La meditazione filosofica sul limite che definisce l'esperienza dell'uomo nel mondo viene sviluppata in senso prevalentemente letterario da Albert Camus, nato a Mondovì, in Algeria, nel 1913 e morto prematuramente a Sens nel 1960 a causa di un incidente automobilistico. Insignito del premio Nobel per la letteratura nel 1956, Camus è autore di romanzi e drammi teatrali annoverati tra i capolavori letterari del Novecento. Al suo romanzo più celebre ed emblematico della temperie esistenzialistica, Lo straniero (1942), hanno fatto seguito La peste (1947), La caduta (1956) e L’esilio e il regno (1957), mentre la produzione teatrale conta opere come Il malinteso (1944), Caligola (1944), Lo stato d'assedio (1948) e I giusti (1950).
Di carattere saggistico e filosofico sono invece Il mito di Sisifo (1942) e L’uomo in rivolta (1951). Attivo nelle file della resistenza antinazista durante la Seconda guerra mondiale, negli anni successivi Camus si è tenuto distante dalla deriva che ha fatto confluire la maggior parte degli esistenzialisti verso il marxismo, mantenendosi su posizioni politiche autonome e impegnandosi nella difesa dei diritti civili con iniziative rivolte, per esempio, contro l'applicazione della pena di morte (si veda, a questo proposito, il saggio del 1957 Riflessioni sulla pena capitale).
L'opera, divisa in due parti, racconta della vita di un uomo di origine francese conosciuto come Meursault. La vicenda inizia con la morte della madre del protagonista. Il carattere di Meursault viene subito messo in mostra: sembra non provare nessun tipo di emozione per la madre, rifiuta di vederne le spoglie, beve caffè e fuma vicino alla bara. Il punto di vista è in prima persona, direttamente nella mente di Meursault. Nei giorni dopo il funerale, Meursault inizierà una relazione con una donna conosciuta in spiaggia di nome Maria. Per quanto sembri che Maria sia veramente innamorata di lui, da parte del protagonista c'è solo desiderio fisico.
Meursault si ritroverà a commettere un omicidio su una spiaggia, sparando una volta ad un arabo uccidendolo, e poi sparando altre tre volte al corpo morto. La pistola gli era stata data da un suo amico Raymond Synthès nemico dell'arabo poiché Raymond aveva schiaffeggiato sua sorella. Meursault verrà messo in prigione per il suo crimine. Durante il lungo processo verrà discusso, più che l'assassinio, il fatto che Meursault sembri non provare alcun tipo di rimorso per quello che ha fatto. Malgrado i tentativi dell'avvocato difensore, come emerge dal tenore del dialogo che apre la seconda parte del romanzo:
Il giorno dopo, un avvocato e venuto da me in prigione. Era piccolo e grassoccio, abbastanza giovane, i capelli impomatati con cura. Malgrado il caldo (io ero in maniche di camicia) aveva un vestito scuro, un colletto inamidato e una strana cravatta a striscioni bianchi e neri. Ha posato sul letto la cartella che teneva sotto il braccio, si è presentato e mi ha detto che aveva studiato Il mio caso. Era una faccenda delicata, ma non dubitava del successo se avessi avuto fiducia in lui. L'ho ringraziato e mi ha detto: "Entriamo nel vivo della questione."
Si è seduto sul letto e mi ha spiegato che erano state assunte informazioni sulla mia vita privata. Si era saputo che mia madre era morta recentemente all'ospizio. Allora avevano fatto un'inchiesta a Marengo. Gli istruttori avevano sentito che "avevo dato prova di insensibilità" il giorno dei funerali. "Lei capisce," mi ha detto l'avvocato: "è un po' imbarazzante per me domandarle questo. Ma è molto importante. Sarà un argomento molto forte per l'accusa se io non trovo niente da ribattere." Voleva che lo aiutassi. Mi ha chiesto se quel giorno avevo sofferto. Questa domanda mi ha molto stupito e mi è parso che sarei stato molto imbarazzato se avessi dovuto farla io a un altro. Comunque gli ho risposto che avevo un po' perduto l'abitudine di interrogare me stesso, che mi era difficile informarlo. Naturalmente volevo bene alla mamma. ma questo non significava nulla. Tutte le persone normali, gli ho detto, avevano una volta o l’altro desiderato la morte di coloro che amano. A questo punto l'avvocato mi ha interrotto e mi è parso molto agitato. Mi ha fatto promettere di non dire questo, né durante l'udienza, né al giudice istruttore. Comunque gli ho spiegato che avevo una natura tale che il mio fisico influenzava spesso i miei sentimenti. Il giorno che avevo sotterrato la mamma ero molto stanco e avevo un gran sonno. E così non mi sono reso conto di quel che succedeva. Ciò che potevo dire con sicurezza è che avrei preferito che la mamma non fosse morta. Ma l'avvocato non mi è parso soddisfatto. "Questo non basta," mi ha detto.
Ha riflettuto. Mi ha chiesto se poteva dichiarare che quel giorno avevo soffocato i miei sentimenti naturali. Gli ho risposto: "No, perché non sarebbe vero", e lui mi ha guardato in maniera strana, come se gli ispirassi un certo disgusto. Mi ha detto quasi con cattiveria che in ogni modo il direttore e il personale dell'ospizio sarebbero stati uditi come testimoni e che "questo poteva giocarmi un brutto scherzo". Gli ho fatto notare che quella storia non aveva alcun rapporto con la mia faccenda, ma mi ha risposto soltanto che si vedeva bene che non avevo mai avuto rapporti con la giustizia. Se n'è andato di cattivo umore. Avrei voluto trattenerlo, spiegargli che desideravo la sua simpatia, non per essere meglio difeso, ma per un sentimento naturale, se così posso dire. Soprattutto mi rendevo conto che lo mettevo a disagio. Lui non mi capiva ed era un po' irritato con me. Desideravo dirgli che ero come tutti gli altri, assolutamente come tutti gli altri. Ma tutto questo, in fondo, non aveva una grande utilità, e per pigrizia ho rinunciato.
Poco tempo dopo sono stato condotto di nuovo davanti al giudice istruttore. Erano le due del pomeriggio e questa volta il suo ufficio era tutto pieno di luce che filtrava dalle tende di velo. Faceva molto caldo. Mi ha fatto sedere e con molta cortesia mi ha detto che l'avvocato "a causa di un contrattempo" non aveva potuto venire. Ma avevo il diritto di non rispondere alle sue domande e aspettare l'assistenza dell'avvocato. Gli ho detto che potevo rispondere da me. Ha toccato un bottone sulla scrivania e un giovane cancelliere è venuto a sedersi quasi contro la mia schiena.
Ci siamo tutt'e due aggiustati nelle nostre poltrone. L'interrogatorio è iniziato. Il giudice ha cominciato col dirmi che mi si descriveva come uomo di carattere taciturno e chiuso e ha voluto sapere cosa ne pensavo. Ho risposto: "È che non ho mai molto da dire. Allora sto zitto." Ha sorriso come la prima volta, ha convenuto che era la migliore delle ragioni e ha soggiunto: "Del resto questo non ha alcuna importanza."Ha cessato di parlare, mi ha guardato, e poi, bruscamente, ha levato la testa per dirmi, molto in fretta: "Quello che mi interessa, è lei." Non ho ben capito cosa intendesse dire e non ho risposto nulla."Ci sono delle cose," ha soggiunto, "che mi sfuggono, nel suo gesto, Sono sicuro che lei mi aiuterà a comprenderle."Gli ho detto che tutto era molto semplice lui ha voluto che gli descrivessi quella giornata. Gli ho ripetuto, riassumendolo, quello che avevo già raccontato: Raimondo, la spiaggia, il bagno, la rissa, di nuovo la spiaggia, la piccola fonte, il sole e i quattro colpi di rivoltella. A ogni frase diceva: "Bene, bene." Quando sono arrivato al corpo disteso, ha annuito dicendo: "Si." Io ero stanco di dover ripetere la stessa storia e mi sembrava di non aver mai parlato tanto.
