Il pensatore inglese che raccolse l'eredità dell'utilitarismo benthamiano, trasmessogli dal padre James Mill, ma insieme la sviluppò in una forma di positivismo critico, dotandola di una logica sotto molti aspetti originale e di un esito politico di tipo liberal-democratico, fu John Stuart Mill.
Nato a Londra nel 1806, John Stuart ricevette dal padre James un'educazione ispirata ai princìpi dell'utilitarismo e del liberalismo radicale e, nei primi trent'anni della sua vita, partecipò con entusiasmo alle battaglie politiche del partito liberale (che nel 1830 andò al potere), scrivendo articoli di argomento politico, economico e sociale su vari giornali e riviste.
Già a partire dal 1823 egli aveva ottenuto un impiego nella Compagnia delle Indie orientali, dove aveva lavorato anche suo padre.
Essendosi tuttavia convinto, in seguito alla lettura dei romantici tedeschi, di Coleridge e di Carlyle, che le posizioni di Bentham e di James Mill presentavano vari limiti ed avevano bisogno di essere rivedute, elaborò una serie di articoli di carattere più filosofico, pubblicati nel 1831 sotto il titolo The Spirit of the Age (Lo spirito dell'età), in cui cercava di conciliare la teoria del progresso sociale sostenuta dall'utilitarismo con una valutazione positiva delle età precedenti e della funzione delle élites.
Nel 1833 John S. Mill pubblicò uno scritto intitolato Bentham, nel quale criticò l'utilitarismo come troppo angusto ed egoistico, sostenendo la necessità di perseguire la felicità degli altri come valore in sé, indipendentemente da considerazioni egoistiche, e negli anni successivi alla morte del padre, avvenuta nel 1836, si impegnò nel tentativo di riorganizzare il partito liberale, entrato in crisi dopo la vittoria politica del 1830, dirigendo la «London and Westminster Review» e scrivendo un'opera dal titolo Reorganization of the Reform Party (Riorganizzazione del partito delle riforme, 1839).
Dal punto di vista filosofico egli cercò di unire quanto vi era di meglio nelle posizioni di Bentham e di Coleridge, scrivendo anche un articolo su quest'ultimo (1840).
Dal punto di vista politico, invece, cercò di unire in un unico partito dei «radicali» tutti coloro che egli considerava oppressi dalla classe dei «conservatori», cioè i borghesi della classe media ed i lavoratori della classe più bassa.
In seguito al fallimento di questo disegno, dovuto anche alla morte di colui che doveva essere il leader del nuovo partito (Lord Durham, 1840), John S. Mill si ritirò dalla politica attiva per dedicarsi completamente agli studi ed alla riflessione filosofica.
Pubblicò, così, nel 1843 il System of Logic, Ratiocinative and Inductive (Sistema di logica raziocinativa e induttiva, nel 1848 i Principles of Political Economy (Principi di economia politica), nel 1859 il saggio On Liberty (Sulla libertà), nel 1861 le Considerations on Representative Government (Considerazioni sul governo rappresentativo), dal 1861 al 1863 Utilitarianism (Utilitarismo), nel 1865 due saggi su Auguste Comte and Positivism ed infine, nel 1865, l'Examination of Sir W. Hamilton's Philosophy (Esame della filosofia di Sir W. Hamilton).
Morì ad Avignone nel 1873. Dopo la morte, nel 1874, uscirono i Three Essays on Religion (Tre saggi sulla religione).
Il System of Logic è l'opera più originale di John S. Mill, in cui egli elabora quella che si può considerare la logica del positivismo. Anzitutto egli considera la logica non come una costruzione puramente formale, né come una semplice arte della discussione, bensì come un criterio per giudicare il valore delle varie indagini particolari, cioè per controllarne la correttezza argomentativa e stabilire con ciò se siano veramente scientifiche.
Si può dire, pertanto, che la sua logica è una metodologia della scienza. La prima parte di essa, secondo Mill, è un'analisi del linguaggio, cioè dei termini, intesi come segni di cose o di fatti individuali (non, quindi, delle nostre idee), e delle proposizioni, intese come segni di relazioni tra cose, o fatti, ugualmente individuali, per esempio di relazioni come coesistenza, successione, esistenza, causazione e somiglianza.
