La poesia come dono divino
Nel mondo occidentale la poesia nasce insieme alla musica e alla danza come mousiké, termine che significa «arte musica», cioè ispirata dalle M use, figlie di· Zeus e di Mnemosine, dea della memoria.
L’arte poetica nasce dunque come dono divino e non come tecnica. Il mousikòs canta le opere e le azioni umane che, accadute per volere degli dèi, sono degne di essere ricordate e di inserirsi nell'esperienza dell'umanità. Capace, al pari dello storico, di consegnare a eterna memoria ciò che altrimenti sarebbe soggetto alla morsa fatale del tempo, egli è assimilato dai poeti Omero (VIII sec. a. C) ed Esiodo (VIII-VII sec. a. C) anche al veggente, cioè a colui che è capace di vedere ciò che, avendo principio nel presente, dovrà realizzarsi nel futuro.
La funzione etico-religiosa del poeta
L’origine divina della poesia esclude che possa essere considerata come un fare liberamente creativo. Il poeta ha infatti il compito di ricondurre quanto avviene all'ordine insito nel mondo e di subordinare a esso il comportamento dell'uomo, permettendo al suo animo di accordarsi al volere di Zeus. Il mousikòs svolge, pertanto, una funzione religiosa ed etico-sociale, esercitando sull'anima un potere psicagogico (dal greco psiché = anima e agein = condurre, ovvero «guidare l'anima»).
Secondo il poeta Pindaro (522 ca. - 442 ca. a. C) il canto poetico effonde gioia e l'effetto della gioia consiste nel rafforzare i vincoli comunitari tra gli uomini.
Per la sua capacità di allontanare dall'anima ogni forma di conturbante dissidio e dolore, alla poesia viene anche riconosciuto un potere catartico (dal greco katharsis = purificazione), cioè purificatore.
La poesia come finzione
Questi capisaldi della concezione poetica arcaica vengono messi in crisi dai sofisti, attivi nella Grecia del V se-colo a. C Secondo i sofisti le parole dei poeti sono sapienti non perché ci rivelano che cosa è vero o falso, o perché ci istruiscono su ciò che è giusto o ingiusto, ma perché riflettono una sapiente conoscenza dei meccanismi linguistici necessari a suscitare piacere. Indifferente ai contenuti veicolati, il poeta è detentore di un sapere tecnico formale, finalizzato a produrre piacevoli finzioni. Il tema della finzione emerge particolarmente in Gorgia di Lentini (485 ca. - 388 ca. a.C.) il quale, concependo il fare poetico come un puro artificio tecnico, ne svincola il potere psicagogico da ogni finalità etico-pedagogica: la poesia non ha la funzione di educare alla moderazione e alla misura, bensì di eccitare le passioni . Nella sua capacità di soggiogare i fruitori e di ridurli a una totale passività, la parola poetica assume valenza incantatoria: il poeta è colui che domina a suo piacimento gli affetti umani attraverso la consapevole creazione di inganni. Il suo potere è paragonabile a quello di un dio, ma non deriva dagli dèi, bensì dall'abilità tecnica di dare forma con le parole alle più diverse immagini della realtà.
Tra divino entusiasmo e tecnica simulativa
Opponendosi alla concezione sofistica, il filosofo Platone (428-347 a.C.) riprende nel dialogo Ione l'antica concezione della poesia come ispirazione divina, irriducibile a semplice maestria tecnica. In quanto divina mania («possessione» in greco), essa si qualifica come amore per quella bellezza eterna che, dispensata dalle Muse, contraddistingue il mondo divino ed eleva alle forme eterne delle cose. Nel Il libro della Repubblica Platone tuttavia condanna la poesia quando essa faccia appello non all'intelletto, ma alla dimensione emotiva dell'animo umano, inclinando alle passioni anziché al bene. È il caso della poesia omerica e del teatro tragico che, attribuendo alle divinità sentimenti umani, ne propongono un'immagine falsa e diseducativa.
