John Locke (pronuncia: Loc) nacque a Wrington (Bristol), in Inghilterra, nel 1632. Il padre avvocato aveva militato nella prima rivoluzione inglese al fianco di Cromwell.
Nel 1652 Locke inizia gli studi a Oxford, ove prevalgono gli indirizzi culturali della scolastica e il puritanesimo.
Tuttavia il clima è abbastanza liberale e favorevole ai protestanti per la lungimirante politica del cancelliere dell'università, John Owen, e per la politica culturale aperta dei cromwelliani.
Nel 1658 Locke diviene maestro nelle arti e intraprende a Oxford l'insegnamento universitario.
Entra in amicizia e collabora nella ricerca con il fisico e chimico Robert Boyle e con il medico Thomas Sydenham, entrambi grandi fautori del metodo sperimentale.
Nel 1660 compone alcuni scritti, rimasti inediti, sui poteri del magistrato civile, difendendo l'autonomia dello Stato rispetto alla religione.
Più tardi compone anche il Saggio sulla legge di natura (1664), seguito nel 1667 dal fondamentale Saggio sulla tolleranza, con il quale si inaugura il pensiero politico e religioso del liberalismo inglese.
Intanto, nel 1665, Locke compie un primo viaggio sul continente, accompagnando l'ambasciatore inglese presso l'Elettore del Brandeburgo in Germania.
Nel 1668, per i suoi studi di scienze naturali, Locke viene eletto membro della Royal Society di Londra.
Entra in dimestichezza con Lord Ashley, conte di Shaftesbury, e quando questi viene nominato Lord Cancelliere ne diviene segretario e precettore dei figli.
Abbandona perciò l'insegnamento a Oxford e si trasferisce a Londra presso il protettore.
Ma nel 1675 Shaftesbury cade in disgrazia presso il re Carlo II.
Anche Locke abbandona allora le sue cariche e trascorre un periodo viaggiando in Francia e in Italia, anche per curarsi da una malattia di petto che minerà a lungo la sua salute.
Nel 1679 Shaftesbury riprende la sua azione politica, ora come capo del partito liberale (whig), in netta antitesi alla politica assolutistica di Carlo II, e Locke accorre al suo fianco.
Nel 1681, accusato di tradimento e imprigionato, Shaftesbury viene liberato a furor di popolo.
Tenta allora un colpo rivoluzionario, che però fallisce e si rifugia in Olanda, ove muore l'anno successivo.
In Olanda accorrono ormai i principali capi del partito whig per preparare dall'esterno un'azione contro Carlo II.
Locke invece torna dapprima a Oxford, dove riprende l'insegnamento universitario, ma poiché i partigiani del re spiavano ogni sua parola e ogni sua azione finisce per rifugiarsi a sua volta in Olanda, sotto falso nome, onde sfuggire alla richiesta di estradizione avanzata dal governo inglese.
Nel 1685 Locke compone l'Epistola de tolerantia.
Giacomo II, succeduto a Carlo II, gli concede il perdono, ma Locke non accetta di tornare in Inghilterra.
Egli è ormai in relazione con Guglielmo d'Orange e con il partito che va preparando la rivoluzione liberale che nel 1688 porrà l'Orange sul trono inglese.
Nel 1689 Locke torna in Inghilterra al seguito di Maria, moglie dell'Orange.
Il ruolo di teorico della rivoluzione unanimemente riconosciutogli potrebbe ora valergli l'assunzione di importanti cariche, che gli vengono infatti offerte.
Locke però rifiuta, preferendo dedicarsi ai suoi studi.
Interverrà nondimeno più volte, in veste di consigliere giuridico ed economico, negli affari pubblici.
Nel 1690 pubblica il Saggio sull'intelletto umano (il suo capolavoro) al quale lavorava da parecchi anni. Pubblica anche i Due trattati sul governo, che compendiano la teoria liberale dello Stato e sono il suo capolavoro politico.
