Kant
Vita e formazione
Kant nacque nel 1724 nella periferia di Königsberg, allora capitale della Prussia Orientale e oggi, con il nome di Kaliningrad, capoluogo dell'omonima Oblast, exclave russa tra Polonia e Lituania.
Era quarto di undici figli (o nove, secondo altri), dei quali solo cinque raggiunsero l'età adulta.
Il padre di Immanuel, Johann Georg Kant (1682-1746), era un sellaio originario di Memel, al tempo la città prussiana più settentrionale (oggi Klaipėda, in Lituania); la madre, Anna Regina Reuter (1697-1737), proveniente da una famiglia originaria di Norimberga e Tubinga, era una seguace del pietismo.
Kant condivise dunque con molti illuministi tedeschi origini povere.
L'educazione religiosa impartitagli dalla madre continuò anche nel Collegium Fridericianum, che Kant frequentò dalla Pasqua del 1732 all'8 maggio 1740 e il cui direttore era da poco diventato Franz Albert Schultz (1692-1763).
Costui era allievo di Christian Wolff e importante esponente del pietismo, nonché professore di teologia: soccorse finanziariamente, così come fecero altri amici di Kant, gli studi dell'indigente ragazzo.
Al Collegio, indicato dalla gente di Königsberg come un "rifugio di Pietisti", aveva larghissimo spazio un rigoroso catechismo.
Kant vi studiò molto il latino, l'ebraico (dall'Antico Testamento), poco il greco antico (limitato al Nuovo Testamento) e quasi per nulla le materie scientifiche.
Kant ricorderà il Fridericianum come una "schiavitù giovanile", e anche avanti negli anni vi penserà con "paura e angoscia".
In particolare per l’educazione religiosa, ricevuta nel Collegium così come per quella impartitagli nell’ambito familiare, Kant, ormai in tarda età, così commentava:
«Si dica del pietismo ciò che si vuole, le persone che lo vivevano veramente possedevano ciò che di più alto può possedere l’uomo: quella quieta serenità e pace interiore che nessuna passione potrebbe turbare. Nessuna privazione, nessuna persecuzione le addolorava, nessun contrasto le induceva all’ira o all’inimicizia. [...] I miei genitori, modelli di onestà, di probità e di ordine, senza lasciarmi un patrimonio (ma nemmeno debiti), mi hanno dato un’educazione che non potrebbe essere migliore dal punto di vista morale e per la quale nutro sentimenti di vivissima gratitudine ogni volta che penso a loro».
Nel 1737 muore la madre.
Il 24 settembre 1740, Kant, secondo miglior allievo della classe, si immatricolò all'Università di Königsberg, la cosiddetta Albertina, per intraprendere studi filosofici, di teologia, di letteratura latina e di matematica, completati nel semestre estivo 1746, dove fu allievo di Martin Knutzen (1713-1751), docente di logica e metafisica.
L'interesse per Newton, scomparso nel 1727, ma anche per le scienze in generale, si manifestò proprio in questo periodo, probabilmente anche grazie al maestro Knutzen.
Kant si confrontò fin da subito con la fisica di Newton e con le obiezioni mosse da Leibniz nei riguardi dell'impianto newtoniano.
Infatti ancor più che dall'illuminismo wolffiano Kant si sentì attratto dalla fisica newtoniana.
Già nel 1747 egli pubblicò uno scritto sul problema allora assai dibattuto delle forze vive, tentando la conciliazione fra il punto di vista cartesiano e quello leibniziano.
Nel 1755 pubblicò: Allgemeine Naturgeschichte und Theorie des Himmels, oder Versuch von der Verfassung und dem mechanischen Ursprunge des ganzen Weltgebäudes nach Newton'schen Grundsätzen abgehandelt (Storia generale e teoria del cielo, o ricerca intorno alla costituzione e all'origine meccanica dell'intero sistema del mondo condotta secondo i principi newtoniani).
Nonostante tale titolo, Kant si distacca da Newton su un punto fondamentale, in quanto sostiene che l'universo è spiegabile con il semplice ricorso alle leggi della natura senza fare appello al divino architetto come fa appunto Newton.
Nel 1746 morì il padre; Kant lasciò l'Albertina molto probabilmente all'inizio dell'estate del 1748, procurandosi da vivere come precettore presso la casa del pastore protestante Daniel Andresch, nella cittadina di Judtschen (odierna Veselovka), poi presso il maggiore von Hülsen all'incirca fino al 1753, infine presso il conte Keyserling.
È del 1746, pubblicato però solo nel 1749, il primo scritto sulle forze vive, dal titolo Pensieri sulla vera valutazione delle forze vive e critica delle dimostrazioni delle quali il Signor Leibniz ed altri studiosi di Meccanica si sono avvalsi in questa controversia, insieme ad alcune considerazioni preliminari riguardanti la forza dei corpi in generale.
In esso è affrontata la celebre querelle delle forze vive, occasionata a sua volta da Leibniz nel 1686 sul tema cartesiano della conservazione della quantità di moto (rhopé, momentum), tema, questo, di chiara matrice aristotelica (vedi le Meccaniche) e ripreso da Galileo Galilei nelle sue Mecaniche (1593 ca.), tradotte a loro volta in francese da Marin Mersenne nel 1634 ed analizzate quindi da Descartes – su invito dello stesso Mersenne e di Constatin Huygens – nel 1637 e nel 1638.
È questo il primo momento sintetico della speculazione kantiana, in cui è affrontato il duplice tema della natura e della misura della forza, e della sua conservazione nelle variazioni fisiche dell'Universo.
La riflessione ivi condotta analizza quelle tematiche esposte in numerosi scritti successivi di natura scientifica, quali ad esempio la natura dello spazio e del tempo.
Il rapporto tra forza, sostanza e la conseguente costituzione dello spazio; la costituzione della materia; il rapporto foronomico e dinamico tra spazio, tempo, materia, velocità e forza; la possibilità dell'esistenza simultanea di più mondi e la natura dell'Universo; l'introduzione del concetto di quantità negative in Fisica; e questioni di natura epistemologica, come il problema della fondazione della Meccanica ed il suo rapporto con la Dinamica, o ancora la questione epistemologica "classica" circa il rapporto tra osservazione empirica discreta e deduzione della legge nel continuum.
Oltre ad anticipare numerosi temi che saranno affrontati analiticamente in opere successive, tale opera dimostra già inequivocabilmente l'indirizzo programmatico della ricerca scientifica di Kant, volta, fin dal suo primo scritto, al perseguimento di una descrizione 'sistematica' dell'Universo, antecedentemente determinata (a priori), secondo l'indirizzo programmatico della Scienza 'classica', vale a dire in assoluta conformità rispetto alla legge di causalità (nel continuum) ed al principio di ragion sufficiente, secondo cui: posita ratione ponitur rationatum.
Nel 1755 con la tesi di laurea Principiorum Primorum cognitionis metaphysicae nova delucidatio ottenne la licenza di magister, mansione che esercitò per quindici anni.
Non aveva però ancora uno stipendio fisso, in quanto pagato direttamente dagli studenti, e ciò lo obbligava a lavorare molto; preparava meticolosamente le lezioni, dimostrandosi un buon insegnante, piacevole da ascoltare.
L'ipotesi cosmogonica della nebulosa solare primitiva, esposta nel 1755 nella Storia universale della natura e teoria del cielo (che egli desunse da Buffon e da altre fonti, in particolare dal materialismo antico di Democrito, Epicuro e Leucippo), ebbe molta fortuna e gli diede fama anche nel campo dell'astronomia.
Essa fu enunciata proprio da Laplace che la rielaborò e la rilanciò nel 1796 nella Exposition du système du monde (Esposizione del sistema del mondo).
Un altro suo curioso contributo alla scienza fu costituito da una sua ipotesi circa, come diremmo oggi, una sorta di buco nero - singolarità, ante litteram, laddove Kant afferma:
«Se l'attrazione agisce sola, tutte le parti della materia dovrebbero avvicinarsi sempre più, e diminuirebbe lo spazio che occupano le parti unite, di modo che si riunirebbero finalmente in un solo punto matematico».
Nel 1770 lavorò come vice-bibliotecario presso la Reale Biblioteca, stesso anno in cui pubblicò la Dissertazione (De mundi sensibilis atque intellegibilis forma et principiis), testo grazie al quale riuscì a ottenere la cattedra di metafisica e logica all'Università di Königsberg.
Da questo anno iniziò a lavorare a quel progetto che si concluderà nel 1781 con la pubblicazione della Critica della Ragion pura.
Nel 1771 scriveva al suo allievo Marcus Herz:
«sono attualmente occupato a comporre, con una certa cura ed ampiezza di dettagli, un’opera dal titolo I limiti della sensibilità e della ragione».
Kant quindi pensava di scrivere una sola grande opera, che avrebbe voluto intitolare Die Grenzen der Sinnlichkeit und der Vernunft (I limiti della sensibilità e della ragione), che poi invece dividerà nelle tre Critiche: la Critica della ragion pura, la Critica della ragion pratica e la Critica del giudizio.
All'università Kant inizia a sviluppare un pensiero originale, come poi accadrà per gli idealisti Fichte, Schelling e Hegel.
Kant continuò ad insegnare sino al 1796 (l'ultima lezione, sulla logica, è del 23 luglio), compiendo con scrupolosità i suoi obblighi accademici anche quando, per debolezza senile, gli divennero estremamente gravosi.
Herder, che fu suo allievo negli anni 1762-67, ha lasciato questa immagine di lui:
«Io ho avuto la felicità di conoscere un filosofo, che fu mio maestro. Nei suoi anni giovanili, egli aveva la gaia vivacità di un giovane, e questa, credo, non lo abbandonò neppure nella tarda vecchiaia. La sua fronte aperta, costruita per il pensiero, era la sede di una imperturbabile serenità e gioia; il discorso più ricco di pensiero fluiva dalle sue labbra; aveva sempre pronto lo scherzo, l'arguzia e l'umorismo, e la sua lezione erudita aveva l'andamento più divertente. Con lo stesso spirito col quale esaminava Leibniz, Wolff, Baumgarten, Crusius, Hume, e seguiva le leggi naturali scoperte da Newton, da Keplero e dai fisici, accoglieva anche gli scritti allora apparsi di Rousseau, il suo Emilio e la sua Eloisa, come ogni altra scoperta naturale che venisse a conoscere: valorizzava tutto e tutto riconduceva a una conoscenza della natura e al valore morale degli uomini priva di pregiudizi. La storia degli uomini, dei popoli e della natura, la dottrina della natura, la matematica e l'esperienza, erano le sorgenti che avvivavano la sua lezione e la sua conversazione. Nulla che fosse degno di essere conosciuto gli era indifferente; nessuna cabala, nessuna setta, nessun pregiudizio, nessun nome superbo, aveva per lui il minimo pregio di fronte all'incremento e al chiarimento della verità. Egli incoraggiava e costringeva dolcemente a pensare da sé; il dispotismo era estraneo al suo spirito. Quest'uomo, che io nomino con la massima gratitudine e venerazione, è Immanuel Kant: la sua immagine mi sta sempre dinanzi»
La vita di Kant, priva di avvenimenti notevoli, fu dedicata interamente alle attività intellettuali, a cui fece da cornice uno stile di vita regolare e abitudinario.