La dottrina più importante esposta da Mill in questa parte è la distinzione fra termini denotativi e termini connotativi.
I primi sono quelli che indicano un singolo individuo (i nomi propri) o tutti gli individui compresi in una classe (i nomi comuni e gli aggettivi), caratterizzandoli mediante una singola nota («denotazione»); i secondi sono quelli che descrivono una caratteristica della classe denotata mediante una nota aggiuntiva, che la pone in relazione ad altro («connotazione»).
Uno stesso termine, tuttavia, può avere sia un valore denotativo sia un valore connotativo: per esempio «bianco» denota tutti gli oggetti appartenenti alla classe dei bianchi, come la neve, la carta, la spuma del mare, ed al tempo stesso li connota mettendoli in relazione alla bianchezza. Quest'ultima distinzione sarà ripresa in termini diversi, come vedremo, dal logico Gottlob Frege.
L'importante, secondo Mill, è non scambiare una connotazione per una denotazione, cioè non credere che una caratteristica propria di una classe di individui sia un'essenza reale, universale, diversa dagli individui stessi.
Come gli empiristi "classici", Stuart Mill fonda tutta la conoscenza sulle rappresentazioni sensibili e sulle loro combinazioni: anche i concetti della matematica e i principi della logica, a suo giudizio, derivano dall'esperienza.
Su questa base, egli svolge una critica radicale alla logica classica e alla sua pretesa di dedurre conoscenze particolari da giudizi universali. Questi, infatti, si fondano sull'induzione; e l'induzione, secondo Mill, non può dare conclusioni universali, ma semplici generalizzazioni di osservazioni particolari. Persino le proposizioni della matematica, a suo avviso, non sono altro che generalizzazioni di situazioni particolari, conosciute mediante l'osservazione empirica: esse infatti non si riferiscono a realtà diverse da quelle empiriche, ma semplicemente prescindono da alcuni aspetti di queste, prendendo in considerazione, in tal modo, degli oggetti fittizi, quali sono ad esempio i punti senza estensione, le linee senza larghezza, ecc. Le proposizioni della matematica, insomma, dicono come sarebbero gli oggetti empirici se non avessero certe proprietà, appunto empiriche, che invece hanno.
Alla base di ogni inferenza, secondo John S. Mill, è l'induzione, cioè l'inferenza da proposizioni particolari, concernenti casi particolari osservati, a proposizioni più generali, le quali affermano una proprietà dei casi già osservati ed anche di quelli non ancora osservati.
Ciò che assicura la validità dell'induzione è il «principio di uniformità della natura», ossia la legge secondo cui tutti gli individui appartenenti ad una determinata classe si comportano nello stesso modo: quanto si osserva a proposito di alcuni casi è valido perciò a proposito di tutti.
Questa legge, a sua volta, è il risultato di un'induzione, cioè è una generalizzazione di leggi più particolari, frutto di osservazione. Il fondamento di tutte queste leggi è la «legge di causalità universale», secondo cui a determinati fatti, considerati come cause, seguono invariabilmente determinati altri fatti, considerati come effetti. Anche questa, tuttavia, si fonda solo sull'osservazione.
Per scoprire quale sia la causa dei vari fenomeni John S. Mill ha indicato quattro metodi:
1) il metodo delle «concordanze», secondo cui se due o più casi di un fenomeno hanno in comune una sola circostanza, questa è la causa del fenomeno in questione: "Se due o più casi del fenomeno investigato hanno soltanto una circostanza in comune, la circostanza in cui soltanto concordano tutti i casi è la causa (o l'effetto) del fenomeno dato";
2) il metodo delle «differenze», secondo cui se un caso in cui il fenomeno si presenta ed un caso in cui esso non si presenta differiscono in una sola circostanza, questa è la causa del fenomeno: "Se un caso in cui il fenomeno indagato si verifica, ed un caso in cui non si verifica, hanno tutte le circostanze in comune tranne una... questa è l'effetto, o la causa, o una parte indispensabile del fenomeno";
3) il metodo delle «variazioni concomitanti», secondo cui se un fenomeno varia ogniqualvolta varia un altro fenomeno, tra i due fenomeni c'è relazione di causa ed effetto: "Ogni fenomeno che varii in qualche modo ogniqualvolta un altro fenomeno varia in modo particolare, è una causa o un effetto di quel fenomeno, o gli è connesso per qualche fatto di causazione";
4) il metodo dei «residui», secondo cui se da un fenomeno si toglie una parte di circostanze che si sa già essere effetto di certi antecedenti già considerati, la parte residua del fenomeno sarà effetto degli antecedenti trascurati: "Se da un fenomeno si sottrae la parte che da precedenti induzioni sappiamo essere l'effetto di certi antecedenti, il residuo del fenomeno è l'effetto degli antecedenti rimanenti".