Nel 1691, non essendosi mai formato una famiglia, Locke accetta l'ospitalità di Sir Francis Masham nel castello di Oates, presso Londra.
Qui trascorrerà serenamente i suoi ultimi anni.
Nel 1693 pubblica i Pensieri sull'educazione e nel '95 il Saggio sulla ragionevolezza del cristianesimo, libro che ispirerà il movimento del deismo inglese.
Nel 1704 Locke muore a Oates, Essex, a 72 anni di età.
Posto di fronte alle dilaganti lotte religiose del suo tempo, all'intolleranza e al fanatismo che mascheravano sovente precisi interessi economico-politici, Locke, non meno di Hobbes, sostenne sin da giovane l'esigenza di uno Stato forte e rigorosamente laico, cioè non confessionale.
Ma a differenza di Hobbes, soprattutto con il passare degli anni, egli abbandonò del tutto l'idea di uno Stato assolutistico e accentratore, perseguendo invece la teoria di una monarchia costituzionale, limitata nei suoi poteri e soggetta a precisi controlli.
Ma già nel concepire lo stato di natura Locke si distacca nettamente da Hobbes: lo stato di natura non è una condizione di pura violenza e di guerra perenne.
Lo stato di natura ci presenta anzi già la base di quelli che saranno i perenni diritti naturali degli individui: il diritto alla vita, alla libertà e alla proprietà (intendendosi per proprietà legittima il frutto diretto del proprio lavoro e non l'appropriazione del frutto del lavoro altrui).
Il passaggio allo stato civile non è che il rafforzamento e il perfezionamento dei diritti naturali.
In particolare: mentre nello stato di natura ognuno è giudice della propria causa e ha il diritto di farsi giustizia da sé (con gli inconvenienti immaginabili che ne derivano), nello stato civile il diritto di dirimere le contese e di far giustizia è affidato a un terzo, cioè a un magistrato liberamente scelto.
Ne consegue che la sovranità dello Stato è legittima solo se:
1) rispetta e fa rispettare i diritti naturali dei cittadini;
2) si fonda sul consenso popolare, cioè sul parere della maggioranza;
3) favorisce l'interesse comune della maggioranza, consentendo una vita il più possibile prospera e felice.
Se uno Stato viene meno a queste funzioni, allora la rivoluzione da parte dei cittadini è del tutto legittima.
Lo Stato infatti non deve limitare la libertà di pensiero e di fede dei cittadini, né deve in alcun modo coartare la loro libera iniziativa.
Questi aspetti privati della vita devono mantenersi liberi dal controllo statale.
D'altro canto nessuna setta religiosa o d'altra natura può pretendere di imporre il proprio credo allo Stato, usandolo come suo strumento secolare.
È per questo motivo che Locke esclude dalla tolleranza, da lui propugnata, i cattolici, che pretendono sovente di imporre la loro religione come religione di Stato.
Esclude altresì gli atei in quanto essi, contraddicendo al naturale sentimento religioso diffuso tra gli uomini, non offrirebbero sufficienti garanzie di socievolezza e di pietà: essi, per esempio, non potrebbero impegnarsi davanti a Dio a recare testimonianza veritiera in un processo.
Il problema politico e morale si è intrecciato sin dall'inizio, in Locke, con il problema schiettamente filosofico della conoscenza.
In questa sede Locke ha combattuto una lunga battaglia contro l'innatismo delle idee.
La gnoseologia moderna ha due correnti principali: una empirista, l'altra razionalista.
La prima privilegia l'esperienza come fonte del sapere; la seconda la ragione, dalla quale trarre proposizioni universali e necessarie senza le quali non potrebbe darsi conoscenza dimostrata.
L'empirismo, come abbiamo già visto in Hobbes, accetta il presupposto cartesiano secondo il quale noi conosciamo solo idee, ma nega che vi possano essere idee innate.