La sua giornata cominciava alle cinque, subito dedicata al lavoro, e continuava con la colazione, poi una passeggiata, il riposo alle dieci.
Non lasciò mai la sua città natale, neanche dopo la chiamata dell'Università di Halle che gli offriva uno stipendio più alto, un maggior numero di studenti e di conseguenza anche maggior prestigio.
Era convinto che Königsberg fosse il posto ideale per i suoi studi.
Il rigorismo della sua dottrina morale e suo celebre ritiro dalla vita mondana ha favorito il fiorire di leggende sulla sua condotta di vita: si dice che egli stesso si imponesse rigide regole per le quali tutte le sere andava a dormire alle dieci in punto, per alzarsi alle cinque meno cinque del mattino seguente, senza mai anticipare o ritardare l'ora.
Altresì, si racconta che i suoi concittadini regolassero gli orologi basandosi sulla sua routine quotidiana.
La costanza richiesta dagli studi unita al contenuto della sua etica si sono fuse nella celebre leggenda del suo abitudinario e regolare stile di vita.
L'unico fatto che uscì davvero fuori dai canoni di una vita completamente dedicata allo studio fu lo screzio che ebbe con il governo prussiano a seguito della seconda edizione, pubblicata nel 1794, dell'opera La religione entro i limiti della semplice ragione, ma con l'incoronazione di Federico Guglielmo III la libertà di stampa venne ripristinata e Kant rivendicò la libertà di pensiero nel Conflitto delle facoltà, del 1798.
Morì nel 1804, dopo essere stato colpito, a partire dal 1798, da un decadimento delle funzioni cognitive ed altri disturbi che permettono di ipotizzare che fosse affetto da Alzheimer o comunque da un'altra malattia neurodegenerativa.
La sua ultima frase fu: "Es ist gut" ("Va bene").
È stato sepolto in un piccolo mausoleo, nell'angolo nord-est della Cattedrale di Königsberg, odierna Kaliningrad.
Sulla sua tomba vi è un epitaffio che recita l'explicit della Critica della ragion pratica:
«Zwei Dinge erfüllen das Gemüt mit immer neuer und zunehmender Bewunderung und Ehrfurcht, je öfter und anhaltender sich das Nachdenken damit beschäftigt: Der bestirnte Himmel über mir und das moralische Gesetz in mir».
[«Due cose riempiono la mente con sempre nuova e crescente ammirazione e rispetto, tanto più spesso e con costanza la riflessione si sofferma su di esse: il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me»]
La nascita del punto di vista trascendentale
Il periodo precritico
L'attività di Kant si suole dividere in due principali periodi: il periodo precritico e il periodo critico.
Ricerche recenti hanno molto attenuato l'opposizione che Kant stesso mise in rilievo tra un periodo e l'altro.
Tuttavia una svolta decisiva, intorno al 1769, senza dubbio ci fu; e, anche se i propositi rimasero gli stessi, solo dal 1770 in poi gli elementi di quella che siamo soliti considerare come filosofia kantiana cominciarono a configurarsi.
Prima del '70 Kant ebbe varie e frequenti oscillazioni di pensiero, subendo l'influsso, di volta in volta, di Leibniz, di Locke, di Hume.
Si entusiasma per Emilio di Rousseau, seguendo con interesse i moralisti tedeschi (Crusius) e inglesi, senza tuttavia aderire strettamente a nessuna di queste posizioni.
A volte gli parve di poter costruire la metafisica "sinteticamente" cio è come si costruisce la geometria, per definizioni e teoremi; altre volte ritenne che la filosofia potesse essere soltanto "analisi", e fosse incapace di darsi un contenuto suo proprio.
Dapprima gli parve che un approfondimento dei problemi di fondo della fisica potesse offrire la chiave della comprensione dell'essere (cfr. ad esempio, la Monadologia fisica, del 1756).
Poi, sotto l'influsso degli inglesi, si interessò sempre più al problema gnoseologico, che diventerà il suo preferito (cfr., ad esempio, l'Indagine sulla chiarezza dei principi della teologia naturale e della morale, del 1764).
Da ultimo giunse a pensare che la metafisica potesse avere una funzione solo come "scienza dei limiti della ragione umana"; e che, fuori di ciò, non potesse abbandonarsi a sogni, in tutto simili ai sogni di un visionario quale Swedenborg (l sogni di un visionario chiariti con i sogni della metafisica, 1766).
Come, però, codesta "scienza dei limiti" potesse stabilirsi, cominciò a farsi chiaro nella mente di Kant solo nel 1769, grazie a una scoperta che, come dice lui stesso, gli portò "una gran luce".
Tanto che, nel 1770, egli scriveva all'amico Lambert: "Da un anno mi lusingo di essere giunto a una concezione che credo non dovrò cambiare mai [...] e che permetterà di esaminare tutte le questioni meta fisiche con un criterio facile e sicuro".
Vediamo dunque in che cosa quella "scoperta" consistesse.
Kant si era sempre molto interessato ai problemi dello spazio e del tempo: a volte accostandosi a Leibniz, secondo cui spazio e tempo sono solo relazioni di ordine tra le sostanze, altre volte a Newton, secondo cui spazio e tempo sono qualcosa di assoluto, di indipendente dai corpi che contengono.
In un saggio del 1768, Sul fondamento primo della distinzione delle regioni dello spazio, Kant difese questo secondo punto di vista.
Ma poi, considerando meglio in che cosa potesse consistere quell'affermata indipendenza dello spazio dai suoi contenuti, giunse alla conclusione che lo spazio vuoto non può avere un'esistenza in sé, quasi fosse una realtà.
La sua indipendenza dai contenuti è dovuta al fatto che lo spazio è un nostro mezzo di ricezione dell'esperienza, cioè una forma, predisposta in noi, in cui riceviamo e ordiniamo le impressioni sensibili.
La forma in cui riceviamo i contenuti dell'esperienza è, perciò stesso, indipendente da tali contenuti: anzi, li condiziona.
Ne viene che lo spazio non contiene, come credeva Newton, la realtà delle cose in se stesse, ma solo gli oggetti in quanto ricevuti dalla nostra apprensione.
Lo stesso dicasi del tempo.
La dissertazione del '70
La Dissertazione presentata per la libera docenza, Sulla forma e i principi del mondo sensibile e intelligibile (1770), segna l'inizio della fase costruttiva del pensiero kantiano, anche se ciò che egli si accinge a costruire è una teoria critica, non più però nel senso di critica alle filosofie altrui, bensì nel senso di esame critico della conoscenza umana, al fine di stabilirne il valore e i limiti.
Questa teoria sarà poi chiamata «criticismo» kantiano.
La Dissertazione parte dal presupposto, allora diffuso nella filosofia tedesca, che vi siano due mondi del tutto distinti fra loro, quello sensibile, oggetto della sensibilità, e quello intelligibile, oggetto dell'intelletto.
La sensibilità, afferma Kant, è una facoltà puramente passiva, cioè è la capacità di essere affetti, o modificati, dalle cose esterne, e ci fa conoscere non le cose, ma le affezioni, o modificazioni, che le cose producono sui nostri sensi.
Essa dunque non ha per oggetto le cose come realmente sono (sicuti sunt), ma le cose come appaiono a noi (sicuti apparent), cioè il fenomeno (phainòmenon, dal verbo greco phàinomai, apparire).
Si noti che qui Kant usa il termine fenomeno in un senso diverso da quello in cui lo usava Aristotele, al quale risale, cioè non come manifestazione della realtà stessa attraverso l'esperienza (phàinomai in greco significa anche «manifestarsi»), bensì come mera apparenza, diversa dalla realtà.
L'intelletto, invece, è la facoltà di pensare il mondo intelligibile, cioè di riferire i propri concetti a oggetti non sensibili, i quali costituiscono la vera realtà.
Quest'ultima è detta pertanto noumeno, che significa realtà pensata (noùmenon, dal verbo greco noèin, pensare).
Vediamo qui una posizione di tipo chiaramente platonico, secondo cui la vera realtà non è quella che appare ai sensi, ma quella che viene pensata dall'intelletto, e tra l'una e l'altra non c'è passaggio, cioè per conoscere la realtà intelligibile non si può passare attraverso la conoscenza di quella sensibile.
Nella Dissertazione del 1770 però Kant non spiega come si giunga a conoscere la realtà intelligibile, cosa che doveva sembrargli alquanto difficile dopo le sue critiche alla metafisica wolffiana.
La scoperta originale contenuta nella Dissertazione è la spiegazione, data da Kant, di come si giunge a conoscere, e a conoscere scientificamente, cioè in modo sicuro, controllabile, incontestabile, la realtà sensibile.
Quest'ultima, infatti, era l'oggetto della fisica newtoniana, cioè della fisica-matematica, della cui scientificità Kant era assolutamente convinto.
Ebbene, ciò che ci permette di avere una conoscenza scientifica della realtà sensibile, afferma Kant, è il fatto che le nostre sensazioni sono rese possibili da due condizioni, le quali non sono a loro volta ricavate dalle sensazioni, cioè sono a priori, vale a dire anteriori ad esse, ossia lo spazio e il tempo.
Come tali, queste condizioni non dipendono dalle sensazioni, cioè non sono soggettive, non variano da soggetto a soggetto, ma sono universali e necessarie, cioè uguali per tutti, e in questo senso sono oggettive.
Lo spazio è la condizione delle sensazioni esterne, come risulta dal fatto che non possiamo percepire un oggetto fuori di noi senza collocarlo in un determinato punto dello spazio, e il tempo è la condizione delle sensazioni sia esterne che interne, come risulta dal fatto che non possiamo percepire nessun oggetto, né fuori di noi né dentro di noi, senza collocarlo in un determinato momento del tempo.
Applicando la terminologia di Lambert, Kant chiama le sensazioni materia della conoscenza sensibile e lo spazio e il tempo forme di essa.
Egli precisa che queste forme sono oggetto, a loro volta, di conoscenza immediata, cioè sono intuizioni, ma si tratta di intuizioni pure, cioè non contaminate dalle sensazioni, perché le precedono, cioè sono indipendenti da ogni sensazione.
La prova che noi abbiamo l'intuizione pura dello spazio e del tempo è fornita dalle scienze matematiche, cioè rispettivamente dalla geometria, che è scienza dei rapporti spaziali (linee, superfici, grandezze) e prescinde dall'esperienza, e dall'aritmetica, che è scienza dei rapporti numerici, cioè implicanti il contare, vale a dire la successione temporale, e ugualmente prescinde dall'esperienza.
