"Vitruvio fiorentino" chiama Vasari l’Alberti, paragonandolo alla massima autorità dell’antica arte di edificare. Il suo è un omaggio all’autore dei primi trattati moderni di arti visive e costruttive, all’architetto rigoroso e geniale il cui segno inconfondibile si palesa, coniugando valori classici e sperimentazione, nella polifonia di Santa Maria Novella, nel ritmo severo del Tempio Malatestiano, nell’armoniosa dissonanza del Sant’Andrea di Mantova.
Ma il ruolo di Leon Battista Alberti nella cultura rinascimentale è assai più ampio e sfaccettato; siamo di fronte infatti ad un versatile intellettuale che, accanto a quelli di teorico e progettista, assomma in sé i talenti di letterato, linguista, drammaturgo, moralista, pedagogo e matematico.
La sua multiforme attività rappresenta il trait d’union fra l’anima critica e filologica dell’Umanesimo letterario e lo spirito scientifico e geometrico che pervade l’arte di Piero della Francesca, stella della corte d’Urbino di cui l’Alberti è ascoltato referente.
Come gli umanisti leggono gli antichi testi, l’architetto decifra gli antichi monumenti, elaborando un catalogo di norme teoriche e pratiche per costruire secondo ragione manufatti rispondenti a varie tipologie, catalogo corredato di interessanti digressioni urbanistiche. I professionisti cui l’Alberti rivolge i propri trattati non sono più artigiani legati alla tradizione empirica, ma intellettuali che vantano solide conoscenze di matematica, geometria, ottica e scienze naturali.
Il teorico
Leon Battista Alberti, l’altro grande riformatore rinascimentale dell’architettura moderna accanto a Brunelleschi, è diversissimo dal collega, anche perché esponente di una fase ulteriore della professione e della ricerca.
Mentre nella figura di Brunelleschi, pur attento ai problemi teorici e ai canoni classici, prevale l’immagine del costruttore assiduamente presente sul cantiere, in quella dell’Alberti, pur autore di importantissime realizzazioni, prevale il connotato del teorico, dello studioso, dell’umanista "prestato" all’architettura che, fattosi costruttore "dilettante", "scende in campo" al servizio dei potenti e dei prìncipi, guadagnandosi grande fama tra i contemporanei.
Un teorico, d’altronde, che non applica mai pedissequamente le sue stesse teorie; nelle sue realizzazioni, ad esempio, non impiega mai fedelmente le forme degli ordini descritti nel De re Aedificatoria.
Mentre Brunelleschi è l’interlocutore di una municipalità almeno formalmente repubblicana, la committenza dell’Alberti è rappresentata dalla signoria affermata, trasformatasi in principato e sorretta da un numero ristretto di grandi famiglie.
Consiglia infatti l’Alberti al confratello architetto: "Non ti impacciare se non con persone splendide, e con i Principi delle Cittadi, cupidissimi di queste cose". Oltre che per i pontefici, lavora per l’alta borghesia fiorentina, per gli Estensi, i Malatesta di Rimini, i Gonzaga di Mantova, intrattenendo stretti rapporti con Federigo da Montefeltro. La sua fiducia nel potere della virtù che rende l’uomo artefice del proprio destino e nella creatività dello spirito umano è venata di un vago pessimismo.
Dal punto di vista architettonico, come sottolinea André Chastel, nel Brunelleschi prevalgono linea e disegno, nell’Alberti superficie e volume; nel primo scansione e ritmo esplicito, nel secondo consonanze e corrispondenze, nel primo il romanico toscano portato alla perfezione, nel secondo un’ostinata meditazione dei modelli romani.
Le realizzazioni dell’Alberti, tutte ispirate al linguaggio classico dell’antichità, ne fanno rivivere in termini moderni la monumentalità e la solennità, come testimoniano il Tempio Malatestiano di Rimini e Sant’Andrea di Mantova.
La formazione e gli scritti
Figlio naturale del patrizio fiorentino Lorenzo di Benedetto Alberti e di Bianca Fieschi, Leon Battista nasce a Genova il 14 febbraio 1404, dove il padre è esule per decreto degli Albizzi. Studia a Venezia, Padova e Bologna; oltre al latino e al greco, apprende il diritto (si laurea nel 1428 in diritto canonico), ma s’interessa anche di fisica e matematica.