La filosofia inglese aveva sempre avuto (e avrà anche in seguito) un interesse preminente per il problema della conoscenza: ma Locke affrontò tale problema da un punto di vista nuovo, e divenne agli occhi di tutti i filosofi del Settecento l'iniziatore di un nuovo tipo di ricerca.
Alcuni accettarono le sue conclusioni, altri le rifiutarono; ma anche costoro presero a discutere il problema della conoscenza secondo il metodo lockiano, che può caratterizzarsi così: primo compito del conoscere è saggiare la possibilità stessa di conoscere, badando al modo in cui le conoscenze si formano.
Si apriva, così, l'era della gnoseologia, o dottrina della conoscenza e questo non nel senso che prima l'interesse gnoseologico non fosse presente o fosse reputato secondario, ma nel senso che la ricerca prima, da questo momento in poi, si svolge a livello essenzialmente gnoseologico.
La filosofia tradizionale aveva affrontato molti problemi metafisici, dandone soluzioni contrastanti, e aveva sempre subordinato il problema della conoscenza a soluzioni metafisiche più generali.
Successivamente il cartesianismo aveva introdotto l'esigenza metodica di una stretta e continua vigilanza sui procedimenti conoscitivi (per evitare passi falsi), senza però per questo porre limiti di estensione alla ricerca razionale.
Locke (che aveva cominciato ad apprezzare la filosofia leggendo appunto le opere di Cartesio), fa sua la cautela cartesiana, ma la interpreta in un modo diverso, cioè come accertamento preventivo dei limiti oltre i quali una conoscenza valida non può più svilupparsi.
Come condurre tale accertamento? La nostra conoscenza è fatta (in termini cartesiani) di idee e attraverso le idee conosce gli oggetti.
Quindi la possibilità o impossibilità di conoscere un certo oggetto dipende dal modo in cui riusciamo a formarcene un'idea.
Qualcuno effettivamente inorridiva nel sentir parlare di idea del giallo, e simili: ma l'uso linguistico era ormai questo.
Le idee di Platone non avevano più nulla a che vedere con questo nuovo significato della parola.
Se il modo in cui le nostre idee in genere si formano è tale per cui non si possa acquisire l’idea di determinati oggetti, sarà inutile indagare intorno ad essi: poiché, fatalmente, incontreremo problemi che la nostra capacità conoscitiva non permette di decidere.
Il fatto è che la definizione che Locke ci dà di idea è abbastanza complessa, se non addirittura non del tutto chiara, nel senso che da un lato egli tenta di conservarne il significato cartesiano e, dall'altro, se ne allontana significativamente: «chiamo idea tutto ciò che lo spirito percepisce in se stesso o che è l'immediato oggetto della percezione, del pensiero o dell'intelligenza».
Ora le idee ci derivano, secondo Locke, da due fonti: la sensazione esterna e la riflessione che la mente può esercitare su se medesima.
Dalla prima fonte otteniamo le idee di tutte le qualità con cui caratterizziamo le cose: i colori, le forme, la durezza, ecc.; dalla seconda fonte otteniamo le idee di tutti i nostri processi di pensiero: percezioni, ragionamenti, volizioni, ecc.
Al di fuori di questa duplice sensibilità, esterna e interna non c'è nessun'altra via per introdurre in noi materiali con cui elaborare una conoscenza.
Né si può pretendere che la mente abbia in sé, fin da principio, idee innate.
Infatti esaminando tutte le idee che si pretendono innate, si troverà sempre un momento iniziale (ad esempio nei bambini, o nei selvaggi) in cui la mente ne era priva: dunque, anche queste idee devono essere state acquisite, e acquisite per le stesse vie per cui acquisiamo le altre.
All'inizio, in altre parole, l'intelletto non è che una tabula rasa (come già aveva detto Aristotele, però con altro intento): cioè una «tavoletta per scrivere», la cui cera è liscia perché non ha ricevuto ancora alcun segno.