L'imitazione verosimile
Se Platone sottolinea l'ambiguità della poesia per la sua capacità di produrre anche inganni, Aristotele (384-322 a. C) ne ripristina il valore tecnico, accordando a essa un giusto equilibrio tra verità e finzione. La poesia, infatti, definita nella Poetica come rappresentazione mimetica dell'agire umano, è volta a raffigurare non il reale ma il possibile, cioè ciò che può accadere. Come tale, essa non è una finzione ingannevole, bensì verosimile, capace per la sua plausibilità di coinvolgere emotivamente il fruitore mostrandogli le possibili conseguenze dei comportamenti umani. Per questo motivo Aristotele giudica positivamente la tragedia, in quanto rappresentazione che induce lo spettatore alla conoscenza attraverso il coinvolgi mento patetico.
La nascita della precettistica
Riconoscendo il valore tecnico della poesia la Poetica di Aristotele conduce allo studio particolareggiato dei suoi differenti generi, argomenti e forme espressive. È quanto avviene nel periodo ellenistico-romano (III sec. a.C. - III sec. d.C.), durante il quale la poesia si caratterizza per la preziosità dello stile, svincolandosi progressivamente dai significati religiosi, morali e politici che erano stati centrali nell'età arcaica e classica. Esempio principe di questi studi precettistico-classificatori è l'Ars poetica del poeta romano Orazio (65-8 a. C), che tuttavia accorda il suo favore alle forme poetiche che abbiano anche una finalità educativa, riuscendo a essere utili per quanto concerne il contenuto e piacevoli nella forma. Compito della poesia è docere et delectare, insegnare e dilettare. Tale principio indirizza gli autori verso uri'interpretazione allegorica dei componimenti poetici.
Secondo il retore romano Marco Fabio Quintiliano (35-95 d. C) l' allegoria (dal greco allei = altrimenti e agorèo = dire,ovvero «dire in altro modo») consiste nell'indicare una cosa con le parole e un'altra con le idee. È quanto vediamo nei poeti, i quali comunicano sotto forma di racconto inventato quelle verità di carattere .morale e metafisico che la ragione esprime in forma razionale e concettuale. A partire dal III sec. d. C l'interpretazione allegorica conosce una grande diffusione in ambito neoplatonico: il poeta è ispirato da Dio ed è detentore di una sapienza che, proprio perché divina, può esprimersi soltanto in forma enigmatica, come gli oracoli.
La visione cristiana
Il concetto di allegoria sviluppato dal neoplatonismo diventa centrale nel periodo medievale. In una cultura fortemente permeata dalla religione cristiana, la Bibbia assume un ruolo centrale in quanto narrazione - spesso in forma poetica - di fatti storicamente avvenuti ed espressione allegorica di contenuti spirituali, ispirati ai profeti da Dio. Anche la poesia classica veicola verità profonde, ma lo fa attraverso la fantasia e può quindi costituire solo una fase propedeutica rispetto all'esegesi delle Sacre Scritture, che hanno dunque il primato rispetto ad essa.
Una totale svalutazione della poesia viene invece compiuta, nell'ambito della Scolastica, da Tommaso d'Aquino (1226-74), secondo il quale l'indagine della parola divina può essere affidata solo alla filosofia, intesa come attività guidata dalla ragione, e non alla poesia che, guidata dalla fantasia, riveste la verità di inganni. Fa eccezione all'interno di questo contesto la figura e l'opera poetica di Dante Alighieri (1265-1321) che, riprendendo in ambito cristiano la concezione platonica del poeta divinamente ispirato, stabilisce nella Divina Commedia un rapporto diretto tra teologia e poesia, facendo assumere a quest'ultima un ruolo di conoscenza ed esposizione della verità negato dai filosofi della sua epoca.
Per Dante il poeta non è soltanto filosofo, cioè conoscitore delle cose umane e naturali, ma anche teologo, ovvero colui che meglio ci introduce ai misteri sovrannaturali.