Dopo una pausa si è alzato e ha detto che voleva aiutarmi, che lo interessavo e che, con l’aiuto di Dio, avrebbe fatto qualcosa per me. Ma prima voleva farmi ancora qualche domanda. Senza interrompersi mi ha chiesto se volevo bene alla mamma. Ho detto: "Si, come tutti" e il cancelliere che fino allora aveva battuto a macchina regolarmente, deve avere sbagliato tasto perché si è confuso e ha dovuto tornare indietro. Sempre senza logica apparente, il giudice mi ha chiesto allora se avevo tirato quattro colpi di rivoltella uno dopo l’altro, Ho riflettuto e ho precisato che avevo dapprima tirato una sola volta e poi, dopo qualche secondo, i tre colpi seguenti. "Perché ha aspettato tra il primo e il secondo colpo?" egli disse allora. Ancora una volta ho rivisto la spiaggia rossa e ho sentito sulla mia fronte il bruciore del sole. Ma questa volta non ho risposto nulla. Poi c'è stato un Silenzio e mi è parso che il giudice cominciasse a innervosirsi. Si e seduto, si è grattato i capelli, ha messo i gomiti sul tavolo, e si è piegato un po' verso di me con un'aria strana: "Perché, perché ha tirato su un corpo steso a terra?" Ancora una volta, non ho potuto rispondere. Il giudice si è passato le mani sulla fronte e ha ripetuto la domanda con voce un po' alterata: "Perché? Bisogna che lei me lo dica. Perché?" Io continuavo a tacere.
D'improvviso si è alzato, ha attraversato a passi lunghi la stanza e ha aperto un cassetto di un mobile-archivio È tornato verso di me brandendo un crocefisso d'argento. E con una voce tutta mutata, quasi tremante, ha gridato: "E questo. lo conosce, lei?" Ho detto: "Sì, naturalmente." Allora mi ha detto in modo molto rapido e concitato che lui credeva in Dio; era convinto che nessun uomo fosse tanto colpevole che Dio non lo perdonasse, ma occorreva per questo che l’uomo, attraverso il pentimento, diventasse come un bambino la cui anima è vuota e pronta a tutto accogliere. Aveva tutto il corpo curvo sul tavolo. Agitava il suo crocefisso quasi sopra di me. A dire il vero, l'avevo seguito abbastanza male nel suo ragionamento, anzitutto perche avevo caldo e nell'ufficio c'erano delle grosse mosche che si posavano sulla mia faccia, e anche perché mi faceva un po' paura. Al tempo stesso mi rendevo conto che questo era ridicolo perché, dopotutto, il criminale ero io. Comunque lui ha continuato a parlare. Ho su per giù capito che secondo lui non c'era che un punto oscuro nella mia confessione: il fatto di avere aspettato a tirare il secondo colpo di rivoltella. Quanto al resto, andava tutto benissimo, ma quel punto non lo capiva.
Stavo per dirgli che aveva torto a ostinarsi: quel fatto non aveva poi tanta importanza. Ma mi ha interrotto e ha ricominciato a parlarmi ancora una volta, eretto in tutta la sua persona, e mi ha chiesto se credevo in Dio. lo gli ho risposto di no. Si è seduto Indignato. Mi ha detto che era impossibile, che tutti gli uomini credevano in Dio anche quelli che se ne allontanavano. Era convinto di questo, e se mai avesse dovuto dubitarne la sua vita non avrebbe avuto più alcun senso. "Vuole'" ha esclamato "che la mia vita non abbia senso?" A me questo non riguardava, e gliel'ho detto. Ma attraverso la scrivania lui spingeva già in avanti il Cristo fin sotto i miei occhi, e gridava come un ossesso: "lo sono un Cristiano, io. E domando perdono a Lui delle tue colpe. Come puoi non vedere che ha sofferto per te?" Ho notato che mi dava del tu, ma ... ormai ne avevo abbastanza. Il caldo continuava ad aumentare. Come faccio sempre quando voglio liberarmi di qualcuno che mi secca ascoltare, l'ho guardato con l'aria di essere d'accordo. Con mio gran stupore, il giudice si è entusiasmato. "Lo vedi, lo vedi," si è messo a dire, "non è vero che credi e ti confiderai a Lui?" Naturalmente ho detto ancora una volta di no. Il giudice è ricaduto nella sua poltrona.
Aveva l'aria molto stanca. E rimasto un istante in silenzio mentre la macchina da scrivere, che non aveva cessato di seguire il dialogo, ne prolungava ancora le ultime frasi. Poi mi ha guardato con attenzione e con un po' di tristezza. Ha cominciato: "lo non ho mai visto un'anima incallita come la sua. I criminali che sono venuti dinanzi a me hanno sempre pianto di fronte a questo simbolo del dolore." Stavo per rispondere che era precisamente perché si trattava di criminali. Ma poi ho pensato che anch'io ero come loro. Questa era un'idea alla quale non potevo adattarmi. Poi il giudice si è alzato in piedi come per informarmi che l'interrogatorio era terminato. Mi ha chiesto soltanto, sempre con quell'aria un po' strana, se mi dispiaceva quel che avevo fatto. Ho riflettuto un po' e ho detto che piuttosto che dispiacere provavo una certa noia. Ho avuto l'impressione che non mi capisse. Ma per quel giorno le cose si sono fermate lì.
In seguito ho rivisto spesso il giudice istruttore. Solo che, tutte le volte, l'avvocato mi accompagnava. Si limitavano a farmi precisare certi punti delle mie precedenti dichiarazioni, oppure il giudice discuteva con l'avvocato i capi d'accusa. Ma in realtà in quei momenti non si occupavano affatto di me. A poco a poco, comunque, il tono degl'interrogatori è mutato. Pareva che il giudice non avesse più interesse per me e avesse in un certo qual modo archiviato il mio caso. Non mi ha più parlato di Dio; e. non l’ho più visto agitato come il primo giorno. Ne è risultato che i nostri incontri sono divenuti assai più cordiali. Qualche domanda, un po' di conversazione col mio avvocato, e gli interrogatori erano finiti. La mia faccenda seguiva i1 suo corso, per usare l'espressione del giudice. Qualche volta, persino, quando la conversazione era generica, lasciavano che vi entrassi anch'io. Cominciavo a respirare. In quelle ore nessuno era cattivo con me. Tutto era cosi naturale, funzionava così bene, ed era recitato così sobriamente, che avevo l'impressione buffa di "essere in famiglia". E al termine degli undici mesi di istruttoria, quasi mi stupivo di aver mai conosciuto altra gioia che quella dei rari istanti in cui il giudice mi riaccompagnava alla porta del suo ufficio battendomi sulla spalla e dicendo con aria cordiale: "È finito per oggi, signor Anticristo". Poi venivo riconsegnato ai gendarmi.