Come si vede, Locke non considera l'innatismo al modo in cui lo aveva considerato Cartesio, come capacità autonoma della mente (illuminata da Dio) di formarsi le idee.
Egli ammette bensì che la mente elabori idee, ma sempre col patrimonio di idee semplici fornito dal senso esterno o interno, che la mente riceve del tutto passivamente.
La polemica lockiana è diretta, quindi, soprattutto contro Herbert di Cherbury e le sue cinque idee innate, cioè contro la concezione che l'intelletto abbia in sé certe nozioni senza doverle acquisire dall'esperienza.
L'elaborazione mentale delle idee si limita, secondo Locke, alla composizione di idee più semplici in idee complesse, al raffronto e correlazione di idee (semplici e complesse) tra loro, e, in terzo luogo, all'astrazione, o estrazione da un complesso di idee, che vanno generalmente insieme, di un'idea singola.
Che vi siano idee semplici, non ulteriormente scomponibili, è un assunto che Locke ha in comune con tutta, o quasi, la filosofia del suo tempo, nonostante che non risponda affatto ai dati dell'esperienza, dove troviamo sempre oggetti complessi (proprio come aveva detto Aristotele), che solo per astrazione possiamo scomporre in elementi relativamente (e provvisoriamente) semplici.
Ma quel presupposto è importante, perché permette a Locke di trattare l'attività dell'intelletto come un lavoro di composizione e scomposizione su elementi dati dall'esperienza: la quale è una sorta di influsso, non facilmente spiegabile, che la mente subisce da parte delle cose e di sé medesima.
Alcune delle idee forniteci dall'esperienza esteriore sono la fedele rappresentazione delle proprietà dei corpi: estensione, figura, mobilità, solidità.
Esse rappresentano le cosiddette qualità primarie.
Altre, come i colori, gli odori ecc., pure avendo a loro fondamento le particolari configurazioni dei corpi a cui sono attribuite, non hanno però nessuna somiglianza con le configurazioni medesime.
Come, ad esempio, il piacere cagionatomi da un fiore vellutato che mi accarezza la pelle, non è per nulla simile alla particolare forma dei petali che sfiorano la mia pelle, così la sensazione di rosso non è affatto una qualità simile a quella configurazione corporea che suscita in me.
Ciò dà luogo alla distinzione tra qualità primarie e secondarie, distinzione necessaria per sceverare, nel corpo della conoscenza, ciò che appartiene all'oggetto in sé.
In tutti i casi le nostre idee bastano ad attestarci (contro quanto pensava Cartesio), l'esistenza di oggetti reali.
Lo dimostra, secondo Locke, il fatto che esse ci sopravvengono del tutto indipendentemente da noi, e senza nostra intenzione.
Ma che cosa sono le realtà esteriori che si fan presenti a noi nelle idee?
La tradizione aristotelica aveva chiamato queste realtà sostanze: senonché, analizzando un qualsiasi oggetto reale, troviamo bensì molte qualità, alcune primarie, altre secondarie, ma non troviamo mai qualche cosa che possa dirsi sostanza.
La sostanza, dunque, o si riduce alla somma delle qualità, o è un residuo astratto, indeterminato, a cui la mente giunge dopo aver spogliato la cosa di tutte le qualità effettivamente attestateci dall'esperienza.
Così, esaminando il concetto di sostanza, Locke incontra una difficoltà che Hume si sforzerà più tardi di eliminare, negando ogni valore oggettivo al concetto stesso.
Altre idee complesse che la nostra mente si forma sono i modi: ossia idee di entità che non sussistono per se stessi, bensì come affezione di altre.
La figura, ad esempio; sussiste solo come modificazione dello spazio (che Locke nella sua fase matura, per influsso di Newton, considera come un'idea semplice, che non è una sostanza, ma che non si riduce neppure a pura proprietà delle cose materiali).