La rivalutazione trecentesca della poesia classica
La concezione dantesca del poeta-teologo costituisce il punto di partenza per una progressiva rivalutazione della poesia nel Trecento, quando il rinnovato interesse per i classici si accompagna all'acquisizione di una visione della vita che, se è ancora fortemente ancorata ai valori religiosi, rivela un orientamento pratico e incentrato sull'uomo. Determinante è la riflessione e la produzione letteraria di Francesco Petrarca (130474) e Giovanni Boccaccio (1313-75). Convinti della nobile origine dell'arte poetica, essi sostengono che l'antica poesia, offrendoci esempi di una saggia condotta di vita, costituisce la via regia per la rigenerazione dello spirito. La poesia classica, non diversamente dalla poesia delle Sacre Scritture, racchiude significati ben più profondi delle sue «dilettose» apparenze. Le divinità pagane, ad esempio, sono forze naturali personificate oppure eroi divinizzati per essere stati esempi sublimi di virtù.
Il valore formativo della poesia nell'Umanesimo
Sotto l'impulso di Petrarca e Boccaccio, nasce alla fine del Trecento un vasto movimento di riscoperta della cultura classica che trova la sua massima fioritura nel Quattrocento: l'Umanesimo. La poesia degli antichi viene vista come strumento essenziale per la formazione spirituale di una rinnovata umanità, pienamente consapevole della propria dignità. Tra i rappresentanti più significativi dell'Umanesimo fiorentino spicca la figura di Coluccio Salutati (1331-1406), secondo il quale non c'è contraddizione tra gli studia divinitatis, rivolti alla parola divina, e gli studia humanitatis, rivolti, invece, a quanto è stato prodotto dalla parola umana e rappresentati dal patrimonio letterario dell'antica umanità pagana. Infatti, la parola umana è un dono di Dio e, come tale, è destinata nel proprio esercizio a rivelare l'alto valore dello spirito umano. Viene così esaltato il ritorno all'antica poesia, quale strumento che Dio ha dato agli uomini perché si risveglino dal torpore dei sensi e si aprano alla vita dello spirito.
La poesia viene considerata, tra gli studia humanitatis, la disciplina che più forma l'uomo agli eterni valori della morale e della civiltà, poiché la conoscenza dei contenuti, per quanto ricca, rimane oscura se manca della bellezza della forma. Tale bellezza è realizzabile solo dalla poesia che, in quanto arte della parola per eccellenza, è capace più della stessa filosofia di educare al bene e di far conoscere il vero in virtù della sua capacità persuasiva. Gli umanisti riprendono così il principio oraziano del docere delectando.
L'esaltazione della poesia pagana in quanto alta testimonianza di un'umanità ideale si traduce in uno studio sempre più approfondito dei classici. Chi vuole diventare poeta deve meditare l'opera di Omero, Virgilio, Orazio e Ovidio e codificare in forme immutabili la lingua, la tecnica e le forme espressive in cui si è espressa la loro divina ispirazione. L'amore per i classici trova ulteriore impulso con la rinascita del neoplatonismo promossa da Marsilio Ficino (1433-99) a Firenze. Nella sua celebrazione del poeta - e dell'artista in generale - come figura divinamente ispirata, Ficino interpreta tutta l'antica poesia come una mirabile teologia. Il poeta è colui che attinge direttamente all'intelligenza divina che ha prodotto tutte le cose, facendola risplendere nella propria opera come bellezza. Questo, tuttavia, vale anche per i poeti moderni, i quali, per esprimere l'universale, non hanno bisogno della mediazione di un modello letterario. Si tratta quindi di una concezione che, pur raffor-zando il culto della tradizione poetica degli antichi, pone le basi per una emancipazione da questo stesso culto, aprendo la strada all'idea del poeta creatore.