È appunto in virtù delle intuizioni pure dello spazio e del tempo, cioè del loro carattere universale e indipendente dalle sensazioni, che la geometria e l'aritmetica, cioè le matematiche, sono scienza; ma lo spazio e il tempo, in quanto sono condizioni delle sensazioni, ci permettono di avere scienza anche della realtà sensibile, precisamente quella scienza che è chiamata meccanica razionale, cioè la fisica-matematica fondata da Galilei e portata alla sua perfezione da Newton.
Naturalmente gli aspetti della realtà sensibile di cui in tal modo abbiamo scienza sono solo quelli quantitativi, vale a dire le tradizionali qualità primarie, mentre di tutti gli altri aspetti non si dà alcuna scienza.
In ogni caso si tratta di scienza del fenomeno, ossia non della realtà in sé, bensì di come la realtà appare a noi, e tuttavia si tratta di autentica scienza, cioè di un sapere universale e necessario, quanto lo sono appunto le matematiche.
Si noterà, infine, come Kant con questa dottrina dello spazio e del tempo come intuizioni pure prenda le distanze sia da Newton, che concepiva lo spazio e il tempo come realtà assolute, cioè esistenti in sé, sia da Leibniz, che li concepiva come semplici relazioni tra i corpi, esistenti solo in questi ultimi.
Per Kant lo spazio e il tempo esistono propriamente solo nel soggetto conoscente, tuttavia hanno un carattere di universalità e necessità che li rende del tutto indipendenti dalle sensazioni degli oggetti fisici.
La Critica della ragion pura
Nella prefazione alla prima edizione di quest'opera, nel 1781, Kant dichiara subito che la metafisica, in quanto espressione dell'aspirazione della ragione a conoscere realtà che trascendono l'esperienza, è diventata un «campo di lotte senza fine», il che induce a dubitare fortemente della sua scientificità.
Per accertare quale sia il suo valore, è necessario pertanto istituire un «tribunale della ragione», cioè sottoporre la ragione a una «critica», ovvero ad un esame, il quale accerti le sue capacità di conoscere, ovvero l'estensione e i limiti delle sue conoscenze.
La ragione che viene sottoposta a tale critica è detta «ragione pura», perché è la facoltà che aspira a conoscere indipendentemente da ogni esperienza, cioè la facoltà con cui si vuole fare metafisica.
Nella prefazione alla seconda edizione (1787), Kant precisa che la matematica e la fisica, a differenza della metafisica, sono sicuramente scienze e lo sono diventate nel momento in cui si è compiuta al loro interno una specie di rivoluzione, cioè si è compreso che non è il soggetto conoscente che deve adeguarsi all'oggetto da conoscere, bensì è quest'ultimo che deve adeguarsi al soggetto conoscente.
In altre parole, si è compreso che la ragione conosce scientificamente, cioè a priori, con universalità e necessità, un oggetto solo quando essa cerca in tale oggetto ciò che essa stessa vi ha posto, ossia i suoi stessi concetti, i quali sono appunto a priori, cioè universali e necessari.
Ciò è accaduto alla matematica quando i Greci (Talete, Pitagora, Euclide, ecc.) hanno capito che, per avere scienza, ad esempio, delle figure geometriche, bisognava costruirle a priori, per mezzo di definizioni, e dedurre le loro proprietà da queste definizioni.
Ed è accaduto alla fisica quando Galilei ha capito che, per avere scienza della natura, bisogna interrogarla mediante l'esperimento e vedere se essa si comporta o meno secondo le leggi che la ragione stessa ha costruito, cioè le leggi matematiche.
In entrambi i casi si è compiuta, osserva Kant, una specie di rivoluzione copernicana, cioè si è rovesciato il rapporto tradizionale tra il soggetto e l'oggetto.
Come Copernico, vedendo che non riusciva a spiegare i moti degli astri facendoli girare attorno all'osservatore, li ha spiegati facendo girare l'osservatore attorno ad essi.
Così la ragione, se vede che i suoi concetti non riescono a regolarsi sulle cose, cioè a conoscere con sicurezza come le cose sono in se stesse, deve ammettere che le cose siano regolate dai suoi concetti, cioè deve limitarsi a conoscere ciò che essa stessa, per mezzo dei suoi concetti a priori, mette nelle cose.
In tal caso il vero oggetto della ragione non sono più le cose in se stesse, bensì ciò che la ragione stessa ha messo nelle cose.
È possibile questo, si chiede Kant, anche alla metafisica, la quale non dispone né delle intuizioni pure proprie della matematica, né della possibilità di ricorrere ad esperimenti propria della fisica? Questo è il problema della Critica.
Estetica trascendentale
Il termine estetica, introdotto da Baumgarten per indicare la scienza del bello, è ricondotto da Kant al suo significato di «scienza della sensibilità», in conformità col significato che il termine àisthesis ha in greco, cioè sensazione o percezione sensoriale.
La sensibilità, dice Kant, è la facoltà attraverso cui gli oggetti ci sono dati, cioè modificano in qualche modo il nostro spirito.
Gli atti conoscitivi propri della sensibilità sono le intuizioni, conoscenze immediate, dirette, dei loro oggetti: questi ultimi, però, non sono gli oggetti esterni, cioè le cose esistenti in sé, bensì gli effetti che questi producono sulla nostra sensibilità, cioè le modifiche che i nostri sensi patiscono ad opera delle cose esterne.
Per questo carattere di immediatezza, la conformità delle intuizioni ai loro oggetti non è mai un problema, ma è sempre fuori discussione.
Ciò tuttavia accade solo nel caso della conoscenza sensibile, la quale ha appunto per oggetto le modifiche che le cose producono su di noi.
Per Kant, dunque, le intuizioni possono essere solo sensibili, cioè solo la sensibilità può intuire, l'intelletto non ha intuizioni, non esistono intuizioni intellettuali, perché l'intelletto non è direttamente in contatto con i suoi oggetti, cioè con le realtà intelligibili.
Le intuizioni sensibili, o intuizioni empiriche, sono tuttavia rese possibili, come abbiamo già visto a proposito della Dissertazione del 1770, dalle intuizioni pure, cioè dallo spazio e dal tempo, che di esse costituiscono la forma, mentre le sensazioni propriamente dette, cioè le modifiche prodotte negli organi di senso, ne costituiscono la materia.
Lo spazio ed il tempo, prosegue Kant, non sono infatti concetti di origine empirica, perché precedono tutte le rappresentazioni empiriche, ma sono dati a priori come condizioni necessarie di queste.
Essi non sono proprietà delle cose in sé, ma di essi si può parlare solo dal punto di vista dell'uomo, perché abbracciano tutte e solo le cose che possono apparire all'uomo.
Si può dire che spazio e tempo hanno una «realtà empirica», nel senso che rispetto all'esperienza (vale a dire al fenomeno) sono reali, ma rispetto alle cose in sé essi hanno un'«idealità trascendentale», cioè esistono solo nella mente umana come sue forme, appunto, trascendentali.
Infine lo spazio e il tempo, conclude Kant, sono condizioni di giudizi sintetici a priori, come è dimostrato, nel caso dello spazio, dalla geometria, la quale determina le proprietà dello spazio sia sinteticamente, cioè con giudizi sintetici, sia a priori, cioè con giudizi dotati di validità universale e necessaria, e nel caso del tempo, dall'aritmetica, a proposito della quale si può dire altrettanto.
Spazio e tempo, dunque, sono le condizioni che permettono alla matematica di essere una conoscenza pura, universale e necessaria, cioè di essere scienza.
Si è così risposto al primo dei tre problemi della Critica.
Ma al tempo stesso si è chiarito in quale senso la matematica è una scienza, non cioè nel senso che essa ci faccia conoscere le cose come sono in se stesse, bensì nel senso che essa ci fa conoscere le cose come appaiono a noi, ossia il fenomeno.
Ogni nostra intuizione, afferma Kant, non è che la rappresentazione di un fenomeno; che cosa siano le cose in sé, separate dalla ricettività dei nostri sensi, ci rimane affatto ignoto.
Noi conosciamo solo il nostro modo di percepirle, che ci è peculiare ed appartiene a tutti gli uomini.
La matematica, insomma, ci permette di avere scienza, cioè conoscenza universale e necessaria, di quegli aspetti del mondo sensibile che si lasciano ricondurre a rapporti di spazio e di tempo, cioè degli aspetti quantitativi, ma questi non costituiscono affatto l'essenza intima delle cose, che ci rimane ignota.
Con questa dottrina Kant per un verso si colloca al culmine del matematismo moderno, perché dà assolutamente per scontato il carattere scientifico, ossia universale e necessario, della matematica.
Ma per un altro verso indica con chiarezza i limiti dello stesso matematismo, perché mostra che la matematica può essere scienza, ossia conoscenza universale e necessaria.
Precisamente in quanto non è conoscenza di come le cose stanno in se stesse, bensì soltanto di certi aspetti delle cose che appaiono soltanto a noi, vale a dire gli aspetti quantitativi.
In tal modo egli concilia il carattere convenzionale della matematica, rilevato già da Hobbes e da Vico, col suo carattere scientifico, dove per scientificità non si intende più la conformità assoluta di una conoscenza ad un oggetto in sé, ma semplicemente l'universalità e la necessità di tale conoscenza, cioè la sua validità per tutti i possibili soggetti.
Logica trascendentale
La Logica trascendentale, come abbiamo visto, è lo studio delle forme a priori della seconda grande fonte della conoscenza umana, cioè l'intelletto.
Essa si distingue dalla logica generale, cioè da quella che per Kant è la logica aristotelica, perché non si limita, come quest'ultima, allo studio degli elementi della conoscenza intellettiva (concetti, giudizi, sillogismi) considerati in se stessi, prescindendo dal loro rapporto con l'oggetto (logica formale), ma li studia come forme della conoscenza degli oggetti, cioè determina l'estensione e la validità della conoscenza a priori degli oggetti.
La logica generale, secondo Kant, si distingueva in una analitica, o studio degli elementi del pensiero al fine di determinarne le regole d'uso, e quindi «canone», vale a dire regola, del pensiero, e in una dialettica, o uso illegittimo di tali regole come «organo», vale a dire strumento, per la produzione di conoscenze, le quali non possono essere che false.
Qui Kant interpreta secondo una certa manualistica del Settecento la distinzione aristotelica tra analitica e dialettica, identificando però quest'ultima con la sofistica.
Egli la definisce, infatti, anche «logica dell'apparenza» e «arte sofistica di dare alle proprie volontarie illusioni la tinta della verità», pur riconoscendo che il nome di dialettica può essere usato anche per indicare la critica di tale apparenza (e così la intendeva, infatti, Aristotele).
