Dopo il fallimento delle varie esperienze politiche, militari e rivoluzionarie del biennio 1848-49, la situazione nei vari stati italiani peggiorò perché in quasi tutte le regioni ci fu un’ondata repressiva contro tutti i patrioti.
Nel Regno delle due Sicilie la repressione è stata così dura da mandare in carcere anche i patrioti moderati.
In tanti, infatti, per sfuggire al carcere, furono costretti all’esilio.
Ma l’attività patriottica non finisce e rinasce attraverso una nuova associazione chiamata Unità italiana che venne però scoperta dalla polizia.
Nello Stato della Chiesa e nel Granducato di Toscana furono cancellate tutte le conquiste liberali ottenute in precedenza prima della proclamazione delle rispettive repubbliche nel 1849.
Ma la repressione più severa è stata esercitata dall’Austria nel Lombardo-Veneto.
Gli austriaci intensificarono il regime di controllo poliziesco e, soprattutto in Lombardia, ci furono molte condanne a morte.
L’unica eccezione a questa pesante situazione politica è data dal Regno di Sardegna.
Il nuovo sovrano Vittorio Emanuele II non segue gli altri sovrani italiani e fu l’unico a non cancellare i diritti costituzionali del 1848.
Lo Statuto Albertino venne mantenuto e il Piemonte diventa dunque l’unico stato liberale in Italia.
Si inaugura così quel decennio di preparazione dal quale si arriverà agli anni 1859-1860 quando si realizzerà l’unificazione nazionale.
Il Piemonte sembrava anche l’unico stato in grado di svolgere un’attività diplomatica in Europa per creare un fronte internazionale contro l’Austria.
Il regno di Sardegna prende anche la guida del movimento patriottico nazionale perché, durante le dure repressioni in atto negli altri stati italiani, diventa lo stato che concede asilo a tanti patrioti.
In questo modo mette in condizione di confrontarsi un po’ tutte le varie posizioni politiche espresse in questi anni e apre la strada a una collaborazione che lascia da parte le particolarità in nome dell’unificazione nazionale.
Un fatto molto importante che spinse molti patrioti verso posizioni filo piemontesi fu anche il fallimento dei moti mazziniani di questi anni.
Nel 1853 i mazziniani cercarono di svolgere attività rivoluzionaria nel Lombardo-Veneto ma la polizia austriaca scoprì le loro attività e furono tutti arrestati e condannati a morte.
Mazzini in prima persona tentò di dare una svolta fondando sempre nel ’53 il Partito d’azione per far nascere attraverso la rivoluzione la Repubblica italiana.
Sulla sua scia Carlo Pisacane, un patriota di idee socialiste, tentò nel 1857 di far sollevare il Regno delle due Sicilie.
Pisacane sbarcò in Campania a Sapri ma i contadini non solo non si unirono a lui ma scambiando lui e i suoi uomini per briganti li attaccarono.
Davanti al fallimento dell’impresa Pisacane stesso si uccise.
Il fatto suscitò molto scalpore e mostrava che le iniziative dei repubblicani erano piuttosto astratte e non riuscivano a tradursi in fatti concreti.
Un ruolo fondamentale nel decennio di preparazione piemontese fu svolto da Cavour che diventò primo ministro, al posto di D’Azeglio, nel 1852.
Cavour iniziò un’intensa attività politica ed economica per l’ammodernamento del Regno di Sardegna.
Favorì la costruzione di ferrovie, così che nel 1859 il Piemonte aveva 807 km di ferrovie, più di ogni altro stato italiano.
Per questo motivo favorì la creazione anche di un'industria siderurgica a Genova, l’Ansaldo, che produceva navi, materiali ferroviari e macchinari.
Costruì nuove strade, sviluppò le linee telegrafiche e ampliò il porto di Genova.
Memore dei suoi trascorsi di imprenditore agricolo cerca di rinnovare l'agricoltura introducendo nuove coltivazioni e abolendo il dazio sul grano.
Costruì canali d'irrigazione e potenziò l'industria tessile.
Il programma politico di Cavour riguardo il problema italiano non prevedeva l'unificazione totale dell'Italia.
L'obiettivo di Cavour era quello di creare un forte Regno di Sardegna con l'annessione della Lombardia e del Veneto.
Per ottenere un simile risultato il Piemonte aveva bisogno del consenso e dell'aiuto delle maggiori potenze europee.
L'occasione di presentare la questione italiana all'attenzione dell'opinione pubblica europea, fu offerta dalla guerra di Crimea scoppiata nel 1854.
Francia e Gran Bretagna alleate combattevano contro la Russia, che tentava di espandersi nella penisola balcanica. Cavour offrì l'alleanza del Piemonte a Francia e Gran Bretagna, inviando un corpo d'armata in Crimea.
La pace fu firmata nel 1856 al Congresso di Parigi con la presenza del rappresentante dell'Austria.
Cavour non chiese alcun compenso per la partecipazione alla guerra, ma ottenne che una seduta fosse dedicata espressamente a discutere il problema italiano.