Infine vi sono ancora idee complesse che risultano dall'attività della mente, e sono le relazioni: è la mente, infatti, quella che mette in relazione una cosa con l'altra, sebbene in certi casi le relazioni che stabilisce rispecchino immediatamente la realtà.
Questa sembra una proposizione facile da capire, ma lo è solo apparentemente.
Infatti, susciterà in Europa discussioni interminabili: da un lato alcuni ne trarranno spunto per negare che le relazioni in genere (ad esempio: causa, sostanza) abbiano un valore oggettivo.
Altri rovesceranno questa conclusione, affermando che le relazioni hanno valore oggettivo appunto perché sono opera dell'intelletto.
Infine, altri ancora, cercheranno in vario modo di renderle nuovamente intrinseche alla realtà, negando che vi possano essere relazioni puramente esterne tra due termini, e giungendo per questo a una concezione monistica (tutto è uno).
Inoltre, dal problema delle relazioni dipende anche buona parte della filosofia britannica dell'Otto e Novecento.
Grazie, in particolare, alla relazione di somiglianza riscontrata tra alcuni oggetti la mente si forma le idee generali, che per Locke, come per tutta la tradizione occamistica, non hanno rispondenza in una realtà universale, ma sono pure formazioni mentali: perché la realtà è sempre singola e individuale.
A idee generali (o più propriamente, generalizzate: cioè riferite a un gran numero di realtà simili) corrispondono - per una convenzione utile a comunicare ad altri le proprie idee - i termini linguistici, sul cui uso si sofferma lungamente il libro III del Saggio.
L'interesse per il linguaggio era già vivissimo in Hobbes stesso da ciò che si costituisce solo nella mente percipiente.
Questa essendo l'origine della nostra conoscenza, che cosa possiamo conoscere?
Le nostre idee semplici hanno una rispondenza immediata alla realtà e anche le idee di qualità secondarie, pur essendo difformi dalle cose che le provocano, hanno con esse una relazione costante che le rende valide per la conoscenza.
Nelle idee complesse, elaborate dalla mente, può insinuarsi, al contrario, l'arbitrio: come quando componiamo, ad esempio; l'idea di un centauro.
Allora perché la nostra rappresentazione sia vera - ossia, perché le idee che congiunge convengano effettivamente fra loro - non basta che sia esente da contraddizioni: occorre che trovi corrispondenza nella realtà indipendente da noi.
L'idea di una sostanza uomo, ad esempio; è vera perché, a differenza del centauro, serve a designare un complesso di manifestazioni che nell'esperienza si presentano effettivamente congiunte (per quanto oscuro rimanga il nesso reale che le lega).
Locke distingue tre tipi di conoscenze: per sensazione, per intuizione, per dimostrazione.
Nulla, in questo caso, può garantirci che le nostre idee rispecchino esattamente la realtà, anche se è indubbio che esse sono utili all'azione e ai bisogni pratici della vita.
Dobbiamo però ammettere l'esistenza di un sostrato materiale esterno come causa delle nostre sensazioni, poiché nel sentire noi siamo totalmente passivi.
Deve dunque esistere una materia esterna che produce in noi le sensazioni.
È chiaro, tuttavia, che tale corrispondenza del nostro conoscere con la realtà conserva sempre un margine d'incertezza, quando si tratta di nozioni complesse che ci formiamo solo per via indiretta.
In tal caso il nostro conoscere non raggiunge la certezza, ma solo la verosomiglianza: la quale (secondo la terminologia lockiana) è colta per mezzo della facoltà del giudizio.
L'intuizione costituisce il modo più certo di conoscere.
Essa riguarda le conoscenze immediate o intuitive, che possono cogliere, vuoi le singole idee semplici, vuoi anche la loro connessione immediata e anche il caso della nostra stessa esistenza e delle operazioni del nostro spirito, come già diceva Cartesio.
Questo tipo di conoscenze è superiore a ogni dubbio.