Nel 1428 può rientrare a Firenze; l’ipotesi che fra il 1428 e il 1432 abbia accompagnato in Germania il cardinale Albergati pare poco fondata. In questo periodo scrive una commedia in latino (Philodoxeos, 1424), il trattato De commodis litterarum atque incommodis (1428-29) e l’Amator (1428 ca.). Verso il 1432 è a Roma, presso la cancelleria pontificale; qui, grazie alla benevolenza di Eugenio IV, può prendere gli ordini ecclesiastici e liberarsi così dai problemi finanziari.
Studia appassionatamente le rovine romane e compie esperienze d’ottica. Lavora ai primi due libri del Della famiglia, un trattato pedagogico in volgare. Al seguito di Eugenio IV, esule temporaneo da Roma, torna a Firenze nel 1434; e qui, al contatto con l’avanguardia artistica della città, scrive il De Pictura (1435), che poi tradurrà in italiano dedicandolo al Brunelleschi.
Il trattato, rivolto agli artisti, espone la teoria scientifica della prospettiva, enucleando i presupposti intellettuali dell’attività pittorica. Alberti lavora contemporaneamente al breve trattato De statua, in cui elabora una teoria della proporzione fondata sull’osservazione delle dimensioni del corpo umano, portando avanti anche il Della famiglia, concluso nel 1440.
Per conto di Eugenio IV compie missioni a Bologna, Perugia e Ferrara presso il concilio che riunisce la chiesa romana e bizantina, seguendolo nel suo spostamento a Firenze (1439), dovuto anche a un’epidemia di peste. A Firenze, dove resta sino al 1443, scrive l’importante dialogo Theogenius, dedicato a Leonello d’Este, e lavora agli Intercœnales, intermezzi conviviali ispirati a Luciano, iniziati in gioventù a Bologna.
Nel 1443 è di nuovo a Roma al seguito della corte pontificia; studia matematica, fisica e ottica. Armato di un teodolite di propria invenzione gira la città per rilevarne l’esatta planimetria, integrata nella celebre Descriptio urbis Romæ, testimoniando i propri interessi urbanistici.
Termina i Ludi mathematici, importanti studi di meccanica, ottica e geodesia pubblicati nel 1452; pur scrivendo l’apologo politico Momus, una satira del potere e della vanità che pare anticipare temi e motivi dell’Elogio della pazzia erasmiano, si dedica principalmente all’architettura, consigliando papa Niccolò V nella sua opera di restauro dell’antica Roma e di rinnovamento della città.
Le realizzazioni e i trattati
A Leon Battista Alberti è verosimilmente attribuita la concezione della facciata del palazzo Rucellai (1450-60?), a Firenze, appartenente alla grande famiglia arricchitasi col commercio della lana, e costruito in due riprese (1448-55 e 1457-69 circa) col concorso determinante di Bernardo Rossellino.
Due cornici d’ispirazione classica suddividono la facciata in tre piani, ognuno dei quali è caratterizzato da lesene appartenenti a ciascuno dei tre ordini classici (dorico, ionico e corinzio) che spiccano sul bugnato a conci levigati; si tratta di una contaminazione di ordini senza precedenti a Firenze, ispirata a monumenti antichi come il Colosseo o il Teatro di Marcello, che inoltre, nelle cornici, cita esplicitamente l’architettura romana, adottando una sorta di opus reticulatum per il basamento.
Nel 1450 Alberti è invitato a Rimini da Sigismondo Pandolfo Malatesta per rimaneggiare la chiesa di San Francesco, destinata a mausoleo dinastico e perciò detta Tempio Malatestiano. L’opera, incompiuta, adotta un linguaggio modernamente classica; è priva della parte superiore della facciata, della fiancata sinistra e della tribuna, sulla quale era prevista una spaziosa cupola, poi non realizzata. Le proporzioni obbediscono a una complessa rete di rapporti modulari.
Nel 1452 Alberti dedica al pontefice il trattatoDe re Aedificatoria, l’opera sua più celebre, pubblicato a Firenze nel 1485. Fra il 1457 e il 1458 realizza, su richiesta di Giovanni di Paolo Rucellai, la facciata di Santa Maria Novella; nel 1467 realizza la preziosa edicola del Sepolcro Rucellai, nella chiesa di San Pancrazio.