I primi tre metodi, come si vede, sono una riedizione delle tabulae rispettivamente praesentiae, absentiae e graduum di Francesco Bacone.
5) Un quinto metodo, proposto da John S. Mill per i fenomeni più complessi, è quello della «deduzione», consistente nella formulazione di un'ipotesi circa la causa del fenomeno, nella deduzione delle conseguenze che ne derivano, cioè dei casi in cui il fenomeno dovrebbe aver luogo se quella supposta ne fosse la causa, e nella verifica sperimentale che in tali casi il fenomeno effettivamente abbia luogo. Quest'ultimo metodo, come si vede, deriva dal famoso metodo sperimentale di Galilei e non è altro che il metodo delle scienze fisico-matematiche.
Lo stesso metodo che si segue per la conoscenza delle leggi naturali, afferma John S. Mill sempre nel System of Logic, deve essere seguito anche per la conoscenza delle leggi che regolano il comportamento umano, sia nelle sue espressioni individuali sia in quelle sociali, ossia ciò che forma l'oggetto delle cosiddette «scienze morali». Queste sono, per quanto riguarda il comportamento del singolo uomo, anzitutto la psicologia, che studia le leggi di successione dei fatti mentali, cioè le leggi dell'associazione, e poi l'«etologia», ossia la scienza del «carattere» (dal greco èthos, carattere), che studia le leggi delle volizioni e delle azioni umane. Per quanto riguarda, invece, il comportamento dei gruppi di individui, la scienza morale che se ne occupa è la sociologia, la quale non fa che applicare all'intera società le leggi scoperte dalla psicologia e dall'etologia per il singolo individuo. Anche a questo proposito, dunque, la posizione di John S. Mill rientra nel positivismo ed è il frutto di un suo esplicito richiamo a Comte, sia pure accompagnato, come vedremo, da alcune critiche.
Le azioni umane, secondo John S. Mill, sono conseguenza del carattere posseduto dai singoli individui, perciò sono in larga misura prevedibili e quindi conoscibili scientificamente. Non si può dire, tuttavia, che il comportamento degli uomini sia determinato da una rigida necessità, come sostiene il «fatalismo»: in esso è presente anche la libertà, perché gli uomini, se lo vogliono, possono modificare il proprio carattere. L'esistenza della libertà, secondo Mill, non può essere dimostrata, tuttavia è oggetto di esperienza immediata, poiché noi sentiamo che, se lo vogliamo, possiamo comportarci diversamente, cioè possiamo modificare il nostro carattere. Anche la formazione del carattere, tuttavia, avviene secondo determinate leggi, che possono essere conosciute scientificamente attraverso il metodo dell'ipotesi, deduzione e verifica.
A questo proposito, infatti, Mill respinge sia quello che egli chiama il «metodo chimico», consistente nel ritenere le azioni umane interamente determinate dalla società o dall'ambiente, perché esso non può fare assegnamento su alcuna conferma sperimentale, in quanto sulla storia non si possono fare esperimenti; sia quello che egli chiama il «metodo geometrico», consistente nel dedurre tutti i comportamenti umani da un'unica grande ipotesi (come fanno Hobbes, Rousseau e Bentham), perché esso non tiene conto del fatto che le cause delle azioni possono essere molteplici. L'etologia, secondo Mill, deve ipotizzare diverse possibili cause e verificarle attraverso un attento studio della storia: solo così si potranno prevedere, se non proprio i comportamenti dei gruppi sociali, almeno le loro linee di tendenza.