Vista anche la poca collaborazione di Meursault che non difende nemmeno se stesso, alla fine verrà condannato a morte. Ecco le pagine centrali del processo e delle testimonianze:
Il calore aumentava e nella sala vedevo gli assistenti che si facevano vento con dei giornali. Questo produceva un piccolo fruscio continuo di carta sgualcita. Il presi:dente ha fatto un cenno e l'usciere ha portato tre ventagli di paglia intrecciata che i tre giudici hanno utilizzato immediatamente.
Il mio interrogatorio è cominciato subito dopo. Il presidente mi ha interpellato con calma e persino, mi è parso, con una sfumatura di cordialità. Mi hanno fatto di nuova declinare le mie generalità e, malgrado ciò mi indisponesse molto, ho pensato che in fondo era abbastanza naturale, perché sarebbe troppo grave giudicare un uomo al posto di un altro. Poi il presidente ha rincominciato il racconto di quello che avevo fatto, rivolgendosi a me ogni tre frasi per domandare: "È proprio così?" e ogni volta ho risposto: "Sì, signor presidente" secondo le, istruzioni dell’avvocato. Questo è durato molto, perché il presidente era molto minuzioso nella sua relazione. Durante tutto questo tempo i giornalisti scrivevano. lo. sentivo gli sguardi del più giovane di loro e della donna automatica. La panca di tram era tutta girata verso il presidente. Il quale ha tossito, ha sfogliato il suo incartamento e si è voltato verso di me agitando il ventaglio.
Mi ha detto che doveva ora occuparsi di certe questioni apparentemente estranee alla mia faccenda, ma che forse, invece, avevano con essa un legame molto stretto. Ho capito che avrebbe ancora parlato della mamma e allo stesso tempo ho sentito quanto la cosa mi dava noia. Mi ha chiesto perché avevo messo la mamma all’ospizio. Ho risposto che era perché non avevo abbastanza denaro per farla assistere e curare. Mi ha chiesto se avevo sofferto della cosa e ho risposto che tanto io che la mamma non ci aspettavamo più nulla l'uno dall'altro e del resto neppure dal prossimo e che ci eravamo abituati tutt'e due alle nostre nuove vite. Il presidente ha detto allora che non voleva insistere su quel punto e ha chiesto al Pubblico Ministero se aveva altre domande da rivolgermi. Costui mi voltava a metà le spalle e senza guardarmi mi ha detto che, con l'autorizzazione del presidente, :avrebbe desiderato sapere se ero tornato da solo verso la fonte, con l'intenzione di uccidere l'arabo. "No," ho detto. "Allora, perché si trovava armato, e perché tornare precisamente verso quel luogo?" Ho detto che era stato il caso. E il Pubblico Ministero ha osservato con accento cattivo: "Questo sarà tutto per il momento." In seguito tutto è stato un po' confuso, almeno per me. Ma dopo quel conciliabolo, il presidente ha dichiarato che l'udienza era chiusa e rinviata al pomeriggio per l'escussione dei testimoni.
Non ho avuto tempo per riflettere. Mi hanno portato via, mi hanno fatto salire sulla vettura cellulare e condotto alla prigione dove ho mangiato. Dopo pochissimo tempo, appena sufficiente per accorgermi che ero stanco, sono venuti a prendermi;. tutto è ricominciato e mi sono trovato nella stessa sala, davanti agli stessi visi. Solo che il calore era molto più forte e come per miracolo ognuno dei giurati, il Pubblico Ministero, il mio avvocato e alcuni dei giornalisti, tutti erano muniti di ventagli di paglia. Il giornalista giovane e la strana donnina c'erano sempre. Ma non si facevano vento e mi guardavano ancora in silenzio.
Ho asciugato il sudore che mi copriva la faccia e ho ripreso un po' coscienza del luogo e di me stesso solo quando ho udito chiamare il direttore dell'ospizio. Gli è stato chiesto se la mamma' si lamentava di me. Lui ha detto di sì, ma che era un po' la mania di tutti i suoi ospiti, quella di lagnarsi dei loro familiari. Il presidente gli ha fatto precisare se la mamma mi rimproverasse di averla messa all'ospizio, e il direttore ha ancora detto di sì. Ma questa volta non ha aggiunto nulla. A un'altra domanda ha risposto che era rimasto stupito della mia calma il giorno dei funerali. Gli è stato chiesto che cosa intendesse per calma. Allora si è guardato le punte delle scarpe e ha detto che io non avevo voluto vedere la mamma, non avevo pianto neppure una volta e me ne ero andato immediatamente, dopo i funerali senza raccogliermi sulla tomba. C'era un'altra cosa che l'aveva sorpreso: un impiegato delle pompe funebri gli aveva detto che non conoscevo l'età della mamma. C'è stato un momento di silenzio e il presidente gli ha chiesto se era proprio di me che aveva parlato. Siccome il direttore non comprendeva la domanda, gli ha detto: "E la legge." Poi il presidente ha domandato al P. M. se non aveva nulla da chiedere ai testimoni, e il P. M. ha esclamato: "Oh, no! Questo è sufficiente" con un tale entusiasmo e un tale sguardo di trionfo verso di me, che per la prima volta da molti anni ho avuto una stupida voglia di piangere perché ho sentito quanto ero detestato da tutta quella gente.
Dopo aver chiesto ai giurati e al mio avvocato se avessero domande da fare, il presidente ha udito il portiere dell'ospizio. Si è ripetuto per lui lo stesso cerimoniale delle altre volte. Arrivando, il portiere mi ha guardato e ha girato gli occhi dall'altra parte. Ha risposto alle domande che gli venivano rivolte. Ha detto che non avevo voluto vedere la mamma, che avevo fumato, che avevo dormito e bevuto il caffelatte. Allora ho sentito che qualcosa sollevava tutta la sala e per la prima volta ho compreso che ero colpevole. Hanno fatto ripetere al portiere la storia del caffelatte e quella delle sigarette. Il P. M. mi ha guardato con una luce ironica negli occhi. A questo punto il mio avvocato ha chiesto al portiere se non aveva fumato anche lui con me. Ma il P. M. si è opposto con violenza a questa domanda: "Chi è il criminale, qui, e che sono questi metodiche tendono a insozzare i testi dell'accusa per minimizzare delle testimonianze che permangono cionondimeno schiaccianti?" Malgrado ciò il presidente ha chiesto al portiere di rispondere alla domanda. Il vecchio ha detto con grande imbarazzo: "So bene che ho sbagliato. Ma non ho osato rifiutare la sigaretta che mi ha offerta il signore." Infine hanno chiesto a me se avevo qualcosa da aggiungere;. "Niente" ho risposto, "soltanto che il teste ha ragione. E vero che sono stato io a offrirgli una sigaretta." Il portiere mi ha guardato allora con un po' di sorpresa e una specie di gratitudine. Ha esitato, poi ha detto che era stato lui a offrirmi il caffelatte. Il mio avvocato ha, avuto un'esclamazione di trionfo e ha detto che i giurati "avrebbero apprezzato". Ma il P. M. ha tuonato al di sopra delle nostre teste dicendo: "Sì, i signori giurati apprezzeranno. E concluderanno che un estraneo poteva sì offrire il caffè, ma che un figlio aveva il dovere di rifiutarlo davanti al corpo di colei che lo aveva dato alla luce"
Il portiere è ritornato al suo posto. Quando è venuto il turno di Tommaso Perez, un usciere ha dovuto sorreggerlo fino alla sbarra. Perez ha detto che aveva conosciuto soprattutto mia madre e aveva visto me una volta soltanto, il giorno dei funerali. Gli è stato chiesto che cosa avevo fatto io quel giorno e ha risposto: "Lei capirà era troppo un dispiacere per me. E così non ho visto niente. Era il dispiacere che me lo impediva. Perché era un dispiacere molto grande per me. E mi sono svenuto, persino, e così non ho potuto vedere il signore." Il P.M. gli ha chiesto se almeno mi aveva visto piangere. Perez ha risposto di no. Il P.M. ha detto allora a sua volta: "I signori giurati apprezzeranno." Ma il mio avvocato è andato in collera. Ha chiesto a Perez con un tono di voce che mi è parso eccessivo, "se aveva visto che io non piangevo". Perez ha detto: "No." Il pubblico ha riso. Il mio avvocato, tirandosi su una delle maniche ha detto In tono perentorio: "Ecco l'immagine di questo processo Qui tutto è vero e niente è vero." Il P.M. aveva la faccia dura e punzecchiava gli incartamenti con la punta della matita.