Il regolismo e l'antiregolismo
Nel Cinquecento il culto dell'antica poesia quale ideale di sapienza intellettuale e perfezione formale si rafforza ulteriormente. È la nascita del Classicismo, che conferisce agli esempi del passato un valore formativo assoluto. Questa tendenza viene rafforzata dalla riscoperta della Poetica di Aristotele, che; sconosciuta alla cultura medievale e a buona parte del Quattrocento, viene tradotta in latino nel 1498 da Giorgio Valla (1447-1500), sostituendo l'Ars Poetica di Orazio come punto di riferimento di tutta la riflessione sulla poesia. La concezione aristotelica della poesia come conoscenza realizzata attraverso il piacere dell'imitazione contribuisce a consolidare l'idea che la poesia sia superiore alla filosofia in quanto educa attraverso il diletto, rivelando una capacità persuasiva ignota al pensiero logico-concettuale. Questa capacità può tuttavia essere raggiunta solo attraverso la rigida adesione ai modelli della poesia antica, avendo questi dato al vero e al possibile la più perfetta rappresentazione formale. Si sviluppa così in seno all'aristotelismo cinquecentesco un vero e proprio gusto per la regola. Nel tardo Cinquecento il neoplatonismo conduce a una nuova concezione del poeta che, proprio perché divinamente ispirato, è autorizzato da Dio a essere un vero e proprio creatore, svincolato da ogni forma di adesione a regole precostituite.
L’antiregolismo dei platonici tardo-rinascimentali giunge al suo culmine con il filosofo Giordano Bruno (1548 -1600). Negli Eroici furori (1585) egli sostiene che sono le regole a derivare dalla poesia e non il contrario, tanto che lo stesso Omero «nel suo genio non fu poeta che pendesse da regole, ma è causa delle regole che servono a coloro che son più atti a imitare che a inventare» (G. Bruno, Dialoghi filosofici italiani, Milano, Mondadori, 2000, p. 783).
Il teatro di meraviglie della poetica barocca
La celebrazione del poeta come alter deus trova motivo di ulteriore sviluppo nel corso del Seicento. L’inaugurarsi di una nuova visione dell'universo come immensa macchina regolata da rigidi rapporti di causa ed effetto sospinge la poetica barocca verso la creazione di un'altra natura, meno scialba e razionale. Nel rendere la natura un teatro di meraviglie, il poeta rievoca quella concezione del mondo come allegoria del divino andata perduta con l'imporsi della scienza moderna, trovando nell'immaginazione la facoltà per gareggiare con l'immensità del nuovo universo e per far risorgere dalla morta materia i suoi significati nascosti, stupefacenti e infiniti come è stupefacente e infinita la sapienza del Creatore. Nella sua capacità di stabilire le più disparate somiglianze tra le cose, l'ingegno poetico realizza la propria acutezza attraverso il procedimento retorico della metafora. In uno dei trattati più significativi della poetica barocca - Il cannocchiale Aristotelico (1670) di Emanuele Tesauro (1591-1675) - si afferma che è proprio della metafora «esprimere un concetto per mezzo di un altro molto diverso» (in La grande storia dell'arte [DVD], 2001, Torino-Firenze, Einaudi-ScalaGroup, p. 62) e così trovare «in cose dissomiglianti la somiglianza» (Ibid.), facendoci intravedere «in una sola parola più di un oggetto» (Ibid., p. 63). Tesauro afferma, pertanto, che se il poeta scriverà «Prata amoena sunt» («I prati sono ameni»), altro non rappresenterà che «il verdeggiar de' prati», ma se scriverà «Prata rident» («I prati ridono»), farà «veder la terra essere un uomo animato, il prato esser la faccia, l'amenità il riso lieto» (Ibid.). Nella creazione di un mondo in cui tutto perde la propria natura definita per essere rapito in una continua traslazione di significati, l'uomo barocco scopre, tuttavia, che la realtà non ha più un ordine stabile, ma è percorsa da un metamorfismo universale che, certo, stupisce ma anche sgomenta. Il teatro della meraviglia barocca è anche il teatro dell'incertezza di tutte le cose.