Lodovico Gonzaga lo chiama a Mantova per affidargli la costruzione di San Sebastiano (1460), anch’esso incompiuto (la facciata prevista dall’Alberti non sarà mai realizzata), e il progetto di Sant’Andrea (1470-71), la cui cupola è eretta dallo Juvara nel Settecento.
A Mantova l’Alberti, accompagnato dal fedele Matteo de’ Pasti che, come a Rimini, segue l’esecuzione dei suoi progetti, conosce Luciano Laurana, Andrea Mantegna e l’architetto ducale Luca Fancelli. Tornato a Roma, vi risiede sino alla morte, avvenuta nell’aprile del 1472.
''De re Aedificatoria''
Negli anni Quaranta del XV secolo, su richiesta di Leonello d’Este, Leon Battista Alberti lavora a un commentario del De architectura di Vitruvio; ma dinanzi alle oscurità e alle incoerenze del testo vitruviano decide di elaborare egli stesso un trattato ispirato a quello del grande architetto romano ma adattato alle esigenze moderne.
Il De re Aedificatoria, in dieci libri come l’opera di Vitruvio, è il primo trattato di architettura del Rinascimento, e assicura la fama dell’Alberti presso tutti gli umanisti. Dopo l’introduzione, dedicata al ruolo sociale dell’architetto - intellettuale formato nelle arti liberali — e in cui si sottolinea la priorità del progetto rispetto all’esecuzione, i primi tre libri trattano rispettivamente del disegno, dei materiali e dei principi strutturali. I libri dal IV al X si occupano, con un’accurata casistica, dell’architettura civile, dalla scelta dei siti alle tipologie di edifici pubblici e privati.
Qui l’Alberti delinea la propria concezione della città ideale, dall’impianto razionale, con edifici allineati ai lati di ampie arterie rettilinee - tutto il contrario della città medievale, anche se i quartieri popolari, come annota l’aristocratico architetto, possono avere anche strade anguste e tortuose. Da Vitruvio Alberti riprende i principi di firmitas, utilitas, venustas.
La bellezza per lui è, sulle tracce del grande teorico romano, armonia e accordo tra le parti, che formano un insieme costruito secondo un canone fisso, quello della simmetria, la legge più alta e più perfetta della natura (IX, cap. V).
Il De re Aedificatoria è anche il primo testo moderno a parlare in dettaglio degli ordini architettonici, pur senza dare una precisa definizione del concetto di ordine; a partire dalle notazioni di Vitruvio, Alberti descrive gli elementi tipici dell’ordine toscanico, dorico, ionico e corinzio.
Elencando basi, colonne e trabeazioni pertinenti ai vari ordini, egli afferma il primato della nazione etrusca, ossia toscana, ritenendo che l’ordine omonimo sia il più antico, mentre chiama "italico" il capitello composito. Il suo trattato avrà grande fama, ma anche una diffusione limitata per il fatto di essere stato scritto in latino e pubblicato relativamente tardi (1485).
Il linguaggio classico
Nella facciata di Santa Maria Novella, divisa in due ordini restringentisi e collegati da due volute laterali, spicca il timpano del tempio greco, secondo una formula che sarà ripresa e divulgata da Antonio da Sangallo il Giovane nelle sue chiese romane.
La facciata di Santa Maria Novella deve tenere conto di elementi preesistenti di aspetto gotico, come i portali laterali; il principale problema affrontato dall’Alberti è proprio il collegamento fra i due livelli, realizzato attraverso l’inserimento di un alto attico liscio e completando la composizione con tarsie marmoree ispirate al romanico fiorentino di San Miniato.
Grazie a un’implicita rete di rapporti modulari basati sul quadrato e sul cerchio, la facciata acquista armonia e bellezza. Come sottolinea Rudolph Wittkower, il rapporto dell’edificio e delle sue parti è di uno a due; il rapporto dell’ottava musicale. La facciata è un esempio di applicazione del principio albertiano di mantenere in tutto l’edificio la medesima proporzione.