Dopo cinque minuti di sospensione, durante i quali l’avvocato mi ha detto che tutto andava per il meglio, è stato udito Celeste che era citato dalla difesa. La difesa ero io. Celeste gettava. di tanto in tanto degli sguardi dalla mia parte e faceva girare un cappello di panama fra le mani. Indossava il vestito nuovo che si metteva certe volte quando veniva la domenica alle corse con me. Ma probabilmente non era riuscito ad allacciarsi il colletto perche .aveva soltanto un bottone di rame per tener chiusa la camicia. Gli e stato chiesto se ero suo cliente e ha detto:."Sì, ma era anche un amico"; che cosa pensava di me, e ha risposto che ero un uomo; che cosa intendesse dire con questo e ha dichiarato che tutti lo sanno che .cosa vuol dire; se aveva notato che io fossi di carattere chiuso, e ha riconosciuto soltanto che io non aprivo la bocca per non dir nulla. Il P.M. gli ha chiesto se pagavo regolarmente la mia pensione. Celeste ha riso e ha detto: "Erano dei particolari fra noi." Gli è stato chiesto ancora che cosa pensava del mio delitto. Allora ha messo le mani sulla sbarra e si capiva che aveva preparato qualcosa. Ha detto: "Per me, è una disgrazia. Una disgrazia tutti sanno cos’è. È una cosa che lascia senza difesa. Ebbene, per me è una disgrazia." Avrebbe continuato, ma il presidente gli ha detto che andava bene così e che lo ringraziava. Allora Celeste è rimasto un momento interdetto, ma poi ha dichiarato che voleva parlare ancora. Gli è stato .chiesto di essere breve. Ha ancora ripetuto che era una disgrazia. E il presidente gli ha detto: "Sì, d'accordo. Ma noi siamo qui per giudicare le disgrazie di questo genere. Vi ringraziamo." Come fosse arrivato al limite della sua scienza e della sua buona volontà, Celeste si è allora voltato verso di me. Mi è sembrato che i suoi occhi fossero lucidi e che le labbra gli tremassero. Aveva l'aria di chiedermi che cosa poteva fare ancora. Quanto a me, non ho detto nulla, non ho fatto alcun gesto, ma è stata la prima volta nella mia vita che ho avuto il desiderio di abbracciare un uomo. Il presidente gli ha ingiunto di lasciare la sbarra e Celeste è tornato a sedersi al suo posto. Durante tutto il resto dell'udienza è rimasto lì, un po' chino in avanti, i gomiti sulle ginocchia , il cappello di panama tra le mani, ad ascoltare tutto quello che veniva detto. Si è presentata Maria. Si era messa un cappello ed era bella ancora. Ma a me piaceva di più con i capelli liberi. Dal punto dov'ero, indovinavo il peso lieve dei suoi seni e distinguevo il labbro inferiore sempre un po' gonfio. Sembrava molto nervosa. Subito le è stato domandato da quando mi conosceva. Ha indicato l'epoca in cui era impiegata da noi. Il presidente ha voluto sapere quali erano i suoi rapporti con me e lei ha detto che era la mia amica; a un'altra domanda ha risposto che era vero che doveva sposarmi. Il P.M., che stava sfogliando un incartamento, le ha chiesto bruscamente quando era iniziata la nostra relazione. Maria ha indicato la data. Il P.M. ha osservato con tono indifferente che gli sembrava fosse il giorno successivo alla morte della mamma. Poi ha detto con una sfumatura d'ironia che gli dispiaceva insistere su una questione delicata, che comprendeva benissimo gli scrupoli di Maria, ma (e qui il suo tono si è fatto più duro) che il dovere gli imponeva di elevarsi al di sopra delle convenienze. Ha chiesto dunque a Maria di fare il riassunto della giornata in cui l'avevo conosciuta. Maria non voleva parlare, ma di fronte all'insistenza del P.M. ha raccontato del nostro bagno, del cinema e del ritorno a casa mia. Il P.M. ha detto che, in seguito alle dichiarazioni di Maria in istruttoria, aveva controllato i programmi degli spettacoli di quel giorno. Ha soggiunto che sarebbe stata Maria stessa a dire che film c'era allora. Con una voce quasi atona, lei ha precisato che era un film di Fernandel. Il silenzio era completo nell'aula al termine delle sue parole. Allora il P.M. si è alzato, molto serio, e, con una voce che ho trovato veramente commossa, il dito teso verso di me, ha pronunciato lentamente: "Signori giurati, l'indomani della morte di sua madre quest'uomo andava a fare un bagno al mare, iniziava una relazione irregolare e rideva davanti a un film comico. Non ho nient'altro da aggiungere." Si è rimesso a sedere, sempre in mezzo al silenzio. Ma d'improvviso Maria è scoppiata in singhiozzi, ha detto che non era così, che c'era qualcosa d'altro, che la si forzava a dire il contrario di quel che pensava, che lei mi conosceva bene e che io non avevo fatto nulla di male. Ma l'usciere, a un cenno del presidente, l'ha portata via e l'udienza è continuata.
Si può dire che non sono stati nemmeno ad ascoltare Masson che ha dichiarato che ero un galantuomo "e avrebbe voluto aggiungere, ero un brav'uomo", e quasi non hanno ascoltato Salamano quando ha detto che ero stato buono con il suo cane e quando ha risposto a una domanda a proposito di mia madre e me dicendo che non avevo più niente da dire alla mamma e per questo l'avevo messa all'ospizio. "Bisogna capire," diceva Salamano, "bisogna capire." Mi sembrava che nessuno capisse. Lo hanno portato via.