Il Classicismo secentesco
Accanto al Barocco il Seicento conosce anche reinterpretazioni della concezione poetica classico-rinascimentale, tese a rivendicare quei valori di esattezza, chiarezza e distinzione incarnati dalla ragione scientifica del tempo e realizzati dalla poesia dell'antichità. Il Classicismo secentesco, emblematicamente rappresentato dalle opere teatrali di Molière (1622-73) e di Racine (1639-99), trova la sua formulazione teorica più compiuta nell'Art poetique (1674) di Nicolas Boileau (1636-1711). Secondo Boileau il poeta non deve inventare, ma rappresentare ciò che nella natura è conforme alle leggi della ragione, perché solo subordinandosi all'azione disciplinatrice dell'intelletto l'immaginazione poetica può educare al vero e al bene. Non si può inoltre educare al vero e al bene se non comunicandolo con uno stile limpido e chiaro, conforme alle regole della tradizione classica.
Emozione, immaginazione e genialità
Nel corso del Settecento acquista progressiva importanza l'elemento emozionale della poesia, al punto da essere visto come il suo carattere distintivo. Contribuisce alla messa in evidenza di questo elemento la riscoperta di un trattato di matrice platonica risalente al I sec. d. c., scritto da un autore anonimo chiamato Pseudo-Longino. Nell'opera, intitolata Sul sublime, si afferma che uno stile sublime può essere raggiunto solo da una grande anima, che è- tale solo se pervasa dall'ispirazione divina. Sublime è pertanto quel pathos che permette all'anima di protendersi verso l'alto e di sciogliersi dai suoi legami terreni. In virtù di questo pathos la tecnica poetica si anima, così che le parole del poeta dominano l'ascoltatore e lo contagiano dello stesso pathos, provocandone l'elevazione.
La fama dello Pseudo-Longino si diffonde in tutta Europa, al punto che il sublime diviene il criterio di valutazione di qualunque genere poetico. Significativa la riflessione del poeta e drammaturgo inglese John Dennis (1657-1734) che, riprendendo il principio oraziano del docere delectando, afferma: «qualsiasi tipo di ammaestramento dipende dalla passione. Gli stessi filosofi morali, anche i più austeri fra loro, non potranno mai ammaestrare e riformare se non commuovono; poiché o essi rendono il vizio odioso e la virtù amabile, oppure trattengono dall'uno con la paura della miseria, o incitano all'altra con la felicità che prospettano, ovvero fanno leva sulla vergogna o sull'orgoglio o sull'indignazione. Di conseguenza, la poesia ammaestra e riforma più potentemente di quanto non possa fare la filosofia, perché essa più potentemente commuove, ammaestrando perciò anche più facilmente» (J. Dennis, Critica della poesia [1704], Palermo, Aesthetica, 1994, P·48).
Per poter commuovere il poeta deve ispirarsi a ciò che è straordinario o sublime, trovando la sua fonte per eccellenza nella religione. Dennis addita Il paradiso perduto (1667) di John Milton (1608-74) come il poema «più sublime che sia mai stato scritto»: l'intensità emotiva che esso suscita è infatti proporzionale alla sua capacità di rappresentare le «meraviglie dell'aldilà», riproponendo in forma fantastica la storia della creazione di Adamo ed Eva e della loro cacciata dal paradiso.
Sublime sia nell'oggetto sia nell'effetto, Il paradiso perduto viene reso celebre dal critico inglese Joseph Addison (1672-1719) che, nel 1712, sulla sua rivista «The Spectator», sottolinea come la forza emozionale di quest'opera risieda soprattutto nella vastità dell'immaginazione, quale capacità propria dell'uomo di «aprire la mente a vaste concezioni [ ... ] in armonia con la naturale grandezza dell'anima» (J. Addison, I piaceri dell'immaginazione, Palermo, Aesthetica, 2002, p. 44). Si può infatti concepire qualcosa di «più grandioso della battaglia degli angeli, della maestà del Messia, della statura e del contegno di Satana e dei suoi pari? [...] Nessun altro argomento avrebbe potuto fornire a un poeta scene tanto atte a colpire l'immaginazione, così come nessun altro poeta sarebbe stato capace di dipingere quelle scene a colori più forti e vivaci»
Il sublime, nel portare alla ribalta l'elemento emozionale e immaginativo della poesia, determina anche un generale atteggiamento antinormativo. Il più grande teorico francese dell'estetica del sentimento, l'abate Jean-Baptiste Du Bos (1670-1742), sostiene non solo che il valore di una poesia consiste nella sua capacità di suscitare emozioni, ma anche che il poeta raggiunge questo obiettivo attingendo alla propria natura o genio, e non applicando regole codificate. Poeta di valore è, dunque, quello più capace di emozionare ma, al tempo stesso, di rivelare in questa capacità la sua genialità e, quindi, la sua individualità. In tal senso la poesia si fa espressione del soggetto e della sua interiorità, esonerandosi gradualmente dal concetto di imitazione.