Nell’incompiuta facciata del Tempio Malatestiano spicca invece, per la prima volta nel Rinascimento, l’arco di trionfo romano (il modello è proprio l’arco trionfale di Rimini), completo di colonne scanalate e tondi celebrativi (una soluzione ripresa in seguito dal Palladio), mentre le fiancate citano le arcate degli acquedotti romani. Anche in questo caso, come in Santa Maria Novella, la decorazione indulge a un gusto arcaizzante che coniuga elementi antichi e citazioni del romanico.
Sperimentazione e innovazione
Dell’Alberti, architetto poco presente sui cantieri grazie alla solerzia del suo collaboratore Matteo de’ Pasti, col quale intrattiene una fitta corrispondenza, si può affermare che tutte le sue realizzazioni, per quanto spesso incompiute, siano di grande importanza per la storia dell’architettura, perché affrontano questioni fondamentali e propongono soluzioni originali.
Tra i problemi principali quello della pianta, centrale o longitudinale; fra le soluzioni proposte, l’adeguamento del linguaggio classico alle facciate di chiese moderne. Nella carriera di costruttore dell’Alberti si può individuare uno spartiacque; se in una prima fase egli si dedica soprattutto alla conquista del linguaggio classico e del suo adeguamento agli edifici moderni (e cristiani), in seguito, con i progetti mantovani, lancia la sfida all’ortodossia, proponendosi di superarla.
Le due chiese da lui progettate a Mantova, in effetti, prefigurano soluzioni che saranno riprese dai maestri del Rinascimento. La chiesa di San Sebastiano, sorta sul sito di un vecchio oratorio, è a croce greca; alla sua pianta centrale si ispireranno Bramante e Michelangelo.
Destinata ad accogliere un numero maggiore di fedeli, la chiesa di Sant’Andrea, a cui si ispira la romana chiesa del Gesù del Vignola, è invece a croce latina. L’edificio è governato da un rigoroso linguaggio modulare; l’ampia navata unica con cappelle laterali, coperta da una volta a botte a lacunari retta dai pilastri intervallati alle cappelle, cita l’architettura romana tardoantica con un ritmo ispirato all’arco trionfale, che ricompare anche in facciata, insieme al timpano triangolare dei templi greci.
L’inusitata associazione, che proprio in quanto tale mira al superamento del canone classico, intende riproporre anche all’esterno il ritmo parietale della navata.
Si tratta di una soluzione un po’ artificiosa, che non riesce a collegarsi armoniosamente al corpo dell’edificio e non avrà seguito; Alberti si limita qui a porre un problema che troverà soluzione solo nelle creazioni del Palladio.
La villa secondo Leon Battista Alberti
In questo brano, proveniente anch’esso, come quello sulla madre di famiglia, dal terzo libro del trattato Della famiglia di Leon Battista Alberti, si parla dei benefici della campagna e del risiedere in villa. Ispirandosi ampiamente al De re rustica di Varrone, l’autore evoca lo stile e i contenuti delle opere "economiche" di Senofonte, nonché il Cicerone dei dialoghi e delle lettere. La pagina dell’Alberti, che esalta il ricrearsi dell’animo in villa, lontano dagli affanni cittadini, ripropone in chiave moderna la distinzione latina fra otia e negotia, introducendo uno spirito nuovo rispetto al Medioevo. Lo spirito si rigenera nella pace della campagna, contemplandone gli spettacoli ameni; il diletto è utile tanto alla salute che alla cultura. Il messer Niccolaio Alberti cui si fa riferimento è il proprietario della celebre villa rinascimentale presso Ripoli, alle porte di Firenze, detta "il Paradiso degli Alberti", in cui alle delizie della campagna toscana si abbinava la dotta conversazione degli umanisti.