Egli poté quindi sostenere pubblicamente che la repressione dei governi reazionari e la politica dell'Austria erano i veri responsabili dell'inquietudine rivoluzionaria che covava nella penisola e che avrebbe potuto costituire una minaccia per i governi di tutta Europa.
La diplomazia di Cavour raccolse i frutti sperati perché la Francia cominciò ad occuparsi della questione italiana e si arrivò nel 1858 agli accordi segreti di Plombières con Napoleone III.
Gli accordi prevedevano che in caso di attacco militare provocato dall’Austria, la Francia sarebbe intervenuta in difesa del Regno di Sardegna ricevendo in cambio i territori di Nizza e della Savoia.
La penisola italiana sarebbe stata territorialmente e politicamente divisa in quattro stati, legati in una futura Confederazione presieduta dal papa.
Il Regno dell'Alta Italia, con capitale Torino, da costituirsi tramite l'annessione al Regno di Sardegna del Lombardo-Veneto e dei ducati di Parma e di Modena.
Il Regno dell'Italia centrale, con capitale Firenze composto dalla Toscana e dalle Marche e dall'Umbria sottratti allo stato della Chiesa.
Lo Stato della Chiesa a cui restava solo Lazio.
Il Regno dell'Italia meridionale che sarebbe rimasto così com’era.
Dopo gli accordi di Plombières il Piemonte comincia ad adottare comportamenti provocatori verso il governo austriaco.
Gli accordi, infatti, prevedevano che fosse l'Austria a dichiarare guerra.
A Garibaldi appena tornato in Italia fu affidato il compito di organizzare un corpo di volontari, i Cacciatori delle Alpi, senza porre limiti all'arruolamento di fuoriusciti dal Lombardo-Veneto.
Davanti ai movimenti di truppe sul confine l’Austria, informata degli accordi di Plombières, decise di fare la prima mossa e il 26 aprile dichiarò guerra al Regno di Sardegna.
A quel punto la Francia che era legata dagli accordi a un'alleanza difensiva entrò in guerra affianco del Piemonte.
Il 24 giugno i franco-piemontesi vinsero una grande battaglia a Solferino e San Martino.
Ma la vittoria in realtà aumentò le preoccupazioni di Napoleone III che vedeva la situazione sfuggirgli di mano.
Quando era cominciata la guerra prima Firenze e poi Modena e Parma erano insorte costringendo alla fuga i loro sovrani.
Il rischio era che Napoleone III combattesse una guerra a favore del Piemonte che sembrava pronto a unificare anche l’Italia centrale.
Napoleone III decise, quindi, di avviare colloqui di pace e il 12 luglio sottoscrisse l'armistizio di Villafranca.
La successiva pace di Zurigo stabiliva che gli Asburgo cedevano la Lombardia alla Francia, che l'avrebbe assegnata ai Savoia, mentre l'Austria conservava il Veneto.
I sovrani di Modena, Parma e Toscana avrebbero dovuto essere reintegrati nei loro Stati.
Tutti gli stati italiani, incluso il Veneto ancora austriaco, avrebbero dovuto unirsi in una confederazione italiana, presieduta dal papa.
Contro il parere di Cavour Vittorio Emanuele II firmò il trattato e Cavour si dimise, lasciando un vuoto politico enorme in un momento fondamentale per la questione italiana.
Il trattato infatti risultava comunque insoddisfacente non solo per Cavour ma anche per lo stesso Napoleone III.
In effetti la presenza austriaca era contraria ai piani iniziali di Napoleone III che pensava di sostituire gli austriaci nel controllo dell’Italia. Inoltre non avrebbe ricevuto la Savoia e Nizza dal regno di Sardegna perché la guerra era stata interrotta in anticipo e il Piemonte non aveva avuto il Veneto, come pattuito.
A questo punto Cavour anche se non più in carica, riuscì a convincere le altre nazioni europee dei rischi che si offrivano alla cospirazione mazziniana tra le popolazioni dell'Emilia e dell'Italia centrale che si erano nuovamente ribellate all'ipotesi di ritorno dei loro vecchi governanti.
Così Cavour poté trovare un compromesso accettabile anche per Napoleone III.
Si stabilì di effettuare dei plebisciti in Savoia e a Nizza e anche nei ducati centrali in Italia.
Dai risultati, abbastanza scontati, dei plebisciti il regno Sardo annetteva oltre alla Lombardia, anche Parma, Modena, l'Emilia, la Romagna e la Toscana.
Mentre la Savoia e Nizza passarono alla Francia, permettendo così a Napoleone III di giustificare agli occhi dei francesi la guerra combattuta in Italia.
Nel 1860 dopo che i plebisciti del marzo hanno decretato il passaggio dei ducati dell’Italia centrale al Regno di Sardegna, Garibaldi prepara la spedizione dei Mille per cercare di annettere il sud al Regno d’Italia.
Il progetto era fallito solo tre anni prima per mano di Pisacane.
Ma Garibaldi poteva contare sul contributo dei democratici e dei moderati siciliani e meridionali che avevano trovato asilo negli anni precedenti in Piemonte