1874 L'adolescente, seguito l’anno successivo dal Diario di uno scrittore. Nel 1877 è eletto membro dell'Accademia delle scienze e nel 1879 pubblica il suo ultimo capolavoro, I Fratelli Karamazov.
Partito dall'iniziale influsso gogoliano ma anche da Balzac e Dickens, Fëdor M. Dostoevskij (1821\1881) giunse, sotto l'impulso di una profonda crisi religiosa e una fortissima tendenza all'in trospezione, a risultati altissimi. Anche in contrasto con l'originale matrice realistica. E che lo pongono all'inizio del moderno romanzo europeo psicologico e di idee. Indagando sulla libertà, sui suoi scandali e paradossi, e sulla coesistenza tra l'uomo e il suo doppio spirituale, Dostoevskij si congiunge con la problematica dell'esistenzialismo kierkegaardiano, precorre Freud, schiude nuove vie al romanzo che saranno continuate in direzioni divergenti da autori come Gide e Kafka. All'interno della tradizione russa invece Dostoevskij è isolato, episodio eccentrico e deviante, a causa di una radicalità di fondo, nichilistica, con cui pone alcuni problemi centrali. Problema centrale in Dostoevskij è quello del male, e di Dio: «ciascuno di noi è colpevole di tutto e per tutti. E non solo a causa della colpa comune, ma ciascuno, individualmente». La sua posizione è quella di un credente radicale: prima delle analisi di Heidegger, Dostoevskij coglie l'essenza spirituale del nichilismo in personaggi come Ivan Karamazov, Smerdjakov, Kirillov, Stavrogin: quest'ultimo, credendo in Satana senza credere in Dio, raggiunge l'apice di una negazione che coerentemente sbocca nel suicidio. I personaggi di Dostoevskij sarebbero stati impossibili in un ambiente diverso, ad esempio nel mondo ellenico: il suo universo è infatti essenzialmente cristiano. Ma la validità di Dostoevskij è nell'aver voluto affrontare i problemi laceranti e profondi dell'animo umano: dal suo orizzonte è assente qualsiasi elemento edificante o evasivo. La sua validità sta nell'essere un autore tragico, che pone la vita dell'uomo nella lotta tra il bene e il male: «Satana lotta contro Dio, e il loro campo di battaglia è il cuore dell'uomo».
In questo senso i suoi sono racconti teologici, dipingono il male più che il bene, sono una continua ricerca di Dio. Dostoevskij idealizza una Russia arcaica e inventata, che egli contrappone all'"Occidente" razionalista, ateo o, se cristiano, cristiano in senso sbagliato, "eretico" (cattolico e protestante: due forme di negazione, dovuta al "vizio razionale", dell'autentico cristianesimo, portato dal popolo slavo-ortodosso, interprete autentico di Cristo). È interessante far osservare che il "medievalismo" di Dostoevskij trova sostanzialmente riscontro in Tolstoj. E che i populisti russi, pur con tutti i riferimenti ideologici a varie forme di pensiero politico occidentale, erano in sostanza, e cioè nell'effettiva realtà delle cose, "restauratori" di un'antica, mitica Russia in cui sarebbe esistita una società più giusta, rappresentata dal "mir", dalla comunità contadina, che essi populisti, con scarso senso storico, idealizzavano. Tanto Tolstoj, quanto Dostoevskij, quanto i populisti, nella comune, appassionata, sinceramente sofferta condanna dell'ingiustizia presente, miravano a realizzare un ideale remoto. Ed è curioso che le condanne che Dostoevskij, da posizioni di destra, rivolgeva ai populisti e agli anarchici (per esempio nel romanzo I demoni) coincidevano in parte con le dure critiche di Marx, fatte, ovviamente, per altre ragioni e da un contrapposto punto di vista. Per Dostoevskij la "salvezza" della Russia è solo in una rigenerazione autenticamente cristiana del paese, rigenerazione di cui lo scrittore vedeva uno degli strumenti del movimento dello starčestvo, e cioè nell'opposizione, nei monasteri russi, ai vecchi sistemi di vita monastica, fondati sulla sclerosi spirituale, sull'osservanza esterna e superstiziosa delle regole, sul dominio dei monaci fanatici, ignoranti e di fatto non cristiani, di una nuova concezione del cristianesimo e della vita monastica fondata sull'amore autentico per il Cristo. Su una concezione viva della figura di Cristo nella storia dell'umanità: in questo senso, si capisce l'importanza di personaggi quali padre Zosima nei Karamazov, Sonja in Delitto e Castigo, Makàr Ivànovic ne L'adolescente e il principe Myškin ne L’idiota.