Poi è venuto il turno di Raimondo, che era l'ultimo testimonio. Raimondo mi ha fatto un piccolo cenno e ha subito detto che ero innocente. Ma il presidente gli ha fatto notare che non chiedeva apprezzamenti personali, ma soltanto fatti, e l'ha invitato ad attendere, per rispondere, che gli fossero rivolte delle domande. Gli è stato chiesto di precisare le sue relazioni con la vittima. Raimondo ne ha approfittato per dire che era lui che la vittima odiava dopo che egli aveva schiaffeggiato sua sorella. Il presidente gli ha chiesto comunque se la vittima aveva qualche ragione di odiarmi. Raimondo ha detto che la mia presenza alla spiaggia era frutto di un caso. Il P.M. gli ha chiesto allora come mai la lettera che si trovava all'origine del dramma era stata scritta da me. Raimondo ha risposto che era per caso. Il P.M. ha controbattuto che il caso aveva già molte malefatte sulla coscienza in quella faccenda. Ha voluto sapere se era per caso che io non ero intervenuto quando Raimondo aveva schiaffeggiato la sua amante, per caso che avevo fatto da testimonio al Commissariato, per caso ancora che le mie dichiarazioni in quella testimonianza si erano dimostrate di pura compiacenza. Per finire ha chiesto a Raimondo quali erano i suoi mezzi di sostentamento e poiché quest'ultimo rispondeva "magazziniere", il P.M. ha dichiarato ai giurati che era di notorietà pubblica che il testimonio esercitava la professione di lenone. lo ero suo complice e suo amico. Ci si trovava di fronte a un dramma di malavita della specie più abietta, aggravato dal fatto che si aveva a che fare con un mostro morale. Raimondo ha cercato di difendersi e il mio difensore ha protestato, ma è stato detto loro che bisognava lasciar terminare il P.M. Il quale ha detto: "Ho ben poco da aggiungere. Quest'uomo era vostro amico?" ha domandato a Raimondo. "Sì," ha detto Raimondo, "era mio amico." Il P.M. ha allora rivolto a me la stessa domanda, e io ho guardato Raimondo che non ha allontanato lo sguardo. Ho risposto: "Sì." Il P.M. si è allora rivolto ai giurati e ha dichiarato: "Lo stesso uomo che all'indomani della morte di sua madre si abbandonava alla dissolutezza più vergognosa, ha ucciso per futili motivi e per liquidare un equivoco affare di donne."
Poi si è rimesso a sedere. Ma il mio avvocato, al limite della sua pazienza, si è messo a urlare alzando le braccia di modo che le maniche, ricadendo, hanno lasciato apparire le pieghe di una camicia inamidata: "Insomma, è accusato di aver seppellito sua madre o di avere ucciso un uomo?" Il pubblico ha riso, ma il P.M. si è alzato ancora, si è drappeggiato nella toga e ha dichiarato che ci voleva l'ingenuità dell'emèrito difensore per non rendersi conto che esisteva, fra quei due ordini di fatti, una parentela profonda, patetica, essenziale. "Sì," ha gridato a pieni polmoni, "accuso quest'uomo di aver seppellito sua madre con cuore di criminale." É parso che questa dichiarazione facesse un effetto considerevole sui giurati e sul pubblico. Il mio avvocato ha alzato le spalle e si è asciugato il sudore che gli copriva la fronte. Ma anche lui sembrava scosso e ho capito che le cose non andavano bene per me.
Meursault non tenta nemmeno di trovare il perdono attraverso Dio, rifiutando le visite del prete. Nell’unica occasione di incontro tra i due il dialogo si fa drammatico e intenso:
Ho rifiutato per la terza volta di ricevere il prete. Non ho niente da dirgli, non ho voglia di parlare, e dovrò comunque vederlo presto. Quel che mi interessa in questo momento è soltanto di sfuggire alla meccanica, di sapere se l'inevitabile può avere una via d'uscita. Mi hanno cambiato di cella e da questa, quando sono disteso, vedo il cielo e il cielo soltanto. Passo le mie giornate a guardare nel suo volto il degradare di colori che conduce il giorno alla notte. Sdraiato, mi passo le mani dietro la nuca e attendo. Non so quante volte mi sono chiesto se esistono esempi di condannati a morte che siano sfuggiti al meccanismo implacabile, siano scomparsi prima dell'esecuzione, abbiano rotto i cordoni di agenti. E allora mi rimproveravo di non aver mai fatto abbastanza attenzione ai racconti di condanne a morte. Bisognerebbe sempre interessarsi di queste cose; non si sa mai quello che può succedere. Anch'io, come tutti, avevo letto dei racconti sui giornali. Ma certo esistevano libri speciali che non ho mai avuto la curiosità di consultare; in essi, forse, avrei trovato dei racconti di evasione. Avrei magari saputo che almeno in un caso la ruota si era fermata, che in quel precipitare irresistibile, una sola volta, il caso e la fortuna avevano cambiato qualcosa. Una volta! In fondo credo che questo mi sarebbe bastato: il mio cuore avrebbe fatto il resto. I giornali parlano spesso di un "debito dovuto alla società" che, secondo loro, bisognerebbe pagare. Ma questo non dice nulla alla fantasia. Quello che contava allora per me era una possibilità di evasione, un salto fuori dal rito implacabile, una folle corsa che offrisse tutte le possibilità della speranza. Naturalmente questa speranza era di essere freddati all'angolo di una strada, in piena corsa, d'un colpo di rivoltella. Ma, tutto ben considerato, nulla mi autorizzava questo lusso, tutto me lo vietava, la meccanica mi riprendeva.
Malgrado la mia. buona volontà, non potevo accettare questa certezza insolente. Perché insomma c'era una sproporzione ridicola fra il verdetto che l'aveva creata e il suo svolgersi imperturbabile a partire dal momento in cui quel verdetto era stato pronunciato. Il fatto che la sentenza fosse stata letta alle ore venti piuttosto che alle ore diciassette, il fatto che avrebbe potuto essere completamente diversa, che era stata deliberata .da uomini che cambiano la biancheria, che era stata messa a carico di una nozione così imprecisa come il popolo francese (o tedesco, o cinese), tutto questo mi pareva proprio che diminuisse di molto la serietà di una simile decisione. Eppure ero costretto a riconoscere che, dal secondo in cui era stata presa, i suoi effetti diventavano altrettanto sicuri, altrettanto seri che la presenza di quel muro contro cui schiacciavo il mio corpo.
In quei momenti mi sono ricordato di una storia che la mamma mi raccontava a proposito di mio padre. lo non avevo mai conosciuto mio padre. L'unica cosa precisa che sapevo di quest'uomo è forse ciò che mi raccontava allora la mamma: era andato un giorno a vedere l'esecuzione di un assassino. Era stato male solo al pensiero di andarci, ma c'era andato ugualmente e, al ritorno, aveva vomitato a lungo. A quel tempo mio padre mi faceva un po' schifo. Adesso comprendevo, era una cosa così naturale. Come facevo a non comprendere che nulla è più importante di un'esecuzione capitale e che, da un. certo punto di vista, è addirittura l'unica cosa che sia veramente interessante per un uomo! Se fossi per un caso uscito da quella prigione, pensavo, sarei andato ad assistere a tutte le esecuzioni .capitali. Facevo male, credo, a pensare a questa possibilità. Perché all'idea di trovarmi libero all'alba dietro a un cordone di agenti, "dall'altra parte" insomma, all'idea di essere lo spettatore che viene a vedere e potrà vomitare dopo, mi montava al cuore un'onda di gioia avvelenata. Ma non era ragionevole fare così. E facevo male ad abbandonarmi a queste supposizioni perché un istante dopo avevo così terribilmente freddo che dovevo rannicchiarmi sotto la coperta. Battevo i denti senza potermi frenare.
Ma naturalmente non si può sempre essere ragionevoli. Altre volte, ad esempio, fabbricavo dei progetti di legge. Riformavo le pene. Avevo osservato che l'essenziale è di dare al condannato una possibilità di salvarsi. Anche una sola su mille bastava. E così trovavo che si potesse inventare una combinazione chimica la quale, somministrata, uccidesse il paziente (pensavo: il paziente) nove volte su dieci. Lui avrebbe dovuto saperlo: sarebbe stato il patto. Perché, riflettendo bene, considerando le cose con calma, constatavo che il difetto della ghigliottina è che non esiste nessuna possibilità di salvarsi, assolutamente nessuna. La morte del paziente, insomma, è decisa una volta per tutte. È una faccenda sistemata, un affare fatto, un accordo definitivo che non si può più rimettere in discussione. Se per un caso straordinario la macchina fallisse il colpo, si ricomincia da capo. E così il fatto più antipatico è che il condannato deve desiderare egli stesso il buon funzionamento della macchina. lo dico che è questo, il lato difettoso. Ed è vero, da un certo punto di vista. Ma d'altra parte dovevo riconoscere che il segreto di una buona organizzazione sta precisamente lì. Il condannato, insomma, è obbligato a collaborarvi moralmente. E nel suo interesse che tutto funzioni senza intoppi. Ero anche obbligato a riconoscere che fino a quel momento avevo avuto di queste cose delle idee che non erano giuste. [.....]