Sulla conoscenza intuitiva di connessione immediata si fondano tutte le dimostrazioni matematiche; e si fonda anche, secondo Locke, la dimostrazione dell'esistenza di Dio: perché l'esistenza del mondo, o di noi stessi, rinvia immediatamente a quella di una sua causa, reale ed esterna, non potendo il qualche cosa essere stato prodotto dal nulla.
Il ragionamento può poi aiutarci anche nel campo sterminato della conoscenza probabile, in cui abbiamo a che fare con opinioni più o meno fondate.
Tale è per esempio il campo della storia.
In conclusione, solo tre ordini di realtà possono essere definiti certamente esistenti: la materia (per sensazione), l'io (per intuizione) e Dio (per dimostrazione).
Si è visto che grazie al nesso causale, colto immediatamente per intuizione, Locke, nonostante il suo empirismo, giunge a dimostrare una realtà posta al di là dell'esperienza: Dio.
Ma il concetto stesso di causa sarà messo molto presto in crisi da Hume; e allora la nostra possibilità di conoscere resterà ristretta rigorosamente all'ambito dei fenomeni, ossia di ciò che risulta direttamente.
Il limite della conoscenza umana viene così a definirsi con chiarezza: noi non abbiamo «alcuna conoscenza della costituzione interna e della vera natura delle cose, perché siamo privi di facoltà atte a raggiungerla».
Rifiutata la possibilità stessa di una indagine di tipo ontologico, l'intelletto umano opera dunque, per Locke, secondo i criteri di un rigoroso fenomenismo.
Di qui l'errore della metafisica, che ha preteso di indicare nella sostanza l'essenza della realtà, la ragion d'essere più profonda e vera sottostante alle qualità sensibili, quando al contrario essa non è nulla altro che un'idea complessa risultato della combinazione di idee semplici.
In connessione con il problema della sostanza, viene affrontato quello dell'essenza.
Per Locke, noi non conosciamo mai le essenze reali delle cose, ossia, secondo la nozione aristotelica «ciò per cui una cosa è quello che è».
Tale essenza reale è destinata a rimanere sconosciuta.
Ciò che esprimiamo nelle definizioni delle sostanze sono solo delle essenze nominali, ossia i significati dei termini stessi, necessari per caratterizzare le sostanze.
Quando per esempio diciamo che l'essenza dell'uomo è di essere un animale razionale, comunichiamo semplicemente la nostra intenzione di usare il termine uomo come sinonimo di animale razionale.
Secondo un orientamento radicalmente antimetafisico, l'essenza viene così a riferirsi non più alle cose, ma solamente alle parole.
Cogliere le essenze nominali significa dunque cogliere un insieme di qualità che ci consente di classificare in una data specie una collezione di cose.
Per esempio, l'essenza nominale dell'oro è l'insieme di quelle qualità (un certo colore, peso, malleabilità ecc.), rappresentate dalla parola oro, che sono richieste perché si possa dare il nome medesimo di oro a una certa cosa.
Quale sia tuttavia l'essenza reale dell'oro non è possibile sapere.
«Per questo - scrive Locke - dell'oro hanno miglior conoscenza il chimico e l'orefice, i quali ne fanno continuamente esperienza, che non il metafisico che ne conoscerebbe una presunta sostanza».
Ancora una volta, Locke non mette in dubbio l'esistenza di una «qualche costituzione reale» delle cose.
Ne riserva tuttavia la conoscenza a una mente superiore a quella umana: a quella del Dio creatore e forse, aggiunge, a quella degli spiriti celesti.
La critica lockiana al sostanzialismo della metafisica sarà destinata ad assumere un grande rilievo nel corso della filosofia successiva.