Si è spesso considerato in tal senso, come una critica delle chiese storiche, anche l'episodio del poema del Grande Inquisitore dei Karamazov nel quale, al posto del Cristo come simbolo e garanzia di libertà autentica e di autentica vita religiosa, come liberazione dell'uomo nell'amore, si contrappone l'autorità e l'ordine."Abbiamo corretto l'opera Tua - dice il Grande Inquisitore al Cristo che ha fatto arrestare e gettare nelle carceri di Siviglia, nella notte che precede il "grandioso autodafè", durante il quale lo farà bruciare davanti alle folle - abbiamo corretto l'opera Tua e l'abbiamo fondata sul miracolo, sul mistero e sull'autorità. E gli uomini si sono rallegrati di essere nuovamente condotti come un gregge e di vedersi infine tolto dal cuore un dono così terribile, che aveva loro procurato tanti tormenti".Il dono della libertà: perché "la tranquillità e perfino la morte è all'uomo più cara della libera scelta fra il bene e il male". È questo il "cuore" del romanzo, la realtà interiore che brucia, autenticamente, le pagine più intensamente drammatiche della opera. Ma la denuncia a cui mira Ivan Karamazov nell'ideare il poema non è un richiamo morale alle chiese storiche e ai loro errori.
Come ha sottolineato Guardini, il vero cardine della Leggenda del Grande Inquisitore è non tanto la polemica antiromana quanto la stessa figura di Ivàn Karamazov che costruisce la leggenda come espressione non di scandalo autentico per il male ma come blasfema e morbosa giustificazione della sua rinuncia consapevole a Dio. Il Grande Inquisitore impersona lo stesso Ivàn che vuole restituire il biglietto d'ingresso e che considera la creazione come un insuccesso che solo le figure sovrumane simbolicamente rappresentate dall'inquisitore possono tentare di riordinare: lo scandalo del male, la sofferenza dei bambini a cui Ivàn fa riferimento non sono la lacerante e benefica ricerca di un'anima assetata di Dio ma la diabolica apologia di sé.
Profondamente intrecciata con questa "dimensione" religiosa è la tematica realista, lo spaccato angoscioso e tormentato della realtà russa contemporanea, nonché la polemica di Dostoevskij nei confronti di situazioni e istituti che, secondo lui, avrebbero accelerato la disgregazione del paese. Qui la condanna della realtà negativa, esasperata dalla presa di coscienza dei drammi provocati dalle trasformazioni economiche del paese, dalla rottura sempre più rovinosa dei vecchi equilibri, si intreccia con prese di posizione di Dostoevskij, di carattere pubblicistico; a questo proposito va osservato che le "condanne" di Dostoevskij sono spesso ingiuste e dettate dal nazionalismo grande-russo: ma questo concetto nazionalistico è particolare; l'autenticità "russa", per Dostoevskij, non consiste solo o tanto in un fatto di nazionalità inteso nel senso occidentale del termine, ma in una realtà più profonda, in un qualcosa che manca, per esempio, ai "polaccuzzi" e che manca anche a quei russi, come Rakitin, che sono imbevuti di cultura (o pseudocultura) europeo-occidentale, e così tradiscono la verità ortodossa. Gli autentici russi sono, per esempio, proprio Grusen'ka e Dmitrij i quali, attraverso la dialettica della colpa, riscattano se stessi. E il loro riscatto è tanto più profondo e vero in quanto passa anche per la punizione di una colpa non commessa: il parricidio di cui è accusato Dmitrij.