Anche la logica trascendentale si divide, analogamente, in una Analitica trascendentale, la quale studia gli elementi del pensiero nel loro rapporto con gli oggetti e dimostra, come vedremo, che essi possono essere applicati solo agli oggetti di esperienza, e in una Dialettica trascendentale, la quale pretende di usare tali elementi per conoscere oggetti che stanno al di là dell'esperienza, facendone in tal modo un uso illegittimo, che produce non conoscenze, ma illusioni.
Con questo significato di dialettica trascendentale Kant si riferisce, come vedremo, ad una certa metafisica, cioè quella wolffiana che era molto diffusa nella Germania del ‘700.
Tuttavia, appellandosi al secondo significato di dialettica proprio della logica generale («critica dell'apparenza»), egli si ritiene autorizzato a chiamare Dialettica trascendentale la critica che egli stesso muove al suddetto uso illegittimo degli elementi del pensiero, cioè l'ultima parte della sua dottrina trascendentale degli elementi.
Analitica trascendentale
Gli elementi del pensiero sono costituiti anzitutto dai concetti, perciò Kant espone anzitutto l'«analitica dei concetti».
Egli tuttavia non si occupa dei concetti empirici, cioè ricavati per astrazione dalle rappresentazioni empiriche (quelli, per intenderci, di cui parlava la Scolastica), bensì dei concetti puri, cioè a priori, che precedono l'esperienza.
Questi, secondo Kant, sono ciò che permette all'intelletto di collegare tra loro le rappresentazioni, o intuizioni, empiriche (già organizzate, dunque, nello spazio e nel tempo), per formulare dei giudizi.
La funzione dell'intelletto infatti, secondo Kant, è essenzialmente quella di giudicare, cioè di unificare tra loro le rappresentazioni empiriche, mediante giudizi sintetici a priori. I giudizi dell'intelletto, però, non sono più quelli della matematica, che si limitano a calcolare rigorosamente gli aspetti quantitativi delle rappresentazioni.
Essi collegano tra loro rappresentazioni diverse, in virtù, certo, dei loro aspetti quantitativi, ma secondo un ordine più complesso, che è quello espresso dalle leggi fisiche.
I giudizi in questione, pertanto, sono quelli della fisica.
Ebbene, ciò che permette tali giudizi, ossia ciò che collega tra loro in modo universale e necessario le rappresentazioni empiriche, sono appunto i concetti puri dell'intelletto.
Questi sono pertanto delle forme, delle condizioni a priori dei giudizi, di cui le rappresentazioni empiriche costituiscono la materia.
Essi sono ciò che, nel giudizio sintetico a priori, costituisce il «legame» (Verbindung), appunto, a priori, tra il soggetto e il predicato, cioè tra le rappresentazioni empiriche.
Si noti che, unificando tra loro le rappresentazioni per mezzo dei concetti, l'intelletto «riferisce» tali rappresentazioni ai loro oggetti, cioè alle cose di cui esse sono rappresentazioni, ed in tal modo «pensa» tali oggetti, che in se stessi rimangono sconosciuti.
L'intelletto, insomma, si comporta come un soggetto che riceva dei messaggi, per esempio delle lettere (le rappresentazioni empiriche), da un corrispondente a lui sconosciuto (la cosa in sé), e cerchi di ricostruire l'identità di questo sconosciuto collegando tra di loro tutti i suoi messaggi.
In questo senso l'unificare i messaggi, cioè le rappresentazioni, è l'unico modo per riuscire a pensare, cioè a identificare, il loro autore.
La procedura atta a rintracciare e a scoprire i concetti puri dell'intelletto muove dallo studio e dall'analisi del giudizio.
Se vi sono concetti puri, osserva Kant, si daranno infatti anche giudizi puri, non originati dall'esperienza.
Ripercorrendo a ritroso il processo della sintesi, Kant deduce perciò le categorie dalle tipologie che il giudizio assume, una volta considerato nella sua funzione logica, astraendo cioè da ogni suo contenuto.
Al riguardo, Kant utilizza distinzioni già predisposte dalla logica tradizionale, intervenendo però anche con alcune aggiunte e precisazioni.
Egli classifica allora tutti i giudizi puri:
• per quantità in universali (Tutti gli A sono B), particolari (Qualche A è B) e singolari (Questo A è un B);
• per qualità in affermativi (A è B), negativi (A non è B), infiniti (A è non B);
• per relazione in categorici (ad A inerisce B), ipotetici (se A allora B) e disgiuntivi (o A o B);
• per modalità in problematici (è possibile che A sia B), assertori (A è realmente B) e apodittici (è necessario che A sia B).
Di seguito Kant si sofferma sulle novità introdotte dalla sua classificazione.
Rispetto alle distinzioni tradizionali, egli ha infatti introdotto anche i giudizi singolari, che solitamente vengono invece ricompresi dai logici entro la classe dei giudizi universali.
Kant ritiene tuttavia legittimo operare una differenziazione tra queste tipologie di giudizio in virtù della loro evidente diversa estensione conoscitiva (universale l'una, singolare l'altra).
Egli ha poi individuato anche dei giudizi infiniti che indicano una limitazione della conoscenza, non espressa invece dai noti giudizi affermativi e negativi.
Kant esemplifica al riguardo facendo notare che sebbene il giudizio «l'anima è non mortale» si comporti da un punto di vista logico come un giudizio affermativo, esso non esprime tuttavia una conoscenza definita; ma si limita a sottrarre l'anima dalla sfera di ciò che è mortale, senza definire però cosa essa sia, lasciandole la possibilità di essere infinite altre cose.
Per i giudizi di relazione, Kant spiega che quelli disgiuntivi non costituiscono un semplice elenco di elementi (due o più) tra loro in opposizione, bensì esprimono un inventario di alternative da considerarsi come esaustivo di tutti i casi possibili.
A questo proposito l'esempio di Kant è dato dal giudizio "il mondo esiste o per opera del cieco caso, o per interna necessità, o per una causa esterna".
Queste disgiunzioni nel loro insieme occupano tutte le alternative possibili sulla nostra conoscenza intorno all'esistenza del mondo, senza lasciar spazio ad altre spiegazioni.
Infine, egli osserva che la modalità dei giudizi riguarda il valore di verità ad essi attribuito, ossia il diverso grado di validità posseduto dalla copula «è» che connette soggetto e predicato.
Kant chiama perciò giudizi apodittici (dal greco apodeiktikós, «dimostrativo», «che convince») quelle sintesi che nell'ambito della certezza stabiliscono anche la necessità e non soltanto la mera verità assertoria, ossia data, reale del giudizio.
Poiché in generale il giudizio è sempre una sintesi tra un soggetto e un predicato, a questi dodici giudizi puri corrispondono altrettanti concetti puri:
giudizi: universali, particolari, singolari
quantità
categorie: unità, pluralità, totalità
giudizi: affermativi, negativi, infiniti
qualità
categorie: realtà, negazione, limitazione
giudizi: categorici, ipotetici, disgiuntivi
relazione
categorie: inerenza, causalità, reciprocità
giudizi: problematici, assertori, apodittici
modalità
categorie: possibilità, esistenza e contingenza
È così la categoria di unità ad originare tutti i giudizi della forma: Tutti gli A sono B.
Mentre è la categoria di realtà ad operare la sintesi in tutti i giudizi affermativi: A è B.
Così come è la categoria di causalità ad originare i giudizi puri ipotetici della forma: Se A allora B, in cui il primo termine è la causa e il secondo l'effetto.
La categoria di sostanza e accidente produce giudizi in cui tra due termini si stabilisce un rapporto di inerenza e sussistenza, per cui l'uno non può essere pensato se non come appartenente all'altro.
Ebbene, se i concetti puri sono in funzione dei giudizi, cioè servono a permettere l'unificazione tra le rappresentazioni operata dai giudizi, essi corrisponderanno ai dodici tipi fondamentali di giudizio, divisi secondo i loro quattro caratteri fondamentali (quantità, qualità, relazione e modalità).
Avremo così dodici concetti puri o, come dice Kant riprendendo il termine aristotelico, categorie, cioè tre per la quantità (unità, pluralità, totalità), tre per la qualità (realtà, negazione, limitazione), tre per la relazione (sostanza-accidente, causa-effetto, azione reciproca) e tre per la modalità (possibilità, esistenza, necessità).
In tal modo Kant ha «dedotto» le sue categorie dai tipi di giudizio classificati dalla stessa logica aristotelica (egli parla a questo proposito di «deduzione metafisica»), cioè ha mostrato che esse devono essere necessariamente tante e tali, mentre Aristotele ne ha dato, come lo stesso Kant gli rimprovera, una semplice esposizione «rapsodica», cioè disordinata, non necessaria.
Tale differenza è dovuta al fatto che le categorie di Aristotele, per quanto siano i generi più universali, sono pur sempre ricavate dall'esperienza, mentre quelle di Kant sono del tutto a priori, cioè sono forme, o strutture, dell'intelletto, e quindi devono avere un ordine razionale.
Si noti che tra le categorie della relazione Kant indica il concetto di sostanza e il concetto di causa, cioè i due concetti che più erano stati contestati dalla filosofia moderna, specialmente empiristica, e che tuttavia stanno alla base della scienza della natura, cioè della fisica.
Facendone dei concetti a priori, Kant nega, con Hume, che essi possano essere desunti dall'esperienza, ma non per questo li priva di qualsiasi valore, anzi attribuisce loro precisamente il valore di condizioni universali e necessarie della stessa esperienza.
Pertanto le leggi fisiche, basate sulla relazione di causa ed effetto, lungi dall'essere soltanto l'espressione di un'abitudine psicologica, come sosteneva Hume, hanno un valore universale e necessario, cioè sono autentiche leggi scientifiche, e quindi le categorie sono ciò che rende possibile la fisica come scienza.
È così risolto anche il secondo problema della Critica della ragion pura, pur se la fisica risulta essere anch'essa, come la matematica, scienza soltanto del fenomeno, cioè non di come le cose stanno in sé, ma di come le cose appaiono a noi.
È vero, infatti, che le categorie conferiscono ai giudizi della fisica un valore universale e necessario, ma a condizione che questi unifichino delle rappresentazioni empiriche, cioè appunto dei fenomeni.
Di tali fenomeni, tuttavia, è possibile avere autentica scienza, cioè conoscerne l'ordine necessario, proprio perché, come Kant diceva nella prefazione alla seconda edizione della Critica, questo ordine necessario è introdotto nell'oggetto, cioè nel fenomeno, dal soggetto stesso.
La fisica newtoniana subisce così lo stesso destino della matematica: è garantita da Kant come autentica scienza, ma soltanto di ciò che appare all'uomo.
Deduzione trascendentale
Resta da risolvere ora il problema più importante relativamente alle categorie, che non era stato affrontato nella Dissertazione del 1770 e la cui soluzione costituisce l'autentica scoperta compiuta dalla Critica della ragion pura.
Cioè: che cosa garantisce il «riferimento» delle categorie all'oggetto che sta oltre l'esperienza, ovvero su che cosa si fonda la validità dell'unità che le categorie, attraverso il giudizio, attribuiscono alle rappresentazioni di tale oggetto?
