Il senso della storia, che in Leibniz era solo una componente della sua ricchissima personalità, diviene la nota preponderante in Giambattista Vico (1668-1744), il filosofo napoletano che, in nome della storia, contrastò Cartesio non solo sui punti particolari della dottrina, ma circa il modo stesso di concepire la verità.
Le idee di Vico, un po' perché esposte in modo pittoresco ma involuto, un po' perché nel Seicento l'italiano aveva cessato di essere una lingua di cultura, un po' anche perché i tempi non erano maturi, non ebbero a tutta prima diffusione in Europa. Del resto anche in Italia, e nello stesso ambiente napoletano, ebbero una risonanza limitata.
Solo molto tempo dopo la sua morte alcuni (tra cui lo storico Michelet in Francia) riscoprirono il suo pensiero, che finì con l'offrire più spunti al romanticismo che all'illuminismo, a cui per la sua origine sarebbe appartenuto.
Quel particolare modo di far filosofia che va sotto il nome di storicismo, senza Vico sarebbe difficilmente concepibile.
Ma il Settecento, pur avendo un forte interesse per la storia, la coltivava da un punto di vista diverso, pragmatico, e difficilmente avrebbe potuto capire il modo vichiano di giungere a una verità sovratemporale attraverso la considerazione di una storia che "corre nel tempo".
Sicché Vico, oggi considerato un pensatore di prima grandezza, passò quasi inosservato al suo tempo.
Vico cominciò, come molti studiosi di allora, come precettore presso una famiglia nobile che abitava il castello di Vatolla nel Cilento. Il castello aveva una ricca biblioteca e il Vico, che là visse isolato per nove anni (1684-93), poté ampliare la sua cultura classica e fare la conoscenza di vari autori del Rinascimento.
Quando tornò a Napoli trovò che fervevano le discussioni intorno alle "novità" filosofiche d'Oltralpe; dopo una breve fortuna di Gassendi, era salito l'astro di Cartesio, che ora teneva il campo: e con lui ("Renato" o "Delle Carte", com'egli lo chiamava) Vico cimentò le proprie forze, elaborando le proprie idee in opposizione diretta al modo cartesiano di giungere alla verità.
La cattedra di retorica che Vico ottenne nel 1699 - e che gli diede modo di stendere varie orazioni inaugurali, tra cui si stacca la famosa De nostri temporis studiorum ratione - era mal retribuita e invano Vico cercò di cambiaria con una di giurisprudenza: dovette vivere fino alla fine in ristrettezze, tormentato anche da un figlio scavezzacollo e, in queste condizioni difficili, comporre le proprie opere, che anche per questo, forse, risultano meno limpide in superficie.
La prima espressione del pensiero vichiano è il De antiquissima italorum sapientia: un tentativo di estrarre l'antichissima filosofia italica dal significato originario di molte parole latine, di cui Vico fantastica l'etimologia. Assai più che una filosofia degli antichi, ne venne fuori una prima esposizione del pensiero vichiano.
Interessante, però, il concetto che Vico vi propose, di una filosofia propria non di una persona, ma di un intero popolo, e implicita nella lingua che quella nazione parla.
L'opera provocò una recensione del "Giornale dei Letterati" di Venezia, a cui Vico inviò due Risposte; e fu seguita, dopo un decennio, da altri due scritti latini, in cui si prospettano i temi di quella che sarà la "scienza nuova": De universi iuris principio et fine uno, e De constantia iurisprudentis.
In italiano furono scritti invece, oltre all'Autobiografia, i Princìpi di una scienza nuova intorno alla comune natura delle nazioni (1725), riesposti in forma più ampia nella seconda edizione, del 1730, a cui ne seguì una terza poco dopo la morte di Vico (1744).
Verum ipsum factum
Il principio di tutta la filosofia vichiana - quale risulterebbe già, secondo il De antiquissima, dall'identità di significato, nell'antico latino, tra verum e factum - è che può avere conoscenza vera di una cosa solo colui che la fa, e in quanto la fa.
Un principio non certo esclusivo di Vico: lo si trovava già in Geulincx, in Hobbes e in altri; lo si ritroverà, indipendentemente da Vico, in Kant. Ma ciascuno di questi autori fa del principio un uso suo particolare; e il Vico più degli altri vi costruisce su in maniera personalissima.
La "verifica" (verum facere), per cui si giunge al "vero" solo attraverso un "fare", è un'esigenza metodologica propria della scienza; e la fonte diretta della coincidenza vichiana tra verum e factum è, infatti, la tradizione galileiana.
Ma, osserva Vico, si può dire veramente che il fisico faccia la cosa che studia? No: il fisico la trova già fatta; è costretto a prenderla così com'è, e a studiarla dall'esterno; non ne ha in sé la matrice. Può solo trasformarla, mutarla superficialmente.
E, infatti, gli "esperimenti" sono operazioni di trasformazione del mondo fisico, condotti a scopo di "verifica", secondo un progetto proprio. Ma queste superficiali trasformazioni, che sono in nostro potere, non incidono sulla sostanza delle cose; questa dobbiamo presupporla, non possiamo produrla, e sfugge, quindi, alla nostra conoscenza.
Per rendercene meglio conto basta paragonare la situazione delle scienze fisiche con quella delle matematiche.
Nell'aritmetica e nella geometria noi siamo davvero gli autori dell'oggetto che studiamo: cioè dei concetti di unità e di punto, muovendo dai quali costruiamo, in virtù di sole nostre operazioni, tutto il resto.
Perciò aritmetica e geometria danno luogo a verità certe, che noi conosciamo a fondo. Ma, rispetto al mondo fisico, gli oggetti matematici da noi costruiti sono mere immagini, che imitano per quanto possono il comportamento degli oggetti esistenti, ma non possono generarli.
Sicché la scienza fisica ha valore solo nella misura in cui riesce a interpretare la natura per mezzo delle immagini matematiche: ma poiché, per questa via, non potrà mai generare la stessa realtà naturale, neppure potrà conoscerla a fondo, e resterà sempre alla sua superficie.
Solo Dio, che ha in sé le forme generatrici delle cose, può conoscere le cose internamente e fino in fondo, senza residui.
Rispetto a una siffatta conoscenza divina, la nostra è come una superficie rispetto al corpo concreto: astratta ed esteriore, priva di una delle dimensioni necessarie a costruire la realtà.
Perciò il conoscere divino è un intelligere, un "veder dentro" (intus legere), mentre il nostro è soltanto un "pensare", un "raccogliere insieme" esteriore (cogitare, da co-agitare: sempre secondo etimologie vichiane, che hanno però precedenti in San Tommaso e in altri).
A Dio tutto è presente a un tempo, nella luce del suo intelletto, mentre l'uomo va raccogliendo qua e là dati da mettere insieme, come alla luce di una lucerna.
L’impronta di Dio
Peraltro anche nell'uomo nascono conoscenze generatrici delle cose, a imitazione della conoscenza divina. Le arti ad esempio, "vanno tanto più sicure verso il loro fine, quanto meglio insegnano la guisa del nascimento delle cose" (cioè: "il modo in cui le cose nascono", la loro natura).
Pertanto, le arti che insegnano a fare la cosa singola e determinata - come la pittura, l'architettura, ecc. - sono superiori a quelle che Vico chiama "congetturali" (come l'oratoria, la politica, la medicina, ecc.), le quali trattano il loro oggetto genericamente.
Anche queste ultime, tuttavia, sono tanto più efficaci quanto più riescono a stringere l'oggetto da vicino, nella sua singolarità, e quindi nella "natura" sua propria.
Come si vede, Vico ha un senso vivissimo della concretezza.
L'analisi scientifica della natura paga troppo cara, secondo lui, la certezza garantitale dalle strutture matematiche, con la necessità di restare in superficie.
Ma, d'altro canto, una diversa conoscenza, che tuttavia mancasse di cogliere l'individuale dall'interno nella sua irripetibile peculiarità sarebbe ancor meno valida: perché, non afferrando la "guisa del nascimento" della cosa, rimarrebbe generica.
Lo sfondo di questa convinzione è una dottrina platonico-neoplatonica, che vede le cose naturali quasi come un'orma lasciata nella materia dall'azione generatrice dell'unità divina.
Tale azione generatrice ha, per così dire, un suo stampo: una sua efficacia caratterizzante, che è come il segno che l'unità originaria lascia nella molteplicità della materia. A questo stampo, che Platone aveva chiamato "idea", Vico dà il nome di "forma", nel senso di una potenza generatrice e qualificatrice, che fa sì che la cosa sia quello che è.
Il conoscere-fare divino si attua attraverso il veicolo di codeste "forme" e qualcosa di analogo, sia pure su un piano subordinato, può fare l'uomo quando a suo modo "crea", per il tramite di forme individuanti (ad esempio, nell'arte).
I "generi" aristotelici sono invece, per Vico, generi astratti, che nascono post rem, afferrando "generiche" somiglianze tra le cose, senza cogliere il loro processo generativo.
La metafisica
Per quanto meno originale, anche la concezione metafisica con cui Vico cerca d'interpretare il fare divino, da cui nasce il mondo, non manca d'interesse. Essa risente soprattutto dell' influenza di Leibniz, filtrata attraverso le conversazioni che il Vico aveva con Paolo Mattia Doria, abbastanza esperto delle filosofie d'Oltralpe.
Quello che, sul piano fisico, compare come universale movimento della materia esterna, non è altro che lo sviluppo di un momento inesteso, che racchiude, come in un punto, la "virtù" (cioè la virtualità, il "conato") del movimento e dell'estensione.
Il "conato" al movimento, che si trova nei "punti metafisici" - per cui già gli antichi italici, secondo Vico, avrebbero identificato punctum e momentum - è la vera sostanza delle cose materiali: sostanza non più fisica, ma metafisica, e posta in essere da Dio.
Per non aver sufficientemente distinto i due piani, sbagliarono tanto Aristotele quanto Cartesio: il primo interpretando immediatamente la fisica in termini metafisici, il secondo, viceversa, la metafisica in termini fisici (col ridurre tutto a estensione e movimento). Figura e movimento servono a spiegare i fenomeni, ma non ne sono i principi.
Occorre saper distinguere i due piani, e vedere sul piano metafisico l'origine quieta del moto, e la radice puntuale dell' estensione.
Come si vede, per quanto il rapporto tra fisica e metafisica sia impostato alla maniera di Leibniz, la concezione di fondo è quella, neoplatonica (non dissimile da quella incontrata in Cusano), di una explicatio della virtualità di un essere in se stesso inesteso.
L’insufficienza del “cogito”
Più originale la critica del cogito cartesiano. Vico non contesta l'evidenza della proposizione "penso, dunque sono". Anzi la riporta, argutamente, non ai precedenti che di solito s'invocano a questo proposito (Agostino, Campanella, ecc.), bensì al Sosia di Plauto, che, non sapendo più se lui è lui, o se è un altro, osserva: "Sed cum cogito, equidem certo sum".
Però, osserva Vico, questo "accorgermi di me" non è che un segno della mia esistenza, un indizio. Per conoscere veramente la mia esistenza dovrei farla, cioè dovrei "farrni pensare": e questo non è in mio potere.
Per conoscermi, dovrei conoscermi per causas: ma io non sono causa di me stesso. Dunque, osserva Vico (che, in queste considerazioni sul cogito, non manca di citare anche Malebranche), non è corretto dire che io "sono": si deve dire piuttosto "io esisto" (ex-sisto), cioè spunto fuori dall'essere; e, se sono, "sono" soltanto per partecipazione.
Dio soltanto, propriamente, è. E, rispetto a lui, "impropriamente esplica la sua pietà" chi dice che Dio "esiste", perché Dio non ex-sistit, ma est. Anche questa attenzione a non confondere ciò che "è" con ciò che "esiste", cioè l'essere e l'esserci, è di origine neoplatonica: ma, nella formulazione vichiana, sembra addirittura preludere a vedute modernissime, proprie dell'esistenzialismo.
In conclusione, Vico ha scosso la nozione cartesiana dell' evidenza come attestazione della verità. Le "idee chiare e distinte" stringono perfettamente la esteriorità del reale, ma non penetrano nelle sue radici metafisiche.
E il cogito, a cui Cartesio àncora ogni evidenza, non è che un segno, per quanto certo, che non serve a costruire la scienza.
Filologia e filosofia
Poiché dunque il mondo fisico, che l'uomo trova come un dato, non si può conoscere che in superficie, Vico si dà a indagare un diverso campo, in cui l'uomo è più profondamente creatore, a imitazione, per quanto labile, della creatività divina.
Questo campo è il mondo della civiltà. Infatti: "questo mondo civile certamente è stato fatto dagli uomini: onde se ne possono ritrovare i principi dentro le modificazioni della nostra medesima mente umana". E, dopo aver affrontato con questo intendimento il problema del diritto, Vico si accinge a costruire tutta una "scienza nuova" secondo i suoi principi: una scienza della civiltà in tutte le sue manifestazioni.
Questa scienza abbraccia due ordini di ricerche:
1) l'accertamento di come le civiltà si sono sviluppate;
2) l'interpretazione dei principi eterni che presiedono a tale sviluppo.
In altri termini: la filologia e la filosofia. La filologia riguarderebbe, in senso stretto, la storia delle parole: ma le parole sono manifestazione del pensare, del sentire, del vivere stesso dell'uomo; sicché per Vico l'oggetto della filologia è la storia tutta quanta, il cui studio ha come scopo il certo.
La storia, come successione cronologica di avvenimenti, è regolata da un ritmo e da una legge che rimangono sempre eguali: cioè da una sorta di "storia ideale eterna", sulla quale "corrono in tempo le storie di tutte le nazioni". Penetrare fino a questa matrice eterna della storia umana è il compito della filosofia, il cui scopo è il vero.
La Provvidenza
In che senso, però, gli uomini "fanno" la storia? Sono forse consapevoli, fin da principio, delle leggi che guidano lo sviluppo della civiltà? Indirizzano forse la loro azione verso le mete a cui la storia dovrà arrivare? Per nulla affatto. A tutta prima gli uomini non pensano minimamente alla storia. Perseguono ciascuno i propri fini, grandi o piccoli che siano, e badano a ottenere come meglio possono il proprio vantaggio.
E mentre gli uomini perseguono ciascuno i propri fini, la storia si fa; e si fa attraverso gli uomini, con il concorso, anzi, per mano degli uomini, anche se essi non ci badano affatto.
Qui il principio che il verum coincide col factum subisce una certa alterazione: vi sono fatti che gli uomini fanno, pur senza intenderne il vero senso.
Ma questa constatazione non distrugge il principio.
Gli uomini non sono soli a fare la storia, perché chi, per mezzo di loro, conduce la storia ai suoi fini è Dio. Gli uomini sono strumenti della Provvidenza: ma ne sono strumenti sempre più consapevoli; e, in questo, vengono a partecipare sempre più coscientemente di quel fare le cose dall'interno che, alla sua origine, è un fare divino.
Dapprima gli uomini sentono oscuramente la forza provvidenziale che li guida; poi se la rappresentano fantasticamente; da ultimo, giungono a riconoscerla per quello che è: un ordine eternamente voluto da Dio per indirizzare la vita dell'uomo.
Fa parte di questo stesso ordine provvidenziale il fatto che gli uomini ne acquistino coscienza solo gradatamente: sicché la mente umana è ordinata in guisa da sviluppare via via, in forma sempre più esplicita, ciò che in origine possedeva solo implicitamente: "gli uomini prima sentono senza avvertire, dappoi avvertono con animo perturbato e commosso, finalmente riflettono con mente pura". Dunque il senso della storia è un progressivo convergere della consapevolezza umana con il piano provvidenziale.
Dapprima gli uomini seguono le tracce della "storia ideale eterna" senza rendersene conto: ma, alla fine, la coincidenza tra ciò che fanno e il corso provvidenziale diventa consapevole .
In quest'ultima fase, di una "ragione tutta spiegata", giunge alla sua pienezza la filosofia, e si annunzia la "scienza nuova": "Perciò questa scienza, per uno dei suoi principali aspetti, deve essere una Teologia civile ragionata della Provvidenza divina": non già rispetto al mondo fisico (al quale la Provvidenza fu a volte ristretta), bensì al mondo storico.
Essa "dee essere una dimostrazione, per così dire, di fatto istorico della Provvidenza, perché dee essere una storia degli ordini che quella, senza verun umano scorgimento o consiglio, e sovente contro gli stessi proponimenti degli uomini, ha dato a questa gran città del genere umano".
Origini della civiltà
Nel corso dello sviluppo provvidenziale della sua esistenza consapevole, l'umanità passa attraverso tre stadi: senso, fantasia, ragione; e anche il singolo li ripercorre, nel suo passaggio dall'infanzia alla maturità. Perciò le degnità (o "assiomi") che Vico premette - come principi da cui tutto il resto discende - alla sua trattazione, abbracciano promiscuamente sia la psicologia individuale, sia l'evoluzione delle nazioni, che seguono un andamento analogo.
Sullo stadio originario, in cui gli uomini erano "bestioni tutto senso", Vico si sofferma relativamente poco: anche perché la "filologia" non gli offriva molti documenti in proposito. Esso è piuttosto un termine di confronto ideale, a cui raffrontare gli stadi successivi.
Qualcosa di simile allo "stato di natura" di Hobbes, in cui gli uomini vagavano "da fiere per la gran selva della terra", preda dei loro istinti immediati. Storicamente, Vico colloca questa fase subito dopo il diluvio universale e le altre grandi catastrofi descritteci dalla Bibbia.
In seguito, tre istituzioni segnano il passaggio a un principio di civiltà: il culto religioso, la celebrazione dei matrimoni e il seppellimento (o altre cure) dei morti; "perciò abbiamo presi questi tre costumi eterni ed universali per tre primi principi di questa scienza".
L'istituzionalizzarsi di questi costumi implica l'esistenza di un certo ordinamento civile, e quindi il riconoscimento di un diritto oggettivo, il quale vien fatto risalire a una delle tante divinità che gli uomini - dimentichi del vero Dio, e impauriti dalle forze della natura - si sono formate.
Perciò la civiltà, o "condizione di civis" in contrapposto alla condizione del "selvaggio" (che abita le selve) data, come dirà Foscolo (che porta nei Sepolcri anche argomenti tratti dalla Scienza nuova), "dal dì che nozze, tribunali ed are diero alle umane belve esser pietose di se stesse e d'altrui".
La fantasia e la scoperta del vero Omero
Ai primordi della civiltà gli uomini si trovano in una condizione non troppo dissimile da quella dei fanciulli, nei quali "è vigorosissima la memoria, quindi vivida all'eccesso la fantasia, ch'altro non è che memoria dilatata e composta" (degnità n. 50).
Soggetti a forti passioni, essi traducono naturalmente le loro passioni in immagini: prima in atteggiamenti del corpo, poi in immagini visive, infine in parole, che tuttavia hanno ancora un senso tutto immaginoso e metaforico, e non semplicemente concettuale.
Sicché le lingue nascono come poesia, prima che come prosa, e la poesia nasce come canto. Infatti "i mutoli mandan fuori suoni informi cantando"; e "gli uomini sfogano le grandi passioni dando nel canto".
In questo stadio fantastico, quel contatto con la divinità che si era oscurato ma non spento nello stadio ferino, si rifà cosciente, ma sempre in forma di fantasia: "I primi uomini delle nazioni gentili, come fanciulli del nascente genere umano [...] creavan gli dei in forza di una corpulentissima fantasia; e perché corpulentissima, lo facevano con una meravigliosa sublimità".
C'è, in questa fantasia dei primitivi, una verità, che tuttavia non si esprime in forma di concetti, e raggiunge il livello immaginativo, ma non quello razionale della conoscenza: è la verità di quella che Vico chiama sapienza poetica, perché è impersonata nei più antichi poeti, e in primo luogo in Omero.
Gli antichi avevano ritenuto Omero il più grande sapiente: ma ciò che egli ci dice e ci descrive giustificherebbe ben poco tale veduta, se la sapienza fosse misurata con il metro della ragione.
Il fatto è che la sapienza degli antichi vati non era una "sapienza riposta", che essi fossero in grado di giustificare concettualmente: era una "sapienza poetica", "non ragionata ed astratta, qual è questa or degli addottrinati, ma sentita e immaginata, quale dovett'essere di tai primi uomini, siccome quelli che erano di minimo raziocinio e tutti robusti sensi e vigorosissima fantasia".
Anzi, Vico ha un'idea sua a proposito di Omero; e quindi al libro II della Scienza nuova, in cui tratta "della sapienza poetica", fa seguire il libro III, sulla "discoverta del vero Omero". Omero non fu una persona bensì il genio poetico dell'intero popolo greco: "perciò i popoli greci cotanto contesero della di lui patria, e il vollero quasi tutti lor cittadino, perché essi popoli greci furono questo Omero".
Più tardi, indipendentemente da Vico, quest'idea fu ripresa da Friedrich August Wolf (Prolegomena ad Homerum, 1795) che sollevò la cosiddetta "questione omerica", venendo incontro a un tipico bisogno dei romantici.
Infatti il romanticismo in genere concepì, come Vico, una poesia che sorge dallo spirito di tutto un popolo, prima di prendere stanza in singole persone: una poesia dunque come linguaggio primitivo dell'umanità.
Le tre età della storia
All'età degli dei, in cui la civiltà comincia a formarsi, e a quella degli eroi (di pretesa discendenza divina) che Omero ci descrive, segue l'età degli uomini che, in Grecia, si può collocare circa ai tempi di Platone. Questo passaggio comporta tutto un insieme di trasformazioni, che il Vico ci descrive nel libro V. I costumi, prima feroci, poi "collerici e puntigliosi", si fanno ora più umani. Al diritto divino e a quello eroico della forza, succede il diritto umano.
Ai governi teocratici e aristocratici, governi che si ispirano all'eguaglianza. Alle lingue "per atti mutoli religiosi", o "per imprese eroiche" (insegne, motti, stendardi, ecc.), seguono le lingue alfabetiche scritte; e così via.
Nell'insieme, "l'ordine delle cose umane procedette, che da prima furon le selve, dopo i tuguri, quindi i villaggi, appresso le città, finalmente le Accademie" (degnità n. 44).
Ma gli aspetti di questa evoluzione non sono tutti positivi. L'ingentilirsi dei costumi finisce col rammollire la fibra degli uomini, le comodità trovate dalla ragione li disavvezzano dal sopportare le avversità, l'addolcirsi e aggrovigliarsi del diritto incoraggia i tentativi di eluderlo; l'esercizio del ragionamento isterilisce la fantasia, e l'abitudine di pensare per concetti astratti inaridisce le fonti della creatività.
La civiltà, giunta al suo culmine, degenera, e finisce col soffocare in quelle stesse risorse che produce, e di cui si alimenta. Gli uomini, dice un'altra degnità (n. 46), "prima sentono il necessario, dipoi badano all'utile, appresso avvertiscono il comodo, quindi si dissolvono nel lusso e finalmente impazzano in istrapazzare le sostanze".
Corsi e ricorsi storici
Ciò pone le premesse di un ritorno di quei "tempi barbari" che la civiltà si era lasciati alle spalle; e la seconda edizione della Scienza nuova ci descrive questo ritorno nel libro V: "Del discorso delle cose umane nel risurgere che fanno le nazioni". Caduta la filosofia nello scetticismo, corrotti gli Stati democratici, indebolite si le genti, quell'ordine civile che si era lentamente perfezionato si deteriora, e minaccia di precipitare.
A volte, l'instaurarsi di un regime assoluto riesce a tenerlo in piedi per qualche tempo. A volte, una nazione straniera meno corrotta sottomette l'altra. Ma altre volte, perché gli uomini ritrovino la freschezza perduta, non rimane che un bagno di barbarie: rimedio provvidenziale, anche questo, a una decadenza che nasce da un eccesso di raffinatezza.
E allora tutto ricomincia da capo: regimi teocratici, costumi eroici, linguaggi simbolici e, via via, tutte nello stesso ordine, le manifestazioni già incontrate nel corso primitivo. Il nuovo corso della civiltà torna a ripercorrerle; ma non senza che gli uomini conservino in sé, per quanto oscurato, qualcosa di ciò che la civiltà precedente ha prodotto.
Sicché il percorso si svolge, questa volta, a un livello alquanto più alto, anche se ripassa attraverso le stessi fasi. Analizzando la civiltà medievale, e confrontandola con quella dei tempi arcaici, Vico trova numerosissime analogie, senza per questo misconoscere le novità che caratterizzano il nuovo ciclo rispetto all'antico.
La legge della storia
Possiamo, a questo punto, cercar di raccogliere i tratti salienti dell'originalità vichiana. Anzitutto quel modo di giungere alla verità filosofica attraverso una considerazione della storia. La storia era sempre stata ritenuta il regno dell'accidentale: inadatta, perciò, a rivelare verità eternamente valide.
È vero che la concezione teologica della storia (a cominciare, perlomeno, da Sant'Agostino) aveva visto nella storia lo svolgimento di un disegno provvidenziale: ma tale disegno riguardava pur sempre uno o più eventi, singoli e particolari (da ultimo, la salvezza dell'uomo), e non costituiva una struttura platonicamente sovrastante gli eventi storici e al tempo stesso presente in essi, come loro legge interiore.
Per Vico, invece, proprio questo si rivela nella storia: non una singola volontà provvidenziale, ma una legge provvidenziale; una "storia ideale eterna", che è come una costante, attraverso l'infinito variare della storia.
Una costante, però, non astratta, perché è la matrice stessa da cui la storia si genera.
Per questa stessa ragione, attraverso la storia si conosce la vera essenza dell'uomo. La storia si sviluppa secondo un ritmo e una legge perché l'uomo, che fa la storia, ha una sua natura, cioè una certa "guisa di nascimento", un suo modo di nascere, non solo fisiologicamente, alla vita, ma storicamente, alla civiltà.
La natura dell'uomo, che la storia permette di conoscere, non è dunque il modo in cui l'uomo è fatto, bensì il modo in cui l'uomo "si fa", in quanto uomo civile. Anche questa natura ha una sua configurazione ideale ed eterna, da cui la configurazione della storia dipende: e il Vico ce la sa mostrare.
Come si vede, Vico (contrariamente a certi "storicisti" del tardo Ottocento) non si serve affatto della storia per stabilire un "relativismo" ossia per rendere i valori relativi alle inclinazioni, ai modi di pensare, nelle varie epoche che mutano.
Al contrario (questo è il suo paradosso) si serve della storia, cioè di eventi labili, che scorrono nel tempo, per cogliere strutture che egli stesso, da buon platonico, chiama "ideali" ed "eterne".
Ma - secondo lo spirito del platonismo genuino - egli non intende per questo tali strutture in modo rigido e astratto: esse sono piuttosto forme che generano dall'interno lo sviluppo storico, secondo leggi costanti, le quali, per altro, si attuano in eventi sempre nuovi; e solo attraverso il riconoscimento della singolarità di questi eventi (nella filologia) l'uomo può giungere a intravedere la costanza delle leggi (nella filosofia).
La verità implicita
Altro punto di estremo interesse è il modo in cui, per Vico, l'idea provvidenziale è presente nella storia. La Provvidenza è presente nella storia per mezzo dell'uomo, poiché fa la storia attraverso l'uomo. Tuttavia non è sempre presente allo stesso modo. Solo alla fine (e solo in alcuni uomini) è presente sotto forma di idea esplicita e completamente riflessa.
Ai primordi, essa era presente in modo talmente oscuro che l'uomo non avrebbe saputo minimamente riconoscerla. Nella fase intermedia, poi, è presente in forma fantastica, come un universale fantastico che, pur avendo in sé tutto il contenuto della verità, lo presenta in veste di immagine, non di concetti.
Le "idee chiare e distinte" cessano, così, di essere il criterio esclusivo della verità. Esse sono atte a cogliere la verità solo nel suo stadio di estrema concettualizzazione. Se, però, isolassimo questa fase ultima dal processo che l'ha generata, trascurando le origini oscure, e poi le forme fantastiche attraverso cui la verità è passata, non coglieremmo più la verità, ma solo una sua astrazione. Il cartesianesimo non potrebbe essere criticato più a fondo.
Occorre dunque capire che nell'uomo la verità c'è già tutta, fin dal principio, come forma generatrice della storia. Essa è presente come "storia ideale eterna", cioè, in sostanza, come idea-guida dell'operare divino, che, per mezzo dell'uomo, a poco a poco si attuerà. Quest'idea è totale e indivisibile: non potrebbe esserci in parte e in parte no; e l'uomo è un uomo precisamente perché essa è presente in lui, e fa di lui una immagine e somiglianza di Dio: ossia un veicolo e intermediario della stessa creatività divina.
Ma l'idea divina, pur essendo presente sempre, non è sempre presente in forma spiegata. Essa si presenta dapprima in forma incoativa e virtuale, e si fa luce solo a poco a poco nella coscienza. In questo senso la verità è storica per l'uomo: non perché sia relativa, ma perché viene in luce e si sviluppa storicamente, presentandosi, nella sua totalità, sotto forme diverse.
L’universale fantastico
Un particolare interesse presenta la fase intermedia dello storicizzarsi dell'idea: la fase dell'universale fantastico cioè, in sostanza, della poesia, che Vico studia con un criterio tutto nuovo. Da un lato egli riconosce nella poesia una "sapienza", cioè la presenza della verità o dell'idea; ma, da un altro lato, egli nega che l'idea vi sia pensata in forma concettuale, per esser, poi, semplicemente ornata di immagini, o velata in allegorie.
Si tratta, al contrario, di una verità in forma fantastica, che non è più la presenza affatto oscura dell'idea nei bestioni primitivi, che cominciano appena a svegliarsi, ma non è neppure ancora la consapevolezza riflessa del filosofo dell'età delle Accademie: è una forma intermedia, irriducibile alle altre due.
Con ciò Vico mette in luce il carattere rivelativo della poesia, pur senza pensare, sotto questa rivelatività, una più o meno velata trama concettuale. Infatti, per lui, il pensare per concetti giunge solo da ultimo nella storia della verità, dopo che la verità era già stata presente, prima in forma implicita, poi in forma fantastica.
L'arte ottiene pertanto una sua autonomia rispetto al concetto, ma anche, al tempo stesso, una apertura immediata sulla verità profonda dell'essere. La poesia è mediatrice tra il senso della verità, colto del tutto oscuramente nel sentimento che urge violento nell'umanità primitiva, e l'esplicarsi concettuale della verità, proprio dell'umanità matura.
Il linguaggio
L'origine del linguaggio riceve, da questa concezione, una luce inaspettata. I filosofi si erano sempre industriati a spiegare il linguaggio come il risultato di un accordo convenzionale tra un gruppo di uomini, che avrebbero stabilito di chiamare le cose con certi suoni; oppure - sembrando difficile mettersi d'accordo sul valore dei suoni senza possedere già un linguaggio - avevano considerato il linguaggio come un dono divino. Per un verso o per l'altro, entrambe queste dottrine rinunciavano a una spiegazione.
Per Vico, al contrario, il parlare nasce, come poesia, anteriormente ad ogni convenzione (perché il "convenire" è proprio solo della successiva fase concettuale); ma, pur come linguaggio poetico, può immediatamente dar luogo a concetti, e quindi a significati convenzionali: perché la poesia non è pura immagine, ma è rivelativa dell'essere; è già tutta la verità, che si sta esplicitando, sebbene in forma ancora preconcettuale.
Dunque, il significato "universale" (che contraddistingue la parola) non ha bisogno di aggiungersi alla poesia dall'esterno, per opera del concetto: esso nasce all'interno della poesia, come "universale fantastico" da cui il concetto deriva. Questo nascere delle lingue dalla poesia (così intesa) spiega, a un tempo, la libertà e molteplicità delle lingue, e la loro capacità di significare universalmente, cioè di servire al pensiero concettuale.
Questa peculiarità della lingua risulta chiara, se si paragona il valore di un segno linguistico qualsiasi (parola) a un segnale. Quest'ultimo può benissimo avere un significato (o per convenzione, o anche, come tra gli animali, per un istinto naturale): non è, tuttavia, un segno linguistico, perché non ha un significato "universale", cioè comune a una pluralità aperta, non prefissata, di situazioni; di conseguenza, non è metaforico, cioè "trasportabile" da una situazione all'altra, e non è rivelativo, ma solo indicativo.
Appunto per questo fatto, di essere lingua allo stato nascente, la poesia originaria dev'essere concepita, secondo Vico, come prodotto dello spirito di un'intera nazione e non di uno o più singoli, i quali potrebbero poetare solo presupponendo già un linguaggio preesistente (come accade, infatti, nella poesia posteriore).
Con la Scienza nuova Vico pone dunque, agli inizi del Settecento, i fondamenti di una nuova filosofia storica, estetica, linguistica, giuridica: insomma, di tutto un nuovo modo di concepire il rapporto tra la verità e il divenire.
La sua comparsa nella cultura italiana - che, dopo Galilei, non aveva più dato filosofi di rilievo - è un avvenimento che non si può certo spiegare con l'eco vivace, seppur ritardata, che grandi filosofie secentesche (Hobbes, Malebranche, Leibniz) aveva suscitata nel sensibilissimo ambiente culturale napoletano; e neppure con il fiorire in Italia di una ricerca erudita, che poteva vantare un Ludovico Antonio Muratori (1672-1750), col quale era stato in rapporto anche il Leibniz.
La novità di Vico sta soprattutto nel passaggio dal riconoscimento che la nostra conoscenza del mondo fisico, per quanto esatta, rimane esteriore ma che c'è, però, un mondo che facciamo noi, o che, almeno, non si fa senza di noi: il mondo della storia.
Nella storia agisce sì la Provvidenza divina, ma vi agisce per mezzo degli uomini che, pertanto, possono prendere coscienza dall'interno del divenire storico. Di questa conoscenza vuol porre le basi la Scienza nuova di Vico, che è una scienza delle civiltà nel loro divenire.
Essa si vale della filologia, che accerta i fatti, e della filosofia, che appura le leggi ideali, sovratemporali, a cui i fatti obbediscono.
Anche confrontato col nascente illuminismo, Vico rimane un genio solitario, e l'efficacia che avrebbe potuto esercitare il suo pensiero rimase assai circoscritta. Ma, a distanza di tempo, la sintesi vichiana si presenterà come una delle espressioni fondamentali del pensiero europeo.