E in un simile momento che ho rifiutato ancora una volta di ricevere il prete. Ero steso e sentivo l'approssimarsi della sera d'estate da un certo color biondo del cielo. Avevo appena respinto la domanda di grazia e sentivo circolare regolarmente le onde del mio sangue. Non avevo bisogno di vedere il prete. Per la prima volta da molto tempo ho pensato a Maria. Erano lunghi giorni che non mi scriveva più: quella sera ho riflettuto e mi sono detto che forse si era stancata di essere l'amante di un condannato a morte. Mi è venuta anche l'idea che forse era malata o morta. Era nell'ordine delle cose. Cerro non l'avrei saputo perché al di fuori dei nostri corpi ormai divisi nulla ci legava o ci ricordava l'un l'altro, e del resto, a partire da quel momento, il ricordo di Maria mi sarebbe stato indifferente. Morta, non mi interessava più. Questo, lo trovavo normale, così come il fatto che. gli altri mi dimenticheranno dopo che sarò morto. Non avranno più nulla a che fare con me. Non posso nemmeno dire che fosse duro pensarci. In fondo non c'è idea cui non si finisca per far l'abitudine.
E esattamente in quel momento che è entrato il prete. Quando l'ho visto ho avuto un piccolo tremito. Egli se n'è accorto e mi ha detto di non aver paura. Gli ho detto che di solito veniva a un'altra ora. Mi ha risposto che era una visita puramente amichevole che non aveva nulla a che fare col mio ricorso di cui non sapeva nulla. Si è seduto sulla mia branda e mi ha detto di mettermi vicino a lui. Ho rifiutato. Trovavo tuttavia che aveva un'espressione molto dolce.
È restato un momento seduto, gli avambracci sulle ginocchia la testa reclinata in avanti, a guardarsi le mani. Erano fini e muscolose, mi facevano pensare a due bestie agili. Le ha passate lentamente l'una contro l'altra e poi è rimasto così, con la testa sempre china, tanto a lungo che ho avuto l'impressione, a un certo momento, di essermi dimenticato di lui.
Ma ha sollevato bruscamente la testa e mi ha guardato in faccia: "Perché," mi ha detto, "rifiuti le mie visite?" Ho risposto che non credevo in Dio. Ha voluto .sapere se: ne ero ben sicuro e gli ho detto che non avevo bisogno di chiedermelo: mi sembrava una questione senza importanza. Allora ha gettato la testa all'indietro e si è .addossato al muro, le palme appoggiate alle cosce. Quasi senza aver l'aria di parlarmi, ha detto che a volte ci si crede sicuri e in verità non lo si è affatto. lo non dicevo nulla. Mi ha guardato e mi ha chiesto: "Cosa ne pensi, tu?" Ho risposto che poteva darsi. In ogni modo, io non ero forse sicuro di ciò che mi interessava realmente, ma ero perfettamente sicuro di ciò che non mi interessava. E per l'appunto, ciò di cui lui mi parlava non aveva alcun interesse per me. Ha girato altrove lo sguardo, e restando sempre li fermo mi ha-chiesto se parlavo così per eccesso di disperazione. Gli ho detto che non ero disperato. Avevo soltanto paura, ed era più che naturale."Allora Dio ti aiuterebbe," ha osservato. "Tutti quelli che ho conosciuto nelle tue condizioni ritornavano verso di Lui." Ho riconosciuto che ne avevano il diritto. Ciò provava anche che ne avevano il tempo. Quanto a me, non volevo che mi si aiutasse. e per l'appunto mi mancava il tempo di interessarmi a ciò che non mi interessava.
In quel momento le sue mani. hanno avuto un gesto d'impazienza, ma si è alzato e si è sistemato le pieghe della sottana. Dopo aver finito si è rivolto a me chiamandomi "amico mio"; se mi parlava così non era perché si rivolgeva a un condannato a morte: a parer suo siamo tutti condannati a morte. Ma l'ho interrotto dicendogli che non era la stessa cosa e che comunque questa non poteva essere in nessun modo una consolazione. "Certo," ha approvato, "ma morirai più tardi anche se non morirai fra breve. Si porrà allora lo stesso problema. Come affronterai questa terribile prova?" Gli ho risposto che l'avrei affrontata esattamente come l'affrontavo in quel momento.
A queste mie parole si è alzato e mi ha guardato negli occhi. Era un gioco, quello, che conoscevo bene. Mi divertivo spesso a farlo con Emanuele o Celeste, e per lo più loro voltavano per primi gli occhi. Anche il prete conosceva bene quel gioco, l'ho subito capito: il suo sguardo non tremava. E neppure la sua voce ha tremato quando mi ha detto: "Non hai dunque nessuna speranza e vivi pensando che morirai tutt'intero?" "Sì," gli ho risposto.
Allora ha abbassato la testa e si è rimesso a sedere. Mi ha detto che aveva pietà di me. Non credeva che un uomo potesse sopportare una simile cosa. Quanto a me, ho sentito soltanto che cominciava ad annoiarmi. Mi sono voltato a mia volta e sono andato a mettermi sotto il lucernario, la spalla appoggiata al muro. Senza seguirlo bene ho udito che ricominciava a farmi domande. Parlava con voce inquieta e insistente. Ho capito che era commosso e l'ho ascoltato meglio.
Egli era sicuro, diceva, che il mio ricorso sarebbe stato accolto, ma io portavo il peso di un peccato di cui dovevo liberarmi. Secondo lui la giustizia degli uomini non era nulla e la giustizia di Dio era tutto. Gli ho fatto notare che era la prima che mi aveva condannato. Mi ha risposto che essa non aveva, con la sua condanna, lavato nulla del mio peccato. Gli ho detto che non sapevo che cosa fosse un peccato: mi era stato detto soltanto che ero un colpevole. Ero colpevole, pagavo, non si poteva chiedermi nulla di più. A questo punto si è alzato di nuovo e ho pensato che in quella cella così stretta, se uno aveva voglia di muoversi, non aveva da scegliere. Doveva alzarsi o sedersi.
Io avevo gli occhi fissi sul pavimento. Egli ha fatto un passo verso di me e si è fermato come se non osasse avanzare. Guardava il cielo attraverso le sbarre. "Tu ti inganni, figlio mio," mi ha detto. "Ti si potrebbe domandare di più. Te lo domanderanno, forse." "E che cosa mai?" "Ti potrebbe esser chiesto di vedere." "Vedere cosa?"