Nei suoi Principi di economia politica John S. Mill riprende le indagini iniziate dai grandi economisti inglesi che lo hanno preceduto, cioè Smith e Ricardo, cercando di dare una soluzione al problema del rapporto tra aumento della popolazione e produzione delle ricchezze diversa da quella proposta da Malthus. Egli ritiene che le leggi della produzione dei beni siano immutabili, ma che quelle della loro distribuzione siano invece modificabili dall'uomo, ed in particolare che sia possibile migliorare quest'ultima in modo da andare incontro ai bisogni delle classi più disagiate, come vogliono i socialisti, anche senza giungere all'abolizione della proprietà privata. Secondo Mill, tuttavia, le condizioni della classe operaia non potranno essere migliorate se non ad opera degli stessi lavoratori, non di altri, perché ciascuna classe mira esclusivamente al proprio interesse; i lavoratori, però, dovranno migliorarle non attraverso la rivoluzione, ma cercando la cooperazione con le altre classi.
In ogni caso, sostiene Mill nel saggio Sulla libertà, che si può considerare una delle espressioni più alte del pensiero liberaldemocratico, alla base dei rapporti sociali deve essere posta la libertà civile, cioè la libertà del singolo individuo dagli interventi del potere politico, la quale non può essere limitata per nessun'altra ragione che non sia la necessità di impedire, o di prevenire, un danno ad altri. Essa si articola nelle tre libertà fondamentali: 1) libertà di coscienza, di pensiero e di parola; 2) libertà dei gusti, cioè di perseguire la propria felicità nel modo che si preferisce; 3) libertà di associazione. Soprattutto la seconda di queste libertà dà diritto a ciascuno di vivere come preferisce, cioè di disporre a proprio piacimento della propria vita, della propria salute sia fisica sia spirituale e delle proprie ricchezze, con la sola limitazione di non danneggiare gli altri.
Il tipo di governo che garantisce meglio queste libertà, sostiene Mill nelle Considerazioni sul governo rappresentativo, e precisamente la migliore costituzione possibile nella società industriale moderna, è appunto una democrazia rappresentativa in cui la sovranità sia distribuita nell'intero corpo sociale e ciascuno sia chiamato, periodicamente, ad esercitarla attraverso il voto. La rappresentanza in tal modo eletta deve essere espressione, secondo Mill, non solo della maggioranza, ma anche della minoranza, i cui diritti vanno in ogni caso salvaguardati. Il voto poi deve essere esteso anche alle donne, la cui condizione di inferiorità, dovuta a circostanze puramente storiche, deve essere eliminata mediante l'instaurazione di un'effettiva parità. Mill tuttavia sostiene che i cittadini superiori per cultura o per capacità contributiva devono disporre di più voti, proporzionalmente alle loro qualità.
Per quanto concerne l'etica, John S. Mill, nello scritto sull'Utilitarismo, riprende il principio fondamentale dell'utilitarismo benthamiano, cioè quello secondo cui è moralmente valida ogni azione che persegua la maggiore felicità possibile per il maggior numero possibile, ma propone di integrare il calcolo quantitativo dei piaceri, sostenuto da Bentham, con un calcolo anche qualitativo, che cioè tenga conto di aspetti come la loro nobiltà e la loro elevatezza spirituale. Egli è pertanto convinto che la sua etica venga a coincidere con l'etica evangelica, fondandosi come quest'ultima sulla «regola d'oro» del non fare agli altri quello che non si vorrebbe fosse fatto a se stessi. Infine Mill sostiene, nei Tre saggi sulla religione, che l'esistenza di un Dio infinitamente intelligente e potente non è dimostrabile, ma che l'idea di essa è tuttavia utile agli uomini per la loro condotta morale.
Negli ultimi anni della sua vita Mill si occupò anche di problemi filosofici più generali, prendendo posizione nei confronti delle due correnti che allora dominavano la filosofia inglese, quella strettamente empiristica, di ispirazione humiana, da lui definita «relativistica», e quella che invece ammetteva una qualche conoscenza della realtà in sé, da lui definita «assolutistica». Quest'ultima aveva trovato il suo massimo rappresentante nel filosofo scozzese William Hamilton (1788-1856), il quale, rifacendosi alla scuola scozzese del «senso comune», aveva sostenuto la possibilità di conoscere direttamente gli oggetti mediante una conoscenza non «rappresentativa», cioè fatta di idee, ma «presentativa», cioè fatta di intuizioni.