Rispondere a questa domanda significa, dice Kant, operare la deduzione trascendentale delle categorie, cioè giustificarle nella loro funzione di concetti capaci di riferirsi ad un oggetto che essi non ricavano dall'esperienza.
Il problema non si pone per le intuizioni pure, il cui riferimento ad un oggetto (il dato) è evidente, in quanto tale oggetto non può apparirci se non attraverso di esse.
La soluzione proposta da Kant al problema della deduzione trascendentale è che il fondamento, la garanzia di validità, la legittimazione dell'unità operata dalle categorie, è costituito dall'unità dello stesso soggetto pensante, cioè da quello che Kant chiama l'«io penso», ovvero l'Appercezione trascendentale.
Questo non è altro che la coscienza che noi abbiamo di noi stessi come soggetti pensanti, cioè la coscienza che tutte le nostre rappresentazioni appartengono ad una stessa coscienza, la nostra, ovvero il nostro «io».
Di ciò abbiamo una percezione che non è empirica, cioè non deriva dall'esperienza, perché è la condizione di ogni nostra esperienza: perciò Kant la chiama «appercezione pura», o «originaria», o «trascendentale».
Che essa sia la condizione di ogni nostra rappresentazione, anzi di ogni nostro giudizio, risulta chiaramente dal fatto che, qualsiasi giudizio noi formuliamo, per esempio «A è B», esso deve essere sempre accompagnato dalla dichiarazione «io penso», per esempio «io penso che A è B».
In tal modo Kant, ritenendo che l'intelletto non possa attingere direttamente l'oggetto delle varie rappresentazioni, e quindi non possa cogliere direttamente in questo l'unità che di diritto esso possiede, attribuisce al soggetto conoscente il diritto di conferire lui alle varie rappresentazioni l'unità che esse debbono avere per poter essere legittimamente ritenute rappresentazioni dell'oggetto.
Egli insomma sostituisce all'inattingibile unità dell'oggetto l'originaria unità del soggetto, mettendo, per così dire, al posto dell'oggetto, come fonte di unità delle sue rappresentazioni, il soggetto.
Questa è l'autentica «rivoluzione copernicana» di cui si parla nella prefazione alla seconda edizione della Critica.
Naturalmente l'unità in tal modo fondata ha tutto il diritto di essere considerata «oggettiva» perché è l'unica unità possibile: ma oggettiva non nel senso di appartenente all'oggetto, bensì nel senso di valida universalmente e necessariamente.
E il risultato dell'unificazione in tal modo stabilita, cioè l'oggetto dell'esperienza, ha tutto il diritto di essere considerato l'oggetto tout court dell'intelletto, perché è l'unico oggetto conoscibile.
Sempre a proposito dei concetti puri dell'intelletto, Kant si chiede che cosa permetta la loro applicazione alle rappresentazioni empiriche, dato che tra concetti e rappresentazioni c'è eterogeneità.
Schematismo trascendentale
La sua risposta è la dottrina dello schematismo dei concetti puri, cioè della necessità di un intermediario tra concetti puri e rappresentazioni sensibili, che renda possibile l'applicazione dei primi alle seconde.
Questo intermediario è detto da Kant «schema trascendentale» ed è individuato in una determinazione temporale, nel senso che è possibile collegare tra loro due rappresentazioni empiriche solo ammettendo tra loro un rapporto di tempo, per esempio una successione, o una simultaneità.
Tale schema, secondo Kant, è prodotto dall'immaginazione, che è una facoltà intermedia tra la sensibilità e l'intelletto e che ha quindi anche un carattere produttivo.
Infine Kant si chiede quali siano i princìpi supremi dell'intelletto, cioè i giudizi a priori supremi su cui si fondano tutti gli altri giudizi formulati per mezzo dei concetti puri.
È questa la cosiddetta «analitica dei princìpi», che costituisce la seconda parte dell'Analitica trascendentale.
Il principio supremo di tutti i giudizi analitici, dice Kant, è il principio di [non] contraddizione, da lui formulato come «a nessuna cosa conviene un predicato che la contraddica», dove resta escluso il riferimento al tempo contenuto nella formulazione aristotelica.
Tale principio, per Kant, ha un valore puramente formale, cioè è condizione soltanto negativa, vale a dire necessaria ma non sufficiente, della verità.
Invece il principio supremo di tutti i giudizi sintetici «a priori» è, come abbiamo visto, la stessa Appercezione trascendentale, cioè l'«io penso», che viene espresso nella seguente formulazione: «le condizioni della possibilità dell'esperienza in generale sono ad un tempo condizioni della possibilità degli oggetti dell'esperienza», dove le condizioni della possibilità dell'esperienza, cioè l'«io penso», e le categorie che su di esso si fondano, risultano essere, come abbiamo visto, princìpi costitutivi degli stessi oggetti dell'esperienza, poiché conferiscono alle rappresentazioni quell'unità che esse devono avere per essere rappresentazioni di un oggetto.
Si tenga presente che per «esperienza» Kant intende non la semplice intuizione sensibile, ma la conoscenza dell'ordine complessivo dei fenomeni, e per «oggetti dell'esperienza» ciascuno degli oggetti compresi in tale ordine.
Accanto ai princìpi supremi dell'intelletto vi sono anche dei princìpi più particolari, che corrispondono ai quattro tipi di categorie distinti da Kant: gli «assiomi dell'intuizione», le «anticipazioni della percezione», le «analogie dell'esperienza» e i «postulati del pensiero empirico».
I più interessanti tra essi sono le analogie dell'esperienza, che corrispondono alle categorie della relazione, e sono:
1) il principio della permanenza della sostanza,
2) la legge di causalità
3) la legge dell'azione reciproca.
Esse recuperano dunque, a livello di princìpi a priori, le principali leggi della meccanica newtoniana, confermando ancora una volta il carattere scientifico, cioè universale e necessario, di questa.
Kant può così concludere l'Analitica trascendentale mediante la distinzione di tutti gli oggetti in fenomeni e noumeni, dichiarando che l'intelletto può fare solo un uso empirico (cioè limitato all'esperienza) dei suoi concetti a priori, non mai un uso trascendente (cioè al di là dell'esperienza), ossia può applicar li solo a fenomeni, non mai a cose in sé.
Così, mentre nella Dissertazione del 1770 aveva stabilito che ci può essere scienza anche dell'esperienza, nella Critica della ragion pura stabilisce che ci può essere scienza solo dell'esperienza. Tuttavia anche delle cose in sé l'intelletto si fa una rappresentazione, tant'è vero che la contrappone al fenomeno chiamandola «noumeno».
Si tratta, però, di una rappresentazione del tutto. indeterminata, cioè negativa.
Il noumeno
Il noumeno, dice Kant, è tale, cioè pensato, solo in senso negativo, ossia solo come qualcosa che non è oggetto della nostra intuizione sensibile.
Di esso non abbiamo un'intuizione intellettuale, poiché questa è assolutamente fuori della nostra capacità conoscitiva.
Il concetto di noumeno, inoltre, è detto da Kant «problematico», ossia non contiene nessuna contraddizione, anzi è necessario, perché si connette con tutti gli altri concetti come esprimente una loro limitazione, ma la sua verità oggettiva non può essere in alcun modo conosciuta.
Il noumeno esprime il problema inevitabilmente connesso con la limitazione della nostra sensibilità, quello cioè di una realtà diversa da quella sensibile.
Esso insomma è un «concetto-limite» (Grenzbegriff), cioè serve a circoscrivere le pretese della sensibilità, ed in questo senso è inevitabile.
In altre parole, noi non possiamo conoscere la natura, cioè l'essenza, del noumeno, perciò non possiamo averne un concetto positivo.
Tuttavia ne conosciamo l'esistenza, precisamente come l'esistenza di qualcosa da cui provengono le nostre rappresentazioni e a cui esse devono essere riferite.
Questo, per Kant, è un fatto innegabile: poiché la conoscenza sensibile è passiva, deve esserci qualcosa da cui i sensi subiscono le loro modificazioni, e questo è il noumeno.
Del noumeno, pertanto, si conosce non solo l'esistenza, ma addirittura la necessità, nel senso che il suo concetto indica il limite necessario della nostra conoscenza scientifica e con ciò attesta inequivocabilmente l'esistenza di oggetti che stanno al di là del mondo sensibile.
In virtù di questa sua dottrina Kant rifiutò sempre recisamente qualsiasi interpretazione del suo pensiero in senso idealistico.
La dialettica trascendentale
L'ultima parte della dottrina degli elementi della Critica della ragion pura è dedicata all'esposizione della Dialettica trascendentale, intesa come logica dell'apparenza, e alla sua critica.
Tale apparenza, detta da Kant illusione trascendentale, nasce dall'uso di altri principi, diversi da quelli finora menzionati, ma ugualmente propri della ragione, i quali si riferiscono ad oggetti che trascendono l'esperienza.
Essa, secondo Kant, è un'illusione inevitabile e naturale per la ragione, perché la natura della ragione è proprio quella di tendere ad una conoscenza superiore a quella data dall'esperienza.
L'illusione trascendentale pertanto non potrà mai venire eliminata: l'unica cosa che si può fare, è rendersi conto, attraverso appunto la critica, del suo carattere di illusione, perché nessuna scienza è possibile al di là dell'esperienza.
La facoltà a cui appartengono i princìpi in questione è detta da Kant «ragione» in un senso più specifico di quello in cui si parla di ragione per indicare l'intera facoltà di conoscere a priori. Quest'ultima comprende infatti, secondo Kant, due facoltà distinte, che sono l'intelletto (Verstand), il quale, come abbiamo visto, non è la facoltà di intuire, ma la facoltà di unificare tra loro i fenomeni mediante alcune regole, cioè mediante le categorie, e la ragione (Vernunft) nel senso più specifico, o ragione vera e propria, definita da Kant come la facoltà di unificare tra di loro le regole dell'intelletto per mezzo di princìpi superiori.
Mentre tutta la filosofia precedente aveva affermato la superiorità dell'intelletto, inteso come facoltà di intuire, sulla ragione, intesa come facoltà di ragionare, Kant afferma al contrario la superiorità della ragione sull'intelletto, perché il tipo di unità a cui aspira la ragione è superiore a quella realizzata dall'intelletto, cioè è l'unificazione ulteriore dei risultati raggiunti dall'intelletto.
Come nella logica generale la ragione unifica i giudizi nei sillogismi, o ragionamenti, così nella logica trascendentale la ragione unifica le regole dell'intelletto nei princìpi.
Il principio supremo per mezzo del quale la ragione cerca di unificare i risultati dell'intelletto si basa sull'idea dell'incondizionato e consiste nell'affermare che, se è dato il condizionato, ossia ciò che è conosciuto dall'intelletto, deve essere data anche l'intera serie delle sue condizioni, la quale di per sé è incondizionata.