Il carattere immaginativo della poesia romantica
Con la nascita del movimento romantico il carattere espressivo-sentimentale della poesia si fonde strettamente a quello creativo-immaginativo.ln una linea che va dal poeta tedesco Novalis (1772-1801) agli inglesi Samuel Taylor Coleridge (1772-1834), Percy Bysshe Shelley (1792-1822) e John Keats (1795-1821), si assiste a un'accentuata valorizzazione della libera soggettività dell'artista e della sua originalità in quanto genio. Il poeta non imita i prodotti della natura, ma produce continuamente nuove forme, esprimendo attraverso l'immaginazione l'infinita creatività divina che pervade il mondo. Nella sua capacità di spingere l'uomo al di là della realtà, l'immaginazione è infatti sentita come la facoltà che meglio manifesta la libertà dello spirito del genio, permettendogli di accedere all'Assoluto e di creare una natura «altra», capace di restituirci il senso spirituale delle cose.
In quanto arte meno legata alla materia, la poesia viene giudicata, insieme alla musica, come l'arte più capace di elevarsi al soprasensibile e, al tempo stesso, di esprimere la tensione all'infinito che contraddistingue l'uomo in quanto spirito. Tale tensione viene definita come Sehnsucht, ovvero come struggente anelito non placabile con alcun oggetto determinato.
Titanismo e ironia
La Sehnsucht conduce a due atteggiamenti opposti e complementari: il titanismo e l'ironia. Il primo consiste nell'aspirazione a un'esistenza assoluta, a un ideale di pienezza e di totalità che, nel riconciliare finito e infinito, trova una sua prefigurazione simbolica nella poesia. La creazione poetica assume così i tratti di un agire divino dotato di valore profetico. La seconda deriva invece dalla consapevolezza dell'insopprimibile limite della condizione umana e, quindi, dell'impossibile unità tra finito e infinito. Un distacco ironico segue immediatamente ogni momento di entusiasmo creativo: il poeta non potrà mai accontentarsi delle forme in cui il suo spirito creativo ha trovato concreta manifestazione, in quanto nessuna opera umana potrà mai eguagliare l'Assoluto, poesia compresa. L’ironia è, dunque, la condizione interiore che consente di superare continuamente il «già dato», pur nella coscienza che la riconciliazione tra finito e infinito è un ideale posto in un futuro continuamente rimandato.
La nozione di «sentimentale»
Divisa tra ironia e titanismo, la poesia romantica è contrassegnata da un atteggiamento problematico che i romantici chiamano «sentimentale»; esso tende a trasformare la poesia in una teoria della modernità, intesa come elaborazione filosofico-riflessiva di una perdita; la perdita di quella pienezza armoniosa che, in ambito estetico, coincide con la forma classica. Nel romanzo epistolare Iperione (1793-99) e, sopratutto, negli Inni e nelle Elegie (1800-801) il tedesco Friedrich Holderlin (1770-1843) esprime con struggente nostalgia il contrasto tra l'epoca beata dei Greci e l'epoca presente, abbandonata dagli dèi e segnata dalla scissione tra uomo e natura. Ciò che divide l'epoca moderna da quella antica è la venuta di Cristo che, con la sua morte, ha decretato l'interiorizzarsi del divino e la sua scomparsa dalla natura e dalla storia umana. È iniziata un'epoca di smarrimento, nella quale non resta che sognare nostalgicamente l'antica beatitudine. Compito dei poeti è dare voce ai sogni dell'umanità, cantando l'assenza del divino e l'attesa del suo ritorno.