In tal senso, la poetica di Dostoevskij si concentra in due libri fondamentali: le Memorie del Sottosuolo e I fratelli Karamazov, dove si manifesta la complessità della sua visione religiosa. Prima di tutto nella rivolta ateistica di Ivàn Karamazov che accusa Dio della sofferenza inutile, soprattutto di quella dei bambini, e per questo che Egli esista o meno diviene un fatto del tutto indifferente, perché Egli è comunque meno di un demiurgo, incapace di fare buona la sua creazione lasciata in balìa del male. In secondo luogo nel Grande Inquisitore che ha scelto di collaborare con il diavolo, perché la verità sta dalla parte del male. La verità religiosa dunque ci pone davanti a un bivio tra la rassegnazione disperata di Ivàn e il cinismo del Grande Inquisitore. Bivio che si riduce a una luciferina distruzione dell'uomo che, alla superbia dell'autodivinizzazione di Ivàn, preferisce la felice schiavitù del male proposta dal Grande Inquisitore. Una tentazione di annientamento che rimanda, indirettamente, al Kirillov de I Demoni che pensava di diventare Dio nel suo suicidio filosofico; qui come là il desiderio della felicità coincide con l'annientamento, seppure nell'antitesi: ne I Demoni solo la morte dà la libertà e proprio questo attesta la forte tentazione esercitata dal Grande Inquisitore per il quale non ci può essere libertà felice. Nella Leggenda del Grande Inquisitore è la stessa figura di Ivàn Karamazov che costruisce la leggenda come espressione non di scandalo autentico per il male ma come blasfema e morbosa giustificazione della sua rinuncia consapevole a Dio. Solo l'uomo eccezionale può sfidare il caos del mondo che Dio non ha saputo costruire. Pertanto, l'antiteticità delle risposte de I Demoni e della Leggenda del Grande Inquisitore coincide, ancora una volta, con il «sarete come Dei»: o si idolatrizza la propria libertà annientandosi o ci si annienta per la felicità idolatrando il sistema totalizzante dell'illibertà, nel quale tutti sacrificano la libertà al Leviathan. In entrambi i casi uno dei poli della realtà umana viene sacrificato all'altro, mutilandola.
Questo ci permette di affermare che tutta la poetica dei grandi romanzi contiene insieme l'uomo del sottosuolo e l'inquisitore perché essi sono la tensione profonda che agita queste figure metastoriche, dove il denominatore comune è il loro essere degli sradicati in senso pieno. L'assolutizzazione del punto di vista individuale filosofico che risulta essere il centro polemico antioccidentale anche del contemporaneo pensiero di Solov'ëv si simbolizza in modo evidente nella poetica di Dostoevskji. Anche Raskolnikov, in Delitto e Castigo, vagheggia di essere un Napoleone, arbitro delle sorti degli altri. Questa autolatria è quella che conduce Raskolnikov all'omicidio così come guida la folle corsa di Ivàn Karamazov. Un'autolatria che può giungere sino alla disperazione più profonda e alla dissociazione della stessa personalità, come già insegnava il poema Il sosia - agli esordi letterari di Dostoevskij e ben prima delle Memorie del Sottosuolo - e com'è evidente nello sdoppiamento della personalità di Ivàn Karamazov, soprattutto nel suo drammatico colloquio con il diavolo. Mentre l’autolatria dell'ateismo assoluto compare solo come paura nichilistica di sé stessi, come attesta soprattutto Kirillov ne I demoni. Ma è nel personaggio più enigmatico e terribile de I demoni, quello Stavrogin che, come Ivàn Karamazov, mostra un senso demoniaco della sofferenza, che si mostra tutta la nitida luciferina coscienza del male. Così come Ivàn si mostra indifferente alla morte di chi lo circonda e al delitto in virtù di un arbitrio luciferino, così anche Stavrogin, come si chiarisce nella confessione al Vescovo Tichon, vuole perdonare lui stesso a se stesso, rivelando un'autolatria che nell’autogiustificazione del male si colora di tinte demoniache. Ma in Dostoevskij, davanti a questi simboli del negativo, si erge anche una cristologia ben definita, a cominciare da Alëša Karamazov che risponde alle accuse di Ivàn contro Dio, ponendo il mistero del male e della sofferenza al centro di Dio stesso in Cristo che si carica tutto il peccato del mondo. E di questa dimensione universale dell’amore cristiano sono testimoni Makàr Ivànovic ne L'adolescente, lo stàrets Zòsima ancora ne I Karamazov e, soprattutto, quella figura cristologica per eccellenza del perdono e della gratuità che è simboleggiata dal principe Myškin in L’idiota.
Sebbene la dimensione teologica della sua poetica non sia mai semplice apologetica del cristianesimo ma lacerante esperienza vissuta che contraddice le figure del superbo egoismo individualista occidentale. E questa lacerazione trasforma la vita in saradicamento e follia che solo attraverso la sofferenza personale può essere riscattata. Il vero valore del cristianesimo in Dostoevskij è nella salvezzza e nel riscatto da questo delirio attraverso la sofferenza.