Questo principio è l'espressione di un'esigenza legittima della ragione, cioè quella di ricondurre la molteplicità del condizionato, vale a dire del mondo dell'esperienza, alla massima unità possibile; quando, tuttavia, tale principio viene scambiato per una conoscenza oggettiva, cioè per la conoscenza di una realtà incondizionata, esso si rivela illusorio, perché tale realtà non ci è mai data nell'esperienza e dunque non può mai costituire l'oggetto di un concetto puro.
L'idea dell'incondizionato si specifica, secondo Kant, in tre idee più particolari, che egli chiama «idee della ragione» o idee trascendentali, le quali sono le forme a priori della ragione, analoghe alle categorie, che sono le forme a priori dell'intelletto.
Kant le chiama «idee» per distinguerle, appunto, dalle categorie, e assume il termine «idea» nel senso platonico, cioè di principio a cui nulla v'è di adeguato nell'esperienza (solo che per Platone tali princìpi erano realtà in sé, mentre per Kant sono solo forme della ragione).
Come il sillogismo, o ragionamento, consiste nel riportare una conoscenza (la conclusione) sotto le sue condizioni (le premesse), così la ragione, mediante le idee trascendentali, riporta le conoscenze dell'intelletto alla totalità delle loro condizioni, cioè all'incondizionato, per mezzo dei suoi «raziocinii».
Le idee trascendentali della metafisica
Ora, le conoscenze dell'intelletto possono essere ricondotte ad unità in tre modi: attraverso la loro relazione al soggetto pensante, attraverso la loro relazione all'oggetto pensato e attraverso la loro relazione all'unità della realtà in generale.
Ciò per mezzo di cui si compie la prima unificazione è l'idea dell'anima, la quale pertanto esprime l'unità incondizionata di tutte le conoscenze relative al soggetto.
Ciò per mezzo di cui si compie la seconda è l'idea del mondo, la quale esprime l'unità incondizionata di tutte le conoscenze relative all'oggetto.
Ciò per cui si compie la terza è l'idea di Dio, detta da Kant anche «ideale della ragione», la quale esprime l'unità incondizionata di tutte le conoscenze in generale.
La pretesa di conoscere scientificamente gli oggetti di queste tre idee, cioè di usare queste tre idee non solo per unificare le conoscenze fornite dall'esperienza, ma anche per conoscere oggetti in sé, esistenti oltre l'esperienza, è secondo Kant la metafisica tradizionale.
In particolare la pretesa di avere scienza dell'anima, indipendentemente dall'esperienza, è la psicologia razionale (da non confondersi con la psicologia empirica, o sperimentale, la quale si limita allo studio dei fenomeni psichici, oggetto di esperienza).
La pretesa di avere scienza del mondo, inteso come cosa in sé, è la cosmologia razionale (da non confondersi con la fisica, la quale si fonda sull'esperienza).
Infine la pretesa di avere scienza di Dio è la teologia razionale (da non confondersi con la teologia dogmatica, la quale si fonda sulla rivelazione).
Come si vede, la metafisica che Kant qui presenta è la metafisica wolffiana, quella a cui egli stesso in gioventù aveva aderito e che aveva criticato già a partire dal 1762 in seguito alle obiezioni di Crusius.
Tale metafisica pretende di conoscere l'essenza dell'anima, del mondo e di Dio e di dedurne scientificamente tutte le proprietà.
Ma ciò è proprio quello che, secondo Kant, non si deve fare, perché la ragione non possiede nessuna conoscenza dell'essenza dell'anima, del mondo e di Dio.
La psicologia razionale si fonda, secondo Kant, su un paralogismo, cioè su di un falso sillogismo, il quale, partendo dalla coscienza che noi abbiamo del nostro pensiero, pretende di dedurne la conclusione che noi siamo una sostanza pensante (tale, si noti, era la concezione dell'anima presentata da Cartesio).
Ma la coscienza di pensare, osserva Kant, la quale pure è un fatto innegabile e non empirico (è l'Appercezione trascendentale), non è intuizione dell'essenza di un oggetto, e comunque ad essa non si può applicare la categoria di sostanza, la quale suppone sempre un'intuizione sensibile.
L' «io», insomma, non è il concetto di un soggetto reale, ma è solo la coscienza che accompagna ogni concetto, cioè il soggetto logico della proposizione «io penso».
Una psicologia razionale come scienza, dunque, non è possibile.
La cosmologia razionale, a sua volta, approda a quattro antinomie, cioè a quattro coppie di proposizioni fra loro opposte, formate ciascuna da una «tesi» e da una «antitesi», le quali in genere corrispondono alle concezioni del mondo proprie rispettivamente del razionalismo e dell'empirismo moderni.
Infatti, se si ammette di poter conoscere il mondo come cosa in sé, è possibile dimostrare:
antinomie matematiche
1) sia che il mondo ha un inizio nel tempo e un limite nello spazio (tesi), sia che esso non ha limiti di tempo né di spazio (antitesi);
2) sia che il mondo è composto tutto di sostanze divisibili in parti semplici (tesi), sia che nessuna delle sostanze che costituiscono il mondo è divisibile in parti semplici (antitesi);
antinomie dinamiche
3) sia che nel mondo esiste anche una causalità libera (tesi), sia che nel mondo non esiste altra causalità che quella delle leggi di natura (antitesi);
4) sia che il mondo ha come sua causa un essere necessario (tesi), sia che non esiste nessun essere necessario che sia causa del mondo (antitesi).
Risolvere criticamente le antinomie vorrà dire mostrare che la contraddizione fra tesi e antitesi è soltanto apparente.
Nel caso delle prime due antinomie (che Kant chiama "matematiche", perché considerano il mondo dal punto di vista quantitativo e non qualitativo), questo risultato si ottiene osservando che sia la tesi sia l'antitesi sono false, in quanto derivate da un principio intimamente contraddittorio, e cioè l'esistenza del mondo come totalità in sé.
In realtà, ciò che possiamo dire del mondo è che esso non è né finito né infinito - quanto allo spazio, al tempo e alla divisibilità - ma è un insieme di fenomeni attualmente finito e potenzialmente indefinito.
Nel caso della terza e quarta antinomia (chiamate "dinamiche", perché riguardano la regressione all'incondizionato) Kant osserva che la soluzione sta nel pensare che la tesi e l'antitesi possano essere (non siano necessariamente) entrambe vere, e tuttavia non in contraddizione fra loro, perché riferite ad ambiti diversi: le antitesi al mondo dell'esperienza, le tesi al mondo intellegibile, quel mondo che è sempre possibile pensare, pur senza poterlo mai conoscere.
Per esempio, rispetto ai fenomeni possiamo ritenere vero che tutto ciò che avviene sia determinato assolutamente entro leggi causali: proprio questo rende possibile l'indagine scientifica.
Ma rispetto al noumeno, è possibile invece pensare la libertà, ovvero la possibilità di agire secondo volontà: è questo anzi, come vedremo, un presupposto ineliminabile della vita morale.
Di fronte alle questioni poste dalla terza e quarta antinomia, quindi, si può operare una distinzione tra ciò che è oggetto della scienza e ciò che è oggetto della moralità: ciò che non può essere affermato nel primo campo, può esserlo nel secondo.
La condizione è che non si pretenda di attribuire legittimità, contenuto, valore conoscitivo a concetti privi di un oggetto corrispondente nell'esperienza.
In questo caso, si cade nell'arbitrio della metafisica dogmatica, inevitabilmente dialettica
Infine la teologia razionale pretende di dimostrare l'esistenza di Dio mediante tre tipi di prove:
1) la prova ontologica, che deduce l'esistenza di Dio dalla sua essenza di essere, perfettissimo;
2) la prova cosmologica, che dalla contingenza del mondo argomenta la necessità di un essere necessario come causa del mondo stesso;
3) la prova fisico-teologica, che dall'ordine finalistico del mondo argomenta la necessità di un essere intelligente come autore di tale ordine.
Nessuna di queste tre prove, secondo Kant, regge, perché:
1) l'esistenza non è una perfezione che possa essere compresa accanto ad altre nell'essenza di alcunché, come ad esempio l'esistenza o meno di cento talleri nelle mie tasche non è qualcosa che entri nella nozione di cento talleri in modo da fame variare il numero, perciò essa non può mai essere dedotta, ma può solo essere constatata;
2) non si può applicare il concetto di causa ad un ente del quale non si abbia esperienza, perché la causa è una categoria della ragione che serve solo ad operare la sintesi tra le rappresentazioni empiriche;
3) la prova desunta dall'ordine è solo un argomento empirico, basato sull'analogia con l'arte umana, e comunque non prova l'esistenza di un creatore, ma al massimo solo quella di un architetto del mondo.
L'illusorietà dell'uso trascendente delle idee della ragione non significa tuttavia, secondo Kant, che non esista anche un uso buono di esse: questo è il cosiddetto uso regolativo, consistente nell'ordinare, per mezzo delle idee, le conoscenze dell'intelletto al fine di realizzare la maggiore unità possibile di esse.
Attraverso tale uso delle idee non si conoscono gli oggetti che trascendono l'esperienza, ma tuttavia si dà un ordinamento sistematico alla conoscenza dell'esperienza, indicando le vie lungo le quali procedere per poterla accrescere.
Diverso dall'uso regolativo delle idee è l'uso che si fa dei concetti dell'intelletto, quello cioè descritto nell'Analitica trascendentale, il quale è invece costitutivo nei confronti dell'esperienza.
Nel senso che per mezzo suo i concetti vengono a costituire, cioè a rendere possibile, l'esperienza stessa come conoscenza, determinando i fenomeni, cioè facendoli essere come sono.
Anche l'uso regolativo delle idee, tuttavia, è utile, anzi per Kant è un uso «legittimo ed eccellente», perché, pur senza produrre nessuna conoscenza, indica alla conoscenza dell'esperienza la via dell'unità sistematica.
Una spiegazione dell'uso regolativo delle idee della ragione è data da Kant nel modo seguente: noi dobbiamo considerare le cose del mondo come se fossero state create da un'Intelligenza suprema (facendo in tal modo un uso regolativo dell'idea di Dio).
Che esse lo siano veramente, non è dimostrabile scientificamente, ma tuttavia il supporlo è di grande utilità per capire meglio la costituzione e la connessione degli oggetti dell'esperienza.
Analogamente, dobbiamo ricondurre tutti i fenomeni psichici ad un'unità incondizionata (per mezzo dell'idea di anima), «come se» essi fossero manifestazioni di un'anima.
Non perché sia dimostrabile l'esistenza dell'anima, ma perché ciò ci permette di interpretarli più esattamente e di darne una spiegazione più completa.
Infine dobbiamo anche ricondurre tutti i fenomeni fisici ad un'unità incondizionata (per mezzo dell'idea di mondo), «come se» essi fossero altrettante manifestazioni del mondo, perché ciò ci permette di spiegarli nel modo migliore.