Il prete ha girato lo sguardo tutt'intorno e ha risposto con una voce che d'improvviso ho trovato molto stanca: "Tutte queste pietre sudano il dolore, lo so. Non l'ho mai guardate senza angoscia. Ma dal fondo del mio cuore so che i più miserabili di voi, hanno visto sorgere dalla loro oscurità un volto divino. E questo volto che vi si chiede di vedere." Mi sono animato un po'. Ho detto che erano mesi che guardavo quei muri. Non c'era nulla né alcuna persona al mondo che conoscessi meglio. Forse, già molto tempo prima, vi avevo cercato un volto. Ma quel volto aveva il colore del sole e la fiamma del desiderio: era quello di Maria. L'avevo cercato invano e adesso era una cosa finita. E in ogni modo non avevo visto sorgere nulla dal sudore di quelle pietre. Il prete mi ha guardato con un po' di tristezza. Ero completamente addossato al muro e il giorno mi colava sulla fronte. Ha detto qualche parola che non ho sentita e mi ha chiesto molto in fretta se gli permettevo di abbracciarmi: "No," gli ho risposto. Si è voltato ed è andato verso il muro su cui ha passato lentamente la mano: "Ami dunque questa terra a tal punto?" ha mormorato. Io non ho risposto nulla.
E rimasto abbastanza a lungo girato così. La sua presenza mi pesava e mi dava fastidio. Stavo per dirgli di andarsene, di lasciarmi, quando di colpo si è messo a gridare, con una specie di enfasi, voltandosi verso di me: "No, non posso crederti. Sono sicuro che ti è avvenuto di desiderare un'altra vita." Gli ho risposto che naturalmente mi era avvenuto, ma ciò non aveva maggiore importanza che il desiderare di essere ricco, di nuotare molto veloce o di avere una bocca meglio fatta. Erano desideri dello stesso ordine. Ma lui mi ha interrotto e voleva sapere come vedevo quest'altra vita. Allora gli ho urlato: "Una vita in cui possa ricordarmi di questa", e subito dopo gli ho detto che ne avevo abbastanza. Voleva ancora parlarmi di Dio, ma mi sono avvicinato a lui e ho cercato di spiegargli un'ultima volta che mi restava soltanto poco tempo. Non volevo sprecarlo con Dio. Ha cercato di cambiar discorso chiedendomi perché lo chiamavo "signore" e non "padre". Questo mi ha dato ai nervi e gli ho risposto che non era mio padre: era anche lui come gli altri. "No, figlio mio," mi ha detto mettendomi la mano sulla spalla. "lo sono con te. Ma tu non puoi saperlo perché hai un cuore cieco. Io pregherò per te."
Allora, non so per quale ragione, c'è qualcosa che si è spezzato in me. Mi sono messo a urlare con tutta la mia forza e l'ho insultato e gli ho detto di non pregare. L'avevo preso per la sottana. Riversavo su di lui tutto il fondo del mio cuore con dei sussulti misti di collera e di gioia. Aveva l'aria così sicura, vero? Eppure nessuna delle sue certezze valeva un capello di donna. Non era nemmeno sicuro di essere in vita dato che viveva come un morto. Io, pareva che avessi le mani vuote. Ma ero sicuro di me, sicuro di tutto, più sicuro di lui, sicuro della mia vita e di questa morte che stava per venire. Si, non avevo che questo. Ma perlomeno avevo in mano questa verità così come essa aveva in mano me. Avevo avuto ragione, avevo ancora ragione, avevo sempre ragione. Avevo vissuto in questo modo e avrei potuto vivere in quest'altro. Avevo fatto questo e non avevo fatto quello. Non avevo fatto una tal cosa mentre ne avevo fatto una tal'altra. E poi? Era come se avessi atteso sempre quel minuto ... e quell'alba in cui sarei stato giustiziato. Nulla, nulla aveva importanza e sapevo bene il perché. Anche lui sapeva perché. Dal fondo del mio avvenire, durante tutta questa vita assurda che avevo vissuta, un soffio oscuro risaliva verso di me attraverso annate che non erano ancora venute e quel soffio uguagliava, al suo passaggio, ogni cosa che mi fosse stata proposta allora nelle annate non meno irreali che stavo vivendo. Cosa mi importavano la morte degli altri, l’amore di una madre, cosa mi importavano il suo Dio, le vite che ognuno si sceglie, i destini che un uomo si elegge, quando .un solo destino doveva eleggere me e con me miliardi di privilegiati che, come lui, si dicevano miei fratelli Capiva, capiva dunque? Tutti sono privilegiati. Non ci sono che privilegiati. Anche gli altri saranno condannati un giorno. Anche lui sarà condannato. Che importa se un uomo accusato di assassinio è condannato a morte per non aver pianto ai funerali di sua madre? Il cane di Salamano valeva tanto quanto sua moglie. La donna automatica era altrettanto colpevole che la parigina che Masson aveva sposato o Maria che aveva voglia che io la sposassi. Che importava che Raimondo fosse mio amico allo stesso modo di Celeste che valeva più di lui? Che importava che Maria desse oggi la sua bocca a un nuovo Meursault? Capiva dunque, quel condannato, e che dal fondo del mio avvenire... soffocavo gridando tutto questo. Ma .già mi strappavano il prete dalle mani e i guardiani mi stavano minacciando. Ma lui li ha calmati e mi ha guardato un momento in silenzio. Aveva gli occhi pieni di lagrime. Si è voltato ed è scomparso.
La storia finirà con Meursault che realizza quanto l'universo stesso sembri indifferente rispetto all'umanità:
Partito lui, ho ritrovato la calma. Ero esausto e mi sono gettato sulla branda. Devo aver dormito perché mi sono svegliato con delle stelle sul viso. Rumori di campagna giungevano fino a me. Odori di notte di terra e di sale rinfrescavano le mie tempie. La pace meravigliosa di quell'estate assopita entrava in me come una marea. In quel momento e al limite della notte, si è udito un sibilo di sirene . Annunciavano partenze per un mondo che mi era ormai indifferente per sempre. Per la prima volta da molto tempo, ho pensato alla mamma. Mi è parso di comprendere perché, alla fine di una .vita, .si era preso un fidanzato, perché aveva giocato a ricominciare. Laggiù, anche laggiù, intorno a quell'ospizio dove vite si stavano spegnendo, la sera era come una tregua melanconica. Così vicina alla morte, la mamma doveva sentirsi liberata e pronta a rivivere tutto. Nessuno, nessuno aveva il diritto di piangere su di lei. E anch'io mi sentivo pronto a rivivere tutto. Come se quella grande ira mi avesse purgato dal male, liberato dalla speranza, davanti a quella notte carica di segni e di stelle, mi aprivo per la prima volta alla dolce indifferenza del mondo. Nel trovarlo così simile a me, finalmente così fraterno, ho sentito che ero stato felice, e che lo ero ancora. Perché tutto sia consumato, perché io sia meno solo, mi resta da augurarmi che ci siano molti spettatori il giorno della mia esecuzione e che mi accolgano con grida di odio.
Il fallimento del progetto conoscitivo dell'Occidente.
L’adesione ai motivi peculiari della problematica esistenzialistica avviene, anche per Camus, sul presupposto che alla realtà faccia difetto una struttura sostanziale o un piano divino che dia ad essa fondamento e orientamento, presupposto che è all'origine di quei sentimenti di estraneità, disperazione e fallimento che costellano l'esistenza dell'uomo, progettata (a quanto pare inutilmente) per rimediare in qualche modo a quell'inconsistenza ontologica e teologica. L’impresa filosofica e scientifica dell'Occidente rappresenta il tentativo più estremo e radicale di riuscire in questo intento, ma l'esito relativistico e nichilistico a cui è approdata gran parte della filosofia contemporanea e le ipotesi probabilistiche su cui si reggono le più avanzate teorie scientifiche testimoniano al di là di ogni dubbio che !'intelligenza non ha certezze da offrire alla vita dell'uomo. Scrive Camus nel Mito di Sisifo:
Fatta eccezione per i razionalisti di professione si dispera oggi della vera conoscenza. Se ci fosse da descrivere la sola storia significativa del pensiero umano, si dovrebbe fare quella dei suoi successivi pentimenti e delle sue impotenze.