Una figura che personifica questo tema è Sonja, in Delitto e castigo, che mantiene abbastanza fede per guidare e sostenere Raskol'nikov nonostante la sua immensa sofferenza. Dostoevskij si mantiene fedele all'idea che la salvezza è un'opzione possibile per tutti, persino per coloro che hanno peccato gravemente. È il riconoscimento di questo fatto che porta Raskol'nikov alla confessione. Sonja ama Raskol'nikov e esemplifica i tratti dell'ideale perdono cristiano, permettendo a Raskol'nikov di confrontarsi con il suo delitto e di accettare il suo castigo.
Si è parlato di esistenzialismo cristiano in Dostevskij proprio per la sua definizione dei limiti morali dell'azione umana entro un mondo governato da Dio. Raskol'nikov esamina i limiti costituiti e decide che un atto manifestamente immorale è giustificabile a condizione che porti a qualcosa di incredibilmente grandioso. Tuttavia, Dostoevskij si dirige contro questo pensiero ambizioso facendo sgretolare e fallire Raskol'nikov nelle conseguenze del suo delitto. Raskol’nìkov è la mente umana dilaniata dall’istinto che si estranea dalla ragione. I suoi momenti di non-controllo non trovano altra spiegazione. È quello che saranno Stavrogin, Kirillov, Smèrdiakov, il principe Miskin, l’uomo del sottosuolo. La non-accettazione dello stato delle cose, il rifiuto delle stesse fatto persona. E tutti quelli che lo circondano rappresentano null’altro che lo scenario neanche troppo ideale di una tragedia morale. Uno contro tutti. Ovvero chi non si riconosce nella società e nelle regole vigenti, contro tutti gli altri, che pare siano la maggioranza. Anche se tutti sanno che non è così. Che Rodion è solo l’estremo, l’esasperazione di un malessere verso ciò in cui non ci si riconosce. Esattamente quella divisione interiore che tocca nel profondo ogni uomo è che nella ribellione acquista tutto il suo potere distruttivo esemplificato, nellla grandi figure dei romanzi di Dostoevskij, nell’omicida e nel suicida. Una dialettica di lacerazione che apre la scena drammatica dei suoi personaggi già nella stranezza della malattia che simbolicamente acquista i toni di una doppiezza interiore con cui tutti i personaggi devono fare i conti. La malattia mortale è soprattuto la divisione interiore del peccato che porta i grandi peccatori e le differenti incarnazioni del superuomo dei grandi romanzi alla propria salvezza o alla propria condanna. SI tratta dunque del dramma del bene e del male, messo in scena nei simboli rappresentati dai personaggi più intenisi e centrali della sua poetica, come nella dialettica dell’ultima parte di Delitto e castigo tra Sonja e Raskol’nìkov.
Sof'ja Semënovna Marmeladova, chiamata anche Sonja e Sonečka, è la figlia di un ubriacone, Semën Zakharovič Marmeladov, che Raskol'nikov incontra in una bettola all'inizio del romanzo. Alla morte di Semën, Raskol'nikov manifesta d'impulso generosità verso la sua poverissima famiglia. Sonja quindi lo cerca e lo va a ringraziare e, in quell'occasione, i due personaggi si conoscono per la prima volta. Lei è stata condotta alla prostituzione dalle abitudini di suo padre, ma si mantiene ancora fortemente religiosa. La sua persona è associata da Dostoevskij al Vangelo, che egli cita nel romanzo solo due volte: in occasione del suo primo colloquio personale con Raskol'nikov e subito dopo il suo colloquio finale e decisivo, sempre con Raskol'nikov, nell'epilogo del romanzo; in altri termini la sua presenza nel romanzo si apre e chiude simbolicamente con il Vangelo.
Raskol'nikov si ritrova attratto da lei a tal punto che ella diventa la prima persona a cui confessa il suo delitto. Lei lo sostiene anche se una delle due vittime, la merciaia Lizaveta, era sua amica; lo incoraggia a diventare credente ed a confessare. Raskol'nikov lo fa quando ormai il colpevole era stato individuato in altri, e, dopo la sua confessione, Sonja lo segue in Siberia dove vive nella stessa città della prigione. Qui ella si crea un'occupazione come sarta e si rende anche utile ai detenuti che la amano sinceramente. È anche qui che Raskol'nikov comincia la sua rinascita spirituale, quando finalmente comprende e accetta di amarla.
Il comportamento di Raskol'nikov durante tutto il libro si può anche trovare in altre opere di Dostoevskij, come Memorie dal sottosuolo e I fratelli Karamazov (il suo comportamento è assai analogo a quello di Ivan Karamazov ne I fratelli Karamazov). Crea sofferenza per sé stesso uccidendo la prestatrice di denaro e vivendo in modo così indigente nonostante la sua abilità di trovarsi un buon lavoro. Razumihin si trova nella stessa situazione di Raskol'nikov e vive molto meglio, e quando Razumihin si offre di trovargli un lavoro, Raskol'nikov rifiuta; confessa alla polizia di essere l'assassino, sebbene non ve ne sia evidenza. Cerca costantemente di raggiungere e definire i confini di ciò che può e non può fare (durante tutto il libro misura la sua propria paura, e cerca mentalmente di dissuadersene), e la sua depravazione (con riferimento alla sua irrazionalità e paranoia) è comunemente interpretata come un'affermazione di sé stesso come una coscienza trascendente ed un rifiuto della razionalità e della ragione. Questo è un tema comune nell'esistenzialismo; piuttosto interessante è anche che Friedrich Nietzsche, ne Il crepuscolo degli idoli, elogiò gli scritti di Dostoevskij nonostante il teismo presente in essi: "Dostoevskij, l'unico psicologo, peraltro, da cui ebbi mai qualcosa da imparare; lui è uno degli accidenti più felici della mia vita, persino più della scoperta di Stendhal". Walter Kaufmann riteneva che le opere di Dostoevskij fossero state l'ispirazione per La metamorfosi di Franz Kafka. Raskol'nikov crede che solo dopo aver definito la morale e la legge uccidendo qualcuno lui possa essere uno dei migliori, come Napoleone. Nel romanzo infatti le ragioni dell'omicidio sono solo superficialmente economiche. Raskol'nikov lascia la maggior parte dei soldi nella casa della strozzina sua vittima. Le ragioni dell'omicidio vanno dunque ricercate nella morale che esclude ogni forma divina e che giustifica l'affermazione individuale attraverso il diritto sulla vita altrui. Dostoevskij ricorre al personaggio di Sonja per mostrare che solo la fede in Dio può curare la depravazione dell'uomo, questione in cui Dostoevskij si differenzia da molti altri esistenzialisti. Nonostante questa particolare filosofia sia unicamente di Dostoevskij, a causa della sua enfasi della cristianità e dell'esistenzialismo (se Dostoevskij fosse o no un vero esistenzialista è ancora un dibattito aperto), temi simili si possono vedere negli scritti di Jean Paul Sartre, Albert Camus, Herman Hesse e Franz Kafka.
Il romanzo contiene diversi rimandi a storie del Nuovo Testamento, compresa quella di Lazzaro, la cui morte e rinascita sono parallele alla morte e rinascita spirituale di Raskol'nikov; e dell'Apocalisse, rispecchiata in un sogno che Raskol'nikov fa su una piaga asiatica che diventa un'epidemia mondiale. Peraltro il Vangelo è espressamente richiamato nel romanzo solamente due volte: una prima volta, quando il protagonista si fa leggere da Sònja il passo della resurrezione di Lazzaro dall'undicesimo capitolo del Vangelo di San Giovanni, e una seconda volta, proprio nelle ultime righe del romanzo, quando Raskol'nikov, ormai in penitenziario, si ritrova il Vangelo di Sònja sotto il cuscino ove lo aveva riposto e, pur senza aprirlo, sente che il suo nuovo amore per Sònja lo obbliga a far entrare anche il Vangelo nella sua vita.
FRANCESCO FRANCO
STUDI: V. S. SOLOV'ËV, Dostoevskij, trad. it. La Casa di Matriona, Milano 1990; N. BERDJAEV, La concezione di Dostoevskij, Einaudi Torino 1977,2ed.; GUARDINI, Religiöse Gestalten in Dostojewskijs Werk. Studien über den Glauben, München 1932-1964, trad. it., Il mondo religioso di Dostoevskij, Morcelliana, Brescia 31980; L. PAREYSON, Dostoevskij, Einaudi, Torino 1993; AA.VV., Il dramma della libertà. Saggi su Dostoevskij, La Casa di Matriona, Milano 1991; M. VEZZALI, Totalitarismo e nuovo umanesimo in Dostoevskij, Grossman e Thomas Mann, «L'Altra Europa» (1987) 5; C. MILOSZ, Dostoevskij e l'immaginazione religiosa occidentale, «L'Altra Europa» (1985) 4; un numero speciale su Dostoevskij nella rivista «La nuova Europa» 6 (1997)4.