In generale, conclude Kant, dobbiamo considerare l'ordine del mondo «come se» fosse stato voluto da un'Intelligenza suprema, perché l'unità finalistica, o teleologica,è la più alta unità che si possa dare all'esperienza, ed è quella che ci aiuta a conoscere meglio la natura.
Questa Intelligenza è quella di un Dio creatore e ordinatore del mondo, che non può essere oggetto di scienza, cioè non può essere conosciuto mediante le categorie di sostanza, causa, essere necessario, ecc., ma può ugualmente essere concepito per analogia con gli oggetti dell'esperienza.
Come si vede, Kant, dopo avere criticato la concezione tradizionale della metafisica come scienza, cioè come pretesa di conoscere l'essenza delle realtà intelligibili e di dedurne matematicamente le proprietà, qui introduce una diversa concezione della metafisica.
Essa consiste nel rilevare, da parte della ragione attraverso l'uso regolativo delle sue idee, l'insufficienza dell'esperienza e la sua tendenza a ordinarsi unitariamente verso un Principio ad essa trascendente.
Tale Principio non è mai oggetto di conoscenza diretta, tuttavia la sua esistenza è necessariamente richiesta dalla stessa esperienza, come condizione della sua completa intelligibilità.
Critica della ragion pratica
Riprendendo la tripartizione antica della filosofia in logica, fisica ed etica, dopo avere tralasciato la logica, in quanto scienza puramente formale, ed avere trattato della fisica, sia a livello di scienza che a livello di filosofia (cioè di metafisica), Kant affronta la trattazione dell'etica, cioè della scienza dei costumi.
In essa egli individua ugualmente una parte empirica (la cosiddetta «antropologia pragmatica»), che non fa parte della filosofia, e una parte pura, cioè a priori, la quale è l'unica che interessa la filosofia ed è da lui chiamata «metafisica dei costumi».
Nella Fondazione della metafisica dei costumi Kant compie, per l'etica, un'operazione analoga a quella compiuta nei Prolegomeni per la matematica, la fisica e la metafisica, cioè risale, con metodo analitico, dal condizionato, che in questo caso è la morale comune, alle sue condizioni, la cui esposizione è la vera e propria «metafisica dei costumi».
Il dato della morale comune da cui Kant parte è il fatto che l'unica cosa da tutti considerata buona senza limitazioni è la volontà buona.
Tutte le altre cose considerate buone, cioè le qualità dello spirito, o quelle del corpo, o i doni della fortuna, possono in taluni casi portare a qualcosa di non buono: solo la volontà buona è tale in ogni caso e senza limitazione alcuna.
Ma la volontà buona non è altro che la volontà di compiere il proprio dovere, indipendentemente dai vantaggi o dai danni che ne possono derivare, cioè di compiere il proprio dovere unicamente «per dovere».
E il dovere non è altro che la necessità di compiere un'azione per rispetto della legge.
Questa, dunque, è la condizione della moralità, cioè del comportamento morale, ed è una condizione pura, cioè a priori, perché non è subordinata al conseguimento di un fine particolare, rilevabile attraverso l'esperienza, bensì è un comando universale, cioè uguale per tutti, il quale prescinde completamente da qualsiasi condizione empirica.
Per Kant, dunque, è assolutamente evidente che c'è una legge morale dotata di valore universale.
Ciò è evidente, però, non al sentimento, come sosteneva l'etica del sentimento morale, perché il sentimento, in quanto dipendente dalla sensibilità, è una facoltà non pura, ma legata all'esperienza.
L'esistenza della legge morale è evidente alla ragione, cioè all'unica facoltà dell'uomo che sia veramente pura, non legata all'esperienza, e perciò universale: per questo motivo Kant chiama questa evidenza «un fatto della ragione».
La ragione pura, in quanto capace di riconoscere la legge morale, e quindi di obbedire al suo comando, è allora un principio capace di dirigere le azioni, cioè è una facoltà non solo teoretica, vale a dire conoscitiva, bensì anche pratica, vale a dire attiva, capace di orientare la prassi: essa è insomma anche ragione pratica.
Tuttavia la ragione è capace di obbedire non solo alla legge morale, ma anche ad altri comandi, che non sono affatto puri, cioè universali, ma sono legati al conseguimento di fini particolari.
Quando essa fa questo, è ugualmente pratica, ma non è affatto principio, o condizione, della moralità, bensì è principio di comportamenti che non hanno nulla a che vedere con la morale.
È necessario pertanto, secondo Kant, distinguere in quali casi la ragione pratica è veramente pura, cioè condizione di moralità, e in quali casi è pratica senza essere pura: a ciò serve una Critica della ragion pratica.
Questa seconda Critica non sarà, però, una «critica della ragione pura pratica», come la prima Critica era una «critica della ragione pura teoretica».
Infatti, mentre la ragione teoretica ha bisogno di essere criticata, cioè sottoposta ad esame, anche nella sua parte pura, in quanto tende a comportarsi in modo illegittimo (valicando i limiti dell'esperienza), la ragione pratica non ha bisogno di essere criticata nella sua parte pura, perché in questa essa si comporta in modo perfettamente legittimo, obbedendo ad una legge appunto universale.
Invece nella sua parte non pura, cioè legata all'esperienza, la ragione pratica può darsi delle massime, cioè delle forme di azione, dipendenti appunto dall'esperienza, e perciò non legittime dal punto di vista morale.
Perciò deve essere sottoposta a critica.
I caratteri della morale
Condizione suprema e unica della moralità è, come abbiamo visto, la legge morale.
Ciò significa che sono moralmente buone solo le azioni compiute per rispetto della legge morale cioè per dovere.
La legge morale è, come si è detto, universale, cioè uguale per tutti, e razionale, cioè è riconosciuta dalla ragione e vale per l'uomo in quanto essere ragionevole.
Il suo valore non dipende da ciò che essa comanda, ossia dalle particolari azioni che vengono compiute per rispetto di essa, ma dalla sua «forma» di legge, cioè dal fatto che tali azioni vengono compiute unicamente perché comandate da essa.
In questo senso la legge morale è formale, cioè non legata ad alcun particolare contenuto, e proprio per questo è pura, cioè a priori.
La sua forma di legge, infatti, non è altro che la sua universalità.
La legge morale, dunque, non è buona per il fatto di comandare un'azione buona, o di essere conforme ad un bene preesistente.
Al contrario, il bene è veramente tale, cioè un'azione è veramente buona, solo se è conforme alla legge morale.
Ciò vale anzitutto per la volontà, la quale è buona, come abbiamo visto, per il fatto di conformarsi alla legge morale.
Ma in generale si può dire che qualsiasi azione è buona se è fatta con intenzione buona, cioè con l'intenzione di rispettare la legge morale, qualunque sia poi il suo contenuto, cioè la sua realizzazione materiale.
L'intenzione è infatti la «forma» dell'azione, mentre il contenuto, ossia i movimenti materiali in cui essa consiste, sono la sua materia.
Ciò che ha rilievo morale in un'azione, dunque, non è mai la sua materia, ma sempre e solo la sua forma.
La volontà, per Kant, non è altro che la stessa ragione, in quanto è pratica, cioè capace di dirigere le azioni.
La volontà buona, dunque, è la ragione in quanto obbedisce alla legge morale, e, poiché la legge morale è una legge razionale, nell'obbedire ad essa la ragione obbedisce a se stessa, ossia è legge a se stessa, è autonoma (autòs in greco significa «se stesso» e nòmos significa «legge»).
Solo in questo caso la ragione pratica è condizione di moralità.
Quando, invece, la ragione obbedisce ad una legge diversa da sé, di qualunque legge si tratti, essa è eteronoma, cioè sottostà ad una legge che è «altro» (hèteron) da essa, e in tal caso le sue massime non hanno, per Kant, alcun valore morale.
Formalismo e autonomia sono dunque le due caratteristiche principali dell'etica kantiana.
La legge morale si esprime in un comando, cioè in un «imperativo», ma bisogna distinguere, secondo Kant, due tipi di imperativi, quelli «ipotetici» e quelli «categorici».
La legge morale si esprime solo e sempre in un imperativo categorico, mai in un imperativo ipotetico.
Gli imperativi ipotetici sono i comandi subordinati ad un'ipotesi, cioè all'ipotesi che si voglia conseguire un determinato fine, per esempio: «se vuoi essere sano (ipotesi), prendi questa medicina (comando)».
Obbedire a un imperativo ipotetico può essere positivo dal punto di vista del fine che si intende ottenere, ma è un comportamento del tutto privo di valore morale, perché dettato solo da un vantaggio.
Invece gli imperativi categorici sono comandi non subordinati a nulla, ma del tutto incondizionati, cioè puri, a priori, come le categorie della ragione teoretica.
Essi comandano di compiere il proprio dovere unicamente per dovere, cioè per rispetto della legge morale, qualunque sia la conseguenza che ne può derivare.
Solo gli imperativi categorici conferiscono valore morale alle azioni, cioè comportano un autentico merito.
Tra gli imperativi ipotetici Kant colloca le cosiddette «regole dell'abilità», cioè le regole puramente tecniche che si seguono per ottenere determinati risultati, e anche i cosiddetti «consigli della prudenza», cioè i consigli che conviene seguire per ottenere la felicità.
Non solo le prime, ma anche i secondi sono per lui del tutto privi di valore morale.
Dunque la prudenza, o saggezza pratica (Klugheit), che era tradizionalmente considerata una virtù morale, per Kant cade completamente fuori dalla morale.
L'imperativo categorico
Ogni etica basata sulla ricerca della felicità, come quella di Aristotele, o sulla ricerca della propria perfezione, come quella di Wolff, viene pertanto rifiutata da Kant come un'etica non pura, non autonoma, ma governata da imperativi ipotetici, e quindi subordinata a condizioni esterne.
Anche le etiche del sentimento, come naturalmente quelle miranti al conseguimento del piacere (edonismo), o dell'utile (utilitarismo), vengono poste sullo stesso piano e considerate incapaci di fondare un'autentica moralità.
In generale, Kant rifiuta tutte le etiche che fondano la morale su una conoscenza, sia questa di tipo sensibile che di tipo razionale, proprio perché nega che esista un bene preesistente alla legge morale, il quale possa essere conosciuto prima di essere comandato.
La sua etica si fonda, sì, sulla ragione, ma non sulla ragione teoretica, cioè conoscitiva, bensì sulla ragione pratica, cioè intesa come principio di azione, come comando, come legge, legge che non ha altro fondamento che se stessa.
L'etica che più si avvicina alla sua, secondo Kant, è quella cristiana, fondata anch'essa su un comando abbastanza formale ed universale, quello di amare il prossimo come se stessi.
Tuttavia l'etica cristiana presenta questo comando come divino e con ciò accoglie un elemento eteronomo, che incrina la sua purezza, così come allude a un premio e a una punizione, rischiando di far rispettare la legge unicamente per desiderio del premio o per timore del castigo, il che toglie ogni valore morale alle azioni.