Dal Romanticismo alla poetica della modernità
La concezione romantica della poesia come espressione della condizione di straniamento dell'uomo moderno trova il suo sviluppo più compiuto in Charles Baudelaire (1821-67). Nella raccolta poetica I fiori del male (1857) la coscienza romantica della perdita dell'antica armonia non si converte in un possibile sguardo al futuro, ma si trasforma in una mitologia della caduta priva di redenzione. L’orizzonte di questa mitologia è la metropoli industriale moderna, dove l'ideale di armonia è ormai impossibile e viene recuperato attraverso un rigore tecnico-formale teso a sottolineare il carattere artificiale della bellezza. Con Baudelaire si compie, così, il passaggio alla poetica della modernità, contraddistinta dal ripiegamento dell'artista su se stesso e dal suo distacco dalla società, sentita come ostile e nemica. Il titanismo romantico diventa isolamento doloroso e angosciato.
Oltre il reale
All'interno di questo contesto il poetare acquista un nuovo significato, diventando evasione dalla banalità del quotidiano, rifugio in un mondo in cui le cose acquistano un senso nuovo, rivelando, al di là della loro apparenza, misteriose Corrispondenze. Così si intitola un celebre sonetto di Baudelaire del 1857 (cfr. 8), che inaugura una nuova sensibilità e un nuovo modo di concepire la figura del poeta. Nel 1871 il poeta Arthur Rimbaud (1854-91), nelle pagine teoriche della Lettera del veggente, afferma che al mondo visibile il poeta-veggente deve sostituire l'ignoto. A questa nuova dimensione si accede attraverso «il deragliamento di tutti i sensi», cioè un volontario potenziamento della propria sfera percettiva finalizzato a realizzare una «espressione totale», capace di trasformarsi in profumo, suono. colore. Ne risulta una poesia totalmente svincolata dalle più elementari categorie razionali, indirizzata verso un meraviglioso di carattere allucinatorio che, aprendosi all'irrazionale e all'illogico, introduce elementi che appartengono all'inconscio.
Verso la disgregazione dei canoni
Un articolo di Jean Moréas pubblicato su «Le Figaro» il 18 settembre 1886 segna la nascita ufficiale del simbolismo, che trova uno dei suoi più assidui cultori in Stephane Mallarmé (1842-98). Raccogliendo l'eredità delle Corrispondenze di Baudelaire, egli afferma che esiste nelle cose una trama di relazioni segrete, esprimibili solo attraverso la poesia. Compito del poeta è annullare il mondo quotidiano, per portare alla luce l'incanto della realtà. Perché ciò avvenga, egli deve depurare il linguaggio da tutti i detriti apportati dalla comunicazione ordinaria; le parole devono diventare nuovamente espressione della nozione pura delle cose. Nasce così il concetto di poesia assoluta, cioè di una poesia che, proprio perché capace di esprimere l'essenza delle cose, crea l'unica vera realtà, acquistando una totale autonomia dal mondo esterno.
L’arte poetica perde, così, la spontaneità del Romanticismo per trasformarsi in tormentoso lavoro sul linguaggio. Attento alle combinazioni più sottili delle parole dal punto di vista sia musicale sia spaziale (la loro disposizione sulla pagina), Mallarmé approda, nel poemetto Un colpo di dadi non abolirà mai il caso (1897), a una poesia che, diventando pura musica e arabesco, rinuncia volutamente all'intelligibilità immediata e realizza una tale rottura con il linguaggio, la sintassi e la metrica della tradizione, così da anticipare le sperimentazioni delle avanguardie nella prima metà del secolo xx, quando il processo di disgregazione dei canoni poetici giunge a definitivo compimento.