Gianozzo - Io cercherei questa possessione in luogo dove né fiume, né ruine di piove me gli potessero nuocere, e dove non usassero furoncelli [ladruncoli] e cercherei ivi fosse l’aria ben pura. Imperò ch’io odo si truovano ville, peraltro fruttuose e grasse, ma ivi hanno l’àiere piena d’alcune minutissime e invisibili musculine [moscerini]: non si sentono, ma passano, alitando, sino entro al pulmone, ove giunte si pascono, e in quello modo tàrmano l’enteriori e uccidono gli animali ancora e molti uomini. [...] Però [perciò] cercherei non manco d’avere ivi buono aere che buono terreno. [...] Agiugni qui ancora, che la buona aere, riducendoti in villa, confirma molto la sanità, e porgeti infinito diletto. [...] Farei come solea messer Niccolaio Alberti, uomo dato a tutte le gentilezze, quale volse in le sue ville si trovassino tutti e frutti nobilissimi quali nascano per tutti e paesi. E quanta fu la gentilezza di quello uomo! costui mandò in Sicilia per pini, i quali nati fruttano prima ch’eglino agiungano al settimo anno; costui ancora negli orti suoi volle pini, de’ quali e pinocchi da sé nascono fessi: lo scorzo dell’uno de’ lati è rotto; costui ancora di Puglia ebbe quelli pini e quali fruttano pignuoli con scorzo tenerissiamo, da frangelli con le dita, e di questi fece la selva. Sarebbe lunga storia raccontare quanta strana e diversa quantità di frutti quello uomo gentilissimo piantasse negli orti suoi, tutti di sua mano posti a ordine, a filo, da guardalli e lodarli volentieri. E così farei io: pianterei molti e molti alberi, con ordine a uno filo, però che così piantati più sono vaghi a vedelli, manco auggiano e seminati, mango mungono il campo, e per còrre [cogliere] e frutti manco si scalpesta e lavorati: e àremi grande piacere così piantare, innestare, e agiugnere diverse compagnie di frutti insieme, e dipoi narrare agli amici come quando e onde io avessi quelle e quelle altre frutte. -
Lionardo - Quale uomo fusse, il quale non si traesse piacere della villa! Porge la villa utile grandissimo, onestissimo e certissimo; e pruovasi qualunque altro esercizio s’intoppa in mille pericoli, hanno seco mille sospetti, seguongli molti danni e molti pentimenti. In comperare cura, in condurre paura, in serbare pericolo, in vendere sollicitudine, in credere sospetto, in ritrarre fatica, nel commutare inganno. e così sempre negli altri essercizi ti premono infiniti afanni e agonie di mente. La villa sola sopra tutti si truova conoscente, graziosa, fidata, veridica: se tu la governi con diligenzia e con amore, mai a lei parerà averti satisfatto, sempre agiugne premio a’ premii. Alla primavera la villa ti dona infiniti sollazzi; verzure, fiori, odori, canti; sforzasi in più modi farti lieto; tutta ti ride, e ti promette grandissima ricolta, empieti di buona speranza e di piaceri asai. Poi e quanto la truovi tu teco alla state cortese! ella ti manda a casa ora uno, ora uno altro frutto, mai ti lascia la casa vòta di qualche sua liberalità. Eccoti poi presso l’autunno: qui rende la villa alle tue fatiche e a’ tuoi meriti smisurato premio e copiosissime mercè; e quanto volentieri e quanto abundante e con quanta fede! per uno dodoci; per uno piccolo sudore più e più botti di vino. E quello che tu aresti vecchio e tarmato in casa, la villa con grandissima usura te lo rende nuovo, stagionato, netto e buono. Ancora ti dona le passule e l’altre uve da pendere e da seccare; e ancora a questo agiugne che ti riempie la casa per tutto il verno di noci, pere e pomi odoriferi e bellissimi. Ancora non resta la villa, di dì in dì, mandarti de’ frutti suoi più serotini. Poi neanche il verno si dimentica teco essere la villa liberale: ella ti manda la legna, l’olio, iunìperi e lauri per, quando ti conduca in casa dalle nevi e dal vento, farti quella fiamma lieta e redolentissima; e se ti degni starti seco, la villa ti fa parte del suo splendidissimo sole, e porgeti la leprettina, il capro, il cervo, che tu gli corra drieto, avendone piacere e vincendone il freddo e la forza del verno. Non dico de’ polli, del cavretto, delle giuncate e delle altre delizie, quali tutto l’anno la villa t’alieva e serba. Al tutto così è: la villa si sforza a te in casa manchi nulla, cerca che nell’animo tuo stia niuna malinconia, empieti di piaceri e d’utile. E se la villa da te richiede opera alcuna, non vuole, come gli altri essercizi, tu ivi te atristi, né vi ti carchi di pensieri, né punto vi ti vuole afannato e lasso; ma piace alla villa la tua opera e essercizio pieno di diletto, il quale sia non meno alla sanità tua che alla cultura utilissimo.