Nell'Esame della filosofia di Hamilton John S. Mill critica questa posizione, affermando che l'unica realtà di cui noi abbiamo conoscenza diretta sono i nostri stati mentali, cioè le nostre sensazioni e le idee che ne derivano, quindi si schiera sostanzialmente sulle posizioni humiane. Tuttavia, facendo ricorso alla categoria della possibilità, Mill sostiene che la realtà oggettiva non si riduce alle nostre sensazioni, ma esiste come «possibilità permanente di sensazioni», cioè possibilità di essere sentita, e che il soggetto non si riduce nemmeno esso all'insieme delle sue sensazioni, ma esiste come «possibilità permanente di sentimenti», cioè possibilità di sentire.
Infine, nello scritto su Auguste Comte, Mill prende posizione nei confronti del fondatore del positivismo, apprezzandone il Cours de philosophie positive come l’opera che ha iniziato una filosofia di tipo positivistico, ma criticandone il successivo Système de politique positive, a causa della concezione dogmatica e illiberale in esso contenuta della vita politica e sociale.
Nell'ultima parte del Sistema di logica, Mill cerca di dare un fondamento scientifico anche alla conoscenza dell'uomo, cioè alla psicologia e alla sociologia. Esso, secondo Mill, sta nel fatto che il comportamento degli uomini dipende dal loro carattere e dagli influssi esterni, e si può quindi prevedere e calcolare nella misura in cui questi sono conosciuti. Tale prevedibilità non è però fatalità, perché dipende dalla natura dell'uomo stesso; e Mill ritiene prova sufficiente della libertà il sentimento che ciascuno ha di poter agire diversamente.
In etica, Stuart Mill fece proprio l'utilitarismo del padre e lo difese energicamente contro le interpretazioni che lo riducevano ad un grossolano edonismo (mentre le forme di edonismo classiche come quella di Epicuro hanno sempre privilegiato i piaceri "superiori"). In questo senso egli contestò a Bentham di aver considerato solo la quantità dei piaceri, e non anche la loro qualità ("preferisco essere un Socrate insoddisfatto che un maiale soddisfatto").
Accanto all'egoismo naturale, inoltre, secondo Mill esiste il sentimento propriamente morale del dovere, non tuttavia come un principio innato, ma (secondo la spiegazione già data da suo padre) come un prodotto dell'esperienza: l'individuo, cioè, cerca la propria felicità, ma questa è legata alla felicità degli altri, e questa associazione genera il sentimento della dedizione agli altri, che si consolida poi con il progresso sociale.
Su questa base appunto Stuart Mill prevedeva il superamento del contrasto tra interesse individuale e interesse sociale. Egli quindi difese i diritti individuali, tanto da essere considerato un sostenitore del liberalismo in Europa; d'altra parte l'osservazione degli squilibri sociali lo rese sensibile al socialismo; tuttavia, fu per il primo che egli propese, giudicando migliore il sistema che garantisce la maggior quantità di libertà e di spontaneità. Esse infatti sono la condizione necessaria del miglioramento dell'umanità ("Occorre libertà di discussione per mostrare come l'esperienza deve essere interpretata", La libertà).
L'empirismo e l'utilitarismo di Stuart Mill venivano così a configurarsi come il fondamento di un umanesimo, in cui si inseriscono anche le sue riflessioni sulla religione.
Quanto all'esistenza di Dio, Stuart Mill rifiuta la prova fondata sul principio di causa e, naturalmente, la prova ontologica; riconosce invece plausibile: l'argomento dell'ordine (per cui il mondo, come un'opera meccanica, rimanda ad un ordinatore). Egli, tuttavia, sostiene che l'esistenza del male obbliga a concludere che Dio o non è infinitamente buono o non è infinitamente potente. Da parte sua, preferisce crederlo infinitamente buono ma non onnipotente, cioè un essere superiore all'uomo, ma come l'uomo inserito nell'universo, e dal quale l'uomo può sperare aiuto nell'opera di miglioramento del mondo (e anche dare collaborazione).