L'etica kantiana, vorrebbe essere, insomma, una purificazione della stessa morale cristiana.
Kant ha cercato di esprimere la legge morale, ossia l'imperativo categorico, in una formula:
«agisci come se la massima (cioè la norma soggettiva) della tua azione dovesse diventare, per tuo volere, una legge universale».
Qui è evidente che non viene prescritta nessuna azione particolare, perciò si tratta di una legge puramente formale; viene tuttavia fatto valere un criterio ben preciso, quello dell'universalità, per cui sono immorali tutte le azioni che non si potrebbe voler imporre come leggi universali, e sono invece morali tutte quelle che si potrebbe voler imporre come tali.
Per esempio sono immorali azioni come il suicidio, la mancata restituzione dei debiti, il disinteressarsi degli altri, perché nessuno potrebbe volere che tutti si comportassero in questo modo, mentre sono morali precetti come «ama il tuo prossimo», perché ognuno vorrebbe che tutti si comportassero in questo modo verso di lui.
In sostanza, l'imperativo categorico comanda di fare semplicemente il proprio dovere e di farlo unicamente per dovere, cioè non per conseguire un premio o per evitare un castigo: «devi, perché devi».
Kant professa infatti una specie di culto del dovere, come risulta anche da una sua celebre apostrofe, contenuta nella Critica della ragion pratica:
«Dovere, nome grande e sublime, che non contieni nulla che lusinghi il piacere, ma esigi sottomissione; né, per promuovere la volontà, minacci nulla che susciti nell'animo ripugnanza o spavento, ma presenti unicamente una legge, che trova da se stessa accesso all'animo, e tuttavia ottiene forza e venerazione, anche se non sempre obbedienza; una legge davanti a cui tutte le inclinazioni ammutoliscono, anche se, sotto sotto, lavorano contro di essa».
Nella Fondazione Kant aggiunge a quella già esposta altre due formulazioni dell'imperativo categorico, cioè:
«agisci in modo da considerare l'umanità, sia nella tua persona, sia nella persona di ogni altro, sempre anche come fine e mai soltanto come mezzo»,
e
«agisci in modo che la tua volontà possa considerarsi come universalmente legislatrice rispetto a se medesima».
Mentre quest'ultima formulazione somiglia molto alla prima, con la sola differenza che insiste sull'autonomia della volontà, oltre che sull'universalità, la seconda presenta un particolare interesse perché si riferisce al concetto di «persona», dando un contenuto più determinato all'imperativo.
Le persone, secondo Kant, si distinguono dalle cose, proprio perché sono in se stesse dei fini e non dei mezzi, cioè hanno una dignità e non un «prezzo» (vale a dire non sono interscambiabili con nulla).
In quanto dotate di un corpo, le persone sono anch'esse sottoposte alle leggi della natura, cioè del mondo sensibile, ma in quanto hanno una «personalità», cioè un carattere che le fa essere, appunto, persone, esse appartengono al mondo intelligibile, e sono superiori alle stesse leggi della natura.
Il motivo per cui Kant attribuisce un valore così elevato alla persona è il fatto che questa, in quanto dotata di ragione, è portatrice della stessa legge morale, la quale non è altro che l'espressione della natura razionale dell'uomo, perciò il rispetto verso la persona è tutt'uno col rispetto verso la legge morale.
A questo proposito, anzi, Kant sostiene che il sentimento del rispetto, proprio in quanto è il riconoscimento della dignità della persona, è l'unico sentimento che abbia anche un valore morale.
L'insieme di tutte le persone, considerate in quanto fini, costituisce quello che Kant chiama «il regno dei fini», governato dall'unica legge di considerare gli altri come fini e nel quale ciascun suo membro è suddito e legislatore al tempo stesso.
La libertà
La legge morale, condizione suprema e unica della volontà, presuppone a sua volta, secondo Kant, la libertà.
La volontà, infatti, per poter aderire alla legge morale, deve poter essere libera di farlo e anche di non farlo.
Non avrebbe alcun valore, infatti, il compiere il proprio dovere, se non si potesse fare anche a meno di compierlo.
Il fatto stesso che si «debba» fare qualche cosa, significa che si «può» anche non farla.
«Devi - dice Kant -, quindi puoi».
Colui che compie il proprio dovere, è moralmente meritevole, proprio perché è libero anche di non compierlo.
Non si deve pertanto confondere il dovere morale (espresso in tedesco dal verbo sollen, che significa «dovere» nel senso di «essere tenuti») con la necessità fisica (espressa in tedesco dal verbo müssen, che significa «dovere» nel senso di «essere costretti»).
La libertà è la condizione della legge morale, la quale a sua volta è il segno rivelatore della libertà.
Kant esprime questo rapporto reciproco tra libertà e legge morale, che non è un circolo vizioso, affermando che la libertà è causa essendi («causa che fa essere») della legge morale, mentre la legge morale è causa cognoscendi («causa che fa conoscere») della libertà.
La volontà razionale, cioè la ragione, e quindi l'uomo in quanto soggetto di azione morale, è dunque dotato di libertà.
Perciò egli, considerato sotto questo aspetto, si sottrae al determinismo delle leggi naturali, e si rivela appartenente ad un altro mondo, il mondo della libertà, che è il noumeno.
L'uomo come noumeno, inoltre, risulta essere egli stesso causa delle proprie volizioni.
Egli può essere, infatti, condizionato da mille fattori esterni e interni, fisici e psichici, a compiere o a non compiere una certa azione, può cioè essere costretto con la forza a fare o a non fare una certa cosa, ma nessuna forza al mondo può costringerlo a volere o a non volere una certa cosa.
In tal modo la ragione pura, attraverso il riconoscimento della legge morale e della libertà come essenza della volontà, cioè in quanto ragione pura pratica, risulta in grado di accedere alla conoscenza di una realtà noumenica, cioè dell'uomo considerato come soggetto della moralità.
E addirittura di applicare ad esso una delle categorie dell'intelletto, cioè la categoria di causa, affermando che l'uomo è causa delle proprie volizioni.
Per questo motivo Kant può affermare il primato della ragion pratica rispetto a quella teoretica, quanto a capacità di accedere al noumeno.
Abbiamo visto che per Kant non c'è un bene preesistente alla volontà buona, cioè alla volontà che si conforma alla legge morale, il quale debba essere perseguito da essa.
La felicità, la stessa perfezione, o realizzazione piena, della natura umana, per lui non sono dei beni, ma l'unico vero bene è la volontà buona, cioè la virtù.
Tuttavia la virtù, presa da sola, non è il Sommo bene, cioè il bene completo, perché è giusto, cioè conforme alla legge morale, che la virtù sia premiata dalla felicità.
Il Sommo bene pertanto, secondo Kant, è l'unione di virtù e felicità.
Ciò non significa, si badi bene, che si debba praticare la virtù per conseguire la felicità: al contrario, la virtù deve essere praticata di per se stessa, indipendentemente dal fatto che essa procuri o meno la felicità.
Tuttavia è giusto, è moralmente bene, che chi pratica la virtù sia anche felice, così come è anche giusto che chi pratica il vizio sia punito con l'infelicità.
I postulati della ragion pratica
Ebbene, è facile constatare, dice Kant, che in questa vita il Sommo bene non si realizza mai, cioè non si dà mai l'unione di felicità e virtù.
Al contrario, in genere chi pratica la virtù è tutt'altro che felice, ma va incontro, proprio a causa della sua virtù, ad una quantità di sacrifici e di sofferenze; invece chi pratica il vizio molto spesso, proprio a causa dei suoi vizi, ottiene molti vantaggi e in taluni casi si può considerare addirittura felice.
Questa è, per Kant, un'antinomia, cioè una contraddizione, un fatto irrazionale, precisamente quella che egli chiama l'«antinomia della ragion pratica».
Ma la ragione non può rassegnarsi a questa contraddizione, perciò «postula», cioè richiede, presuppone come necessarie, due condizioni senza le quali l'antinomia non si risolve e non si realizza il Sommo bene.
Il primo di tali «postulati della ragion pratica» è, per Kant, l'esistenza di Dio.
Poiché in questa vita, infatti, l'unione di virtù e felicità non si realizza mai, si deve postulare, cioè presupporre, che vi sia anche un'altra vita, la vita eterna, nella quale un giudice infinitamente sapiente e potente sia in grado di far corrispondere la felicità alla virtù, cioè di premiare la virtù e di punire il vizio.
Questi non può essere altri che Dio, perciò la stessa ragione pratica, in quanto riconosce la legge morale e quindi la necessità del Sommo bene, «postula», cioè richiede, esige, l'esistenza di Dio.
Il discorso ora fatto non è, si noti, una dimostrazione razionale, del tipo di quelle tentate dalla metafisica, perché non ci porta a conoscere Dio per via teoretica: è un postulato, cioè una specie di richiesta morale, attraverso cui, tuttavia, la ragione riesce ancora una volta ad accedere ad una realtà noumenica, Dio appunto, confermando il «primato della ragion pratica» su quella teoretica.
Il secondo postulato della ragione pratica è, secondo Kant, l'immortalità dell'anima.
In questa vita infatti, osserva Kant, per quanto si pratichi la virtù, non si riesce mai a realizzare la perfezione morale, cioè la santità; eppure la legge morale impone di tendere continuamente a questo ideale, cioè la perfezione è «praticamente necessaria», nel senso che si è tenuti a tendervi continuamente e non si può mai rinunciare a realizzarla.
Di qui la necessità, ancora una volta morale, non teoretica, di ammettere una vita senza termine alcuno, come condizione che renda possibile quest'aspirazione infinita alla perfezione: questo è ciò che comunemente si chiama immortalità dell'anima.
In tal modo Kant reintroduce per via pratica, cioè come esigenza della moralità, quelle verità, quali l'esistenza di Dio e l'immortalità dell'anima, che egli stesso aveva dichiarato inaccessibili alla ragione teoretica.
Insomma attraverso la libertà (considerata a volte anch'essa come un postulato), l'esistenza di Dio e l'immortalità dell'anima la ragione pura (pratica) si rivela pienamente adeguata ad accedere al mondo del noumeno.
Nella Critica della ragion pura, come abbiamo visto, Kant era riuscito a rendere ragione del mondo dei fenomeni, cioè a scoprire l'ordine cosmico e le sue leggi; nella Critica della ragion pratica egli è riuscito, ora, a scoprire l'essenza noumenica dell'uomo, costituita dalla legge morale.
Perciò egli può concludere quest'ultima opera affermando:
«due cose riempiono l'animo di ammirazione e di reverenza sempre nuove e crescenti, quanto più spesso e più a lungo il pensiero vi si ferma su: il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me».
Queste ultime parole, nelle quali si compendia quasi tutto il suo pensiero, furono fatte incidere anche sulla sua tomba.