Di chi e di che cosa, infatti, posso dire: "Io lo conosco!"? Questo cuore, che è in me, lo posso sentire e ne argomento che esiste. Questo mondo, posso toccarlo, e giudico di nuovo che esiste. Ma qui si ferma tutta la mia scienza, e il resto è costruzione. Se tento, infatti, di afferrare questo io di cui sono certo, se cerco di definirlo e compendiarlo, esso non è più che acqua che scorre fra le mie dita. Posso disegnare ad uno ad uno tutti i volti che sa assumere, e anche quelli che gli sono stati dati: l'educazione, l'origine, le passioni o i loro silenzi, la grandezza o la bassezza. Ma non si sommano dei volti. Questo cuore stesso, che pure è il mio, resterà sempre per me indefinibile. L'abisso che c'è fra la certezza che io ho della mia esistenza e il contenuto che tento di dare a questa sicurezza, non sarà mai colmato. Sarò sempre estraneo a me stesso. Nella psicologia, come nella logica, vi sono alcune verità, ma non esiste la verità. Il''conosci te stesso" di Socrate ha lo stesso valore del" sii virtuoso" dei nostri confessionali: allo stesso tempo che una nostalgia rivelano anche un'ignoranza. Sono giochi sterili intorno a grandi soggetti, e non sono legittimi che nella misura in cui sono approssimativi. [ ... ]
Anche l'intelligenza mi dice, dunque, a modo suo, che questo mondo è assurdo. Il suo contrario, cioè la ragione cieca, ha un bel pretendere che tutto sia chiaro; io mi attendevo delle prove e desideravo che avesse ragione, ma, nonostante tanti secoli pretenziosi e, per di più, tanti uomini eloquenti e persuasivi, so che tale pretesa è falsa. Almeno una volta posto il problema su questo piano, non c'è alcuna felicità se io non posso sapere. La ragione universale; pratica o morale, il determinismo, le categorie che tutto spiegano, hanno di che far ridere l'uomo che ragiona onestamente; non hanno nulla a che vedere con lo spirito e negano la sua profonda verità, che è quella di essere incatenato. In questo universo indecifrabile e limitato, il destino dell'uomo assume ormai un senso proprio. Un popolo di irrazionali si è levato e lo circonda fino al suo ultimo termine. Nella sua chiaroveggenza rinata e adesso ordinata, il senso dell'assurdo si fa luce e si precisa. Dicevo che il mondo è assurdo; ma andavo troppo presto. Il mondo, in sé, non è ragionevole: è tutto ciò che si può dire. Ma ciò che è assurdo, è il confronto di questo irrazionale con il desiderio violento di chiarezza, il cui richiamo risuona nel più profondo dell'uomo. L'assurdo dipende tanto dall'uomo quanto dal mondo, ed è, per il momento, il loro solo legame. Esso li suggella l'uno all'altro come soltanto l'odio può vincolare gli esseri. È tutto ciò che posso chiaramente discernere in questo universo smisurato, in cui si svolge la mia avventura. Fermiamoci qui. Se reputo vero questo assurdo che regola i miei rapporti con la vita, se mi compenetro di questo sentimento, che mi afferra davanti agli spettacoli del mondo, e di questa perspicacia, che mi impone la ricerca di una scienza, devo tutto sacrificare a queste certezze e devo guardarle in faccia per poter mantenerle. Soprattutto devo regolare su loro la mia condotta e seguirle in ogni loro conseguenza.
L'enigmatica certezza di esistere realmente.
L'assurdità, afferma Camus, non è una caratteristica che possa assegnarsi al mondo o all'uomo. Di queste due "entità" in sé considerate non possiamo dire alcuna parola certa o definitiva, salvo appunto che non possono essere definite oggettivamente. L'assurdità riguarda esclusivamente il rapporto che l'uomo intrattiene con se stesso e, per questo tramite, con il mondo. Un tramite quanto mai enigmatico dal punto di vista del sapere, poiché nella nostra esperienza non riusciamo ad andare oltre una soggettiva e a sua volta enigmatica certezza di esistere. Si tratta infatti di un sentimento o della suggestione che ci coglie quando ci troviamo al cospetto delle "cose", quando ne saggiamo la consistenza fisica, ne sperimentiamo l'influsso sui nostri organi di senso, ci abbandoniamo al fascino che promana dal loro misterioso apparire. Ma tutto questo è letteratura, meditazione nostalgica, affiato lirico, non conoscenza. Non che i "professionisti della ragione" siano giunti ad esiti differenti. Anche quello che oggi viene "raccontandoci" la scienza, con tutto il suo dispiego di rigore e di sofisticate apparecchiature, sta a mezzo tra un sogno ad occhi aperti (la realtà quale ci appare) e un racconto di fiabe (la realtà qual è: una danza di elettroni). Di fronte a questo scacco, osserva Camus, non c'è tuttavia da disperarsi o da giudicare l'esistenza indegna di essere vissuta.
Vivere l'esistenza in modo sensato è la più grande delle sfide e la possibilità del suicidio, a cui sono dedicate alcune celebri pagine del Mito di Sisifo, va guardata come l'unica questione filosofica meritevole di attenzione. Messa da parte ogni considerazione di ordine morale e religioso, come pure ogni appello al "valore" che la vita avrebbe in sé, resta il fatto che la scelta di suicidarsi comporta il riconoscimento implicito che l'esistenza dovrebbe avere un senso, ma poiché l'uomo non è capace di accertarlo non resta che rinunciare a vivere. Come a dire: poiché non posso avere tutto (cioè la verità, la felicità, la santità ecc.), allora mi riduco a nulla. Ma il punto filosoficamente decisivo è che "il tutto" non c'è, non si dà, o meglio si dà solo nei discorsi dei filosofi, dei teologi e degli scienziati. Lì, in quei discorsi, ha la sua ragion d'essere; ma sul piano dell' esistenza, infinitamente più ampio e complesso di qualsiasi discorso, non ne ha nessuna. Suicidarsi perché la realtà e la vita che svolgiamo in essa non hanno senso è solo un tragico errore di interpretazione, la conseguenza di una similitudine indebita o, infine, un modo di sottrarsi all'evidenza che ogni verità della vita va incontro a un destino di errore e che l'esistenza stessa, come diceva Heidegger, è un costitutivo errare da una parte all'altra, da una verità all'altra. Solo la parte esiste e ogni verità è relativa alla parte che di volta in volta ci troviamo a rappresentare. Fare bene la propria parte, impegnarsi affinché le cose vadano meglio nella parte di realtà e di storia che ci è toccata in sorte, è l'unica possibilità autentica che ci riserva l'esistenza. Questo non significa rassegnarsi a quel destino di decadenza che è il frutto ideologico scaturito da «tanti secoli pretenziosi» e dai discorsi di «tanti uomini eloquenti e persuasivi», ma significa essere uomini in rivolta. Ci sono già tante sofferenze e ingiustizie di cui crucciarsi nella vita per doversi vanamente disperare della vita.
Adoperiamoci, proporrà Camus nei suoi ultimi anni, per evitare che tanti a cui è toccata una parte più tragica della nostra soffrano ingiustamente. Scopriremo allora che la vita non ha un senso perché in realtà ne ha infiniti.