Benché il filosofo inglese si confronti solo implicitamente con la tradizione aristotelica (non distingue adeguatamente per esempio tra la sostanza prima - ossia la cosa singola: questo uomo, questo albero - e la sostanza seconda - cioè i generi e le specie: uomo, albero ecc.), e benché nel Saggio, su questo punto, non venga assunto a esplicito bersaglio critico nessuno degli esponenti del razionalismo secentesco, si può tuttavia affermare che la filosofia di Locke avvia un processo di dissoluzione critica delle metafisiche, e segnatamente di quella cartesiana, che orienterà in modo decisivo sia l'Illuminisrno, sia la riflessione di Kant.
Proprio sul tema della sostanza, l'empirismo lockiano non è tuttavia esente da ambiguità e reticenze.
In primo luogo, pur postulando l'inconoscibilità delle sostanze, Locke ne riafferma l'esistenza.
Malgrado le sue critiche, Locke non si spinge dunque fino a negare l'esistenza extramentale di realtà ultime di tipo sostanziale, quantunque esse non siano mai oggetto possibile di esperienza.
In secondo luogo, accettando la distinzione tra sostanze materiali e spirituali, egli non esce dall'orizzonte ontologico del cartesianesimo.
In terzo luogo, infine, come noterà Hume, la stessa nozione di idea rimane generica e troppo comprensiva (come si ricorderà, idee sono per Locke sia le sensazioni, sia i concetti astratti del pensiero), non discostandosi peraltro da quella cartesiana.
Se si prende a principio del conoscere la sensazione - obietterà Hume - la conoscenza vera dell'oggetto sarà da cercare in quell'atto, non in una riflessione posteriore operata dal pensiero.
Un empirismo rigoroso muoverà dunque la propria indagine dalle sensazioni e chiamerà "idee" non già ogni contenuto della mente, ma solo quelle riflessioni che il pensiero opera in un secondo momento sulla base delle sensazioni.
La posizione lockiana verrà criticata anche da Berkeley, il quale argomenterà come non ci sia alcun motivo di supporre l'esistenza di sostanze materiali esterne e inconoscibili: poiché noi conosciamo solo idee (o meglio, percezioni, nel linguaggio berkeleyano) è più coerente concludere che la sostanza materiale non è che un'idea posta da Dio nella mente dell'uomo.
Locke, tuttavia, è un pensatore storicamente importante, perché il suo Saggio sull'intelletto umano enuncia un problema che diverrà fondamentale per la filosofia: come possiamo conoscere, e con qual diritto riferiamo le nostre conoscenze agli oggetti?
Intorno a questo problema si muoverà buona parte della filosofia del Sette e dell'Ottocento.
La ragione, chiarita nella sua funzione critica dall'analisi lockiana della conoscenza, si pone in certo modo arbitra anche nelle questioni religiose e morali: posizione che suscitò contro Locke non poche censure e polemiche.
I contenuti della rivelazione cristiana sono indubbiamente indispensabili alla fede, riconosce Locke, ma essi si limitano, se si esaminano con cura e senza pregiudizi la Bibbia e il Vangelo, a pochi princìpi ai quali si avvicina spontaneamente il sentimento religioso naturale, presente, secondo il filosofo inglese, in tutti i popoli.
Tutte le sottigliezze teologiche sovrapposte a tali princìpi sono invece prive di valore, tanto più quando esse contraddicano la ragione, il buon senso e l'esperienza.
In nessun caso infatti le verità religiose debbono contrastare con la ragione.
Ma se il cristianesimo viene ricondotto alle sue fondamentali espressioni originarie, cioè alla fede in un essere supremo creatore e alla legge dell'amore fra gli uomini incarnata dalla figura di Gesù, non troviamo appunto in esso nulla di assurdo o di contraddittorio.
Il cristianesimo, liberato dai dogmi teologici degli ecclesiastici, si rivela assolutamente ragionevole, cioè in accordo con il sentimento naturale e con la ragione.
Se lo Stato liberale è il coronamento e la realizzazione degli spontanei sentimenti di collaborazione umana già operanti nello stato di natura, la religione cristiana, ragionevolmente purificata, è il compimento e il perfezionamento del naturale sentimento religioso che vige fra tutti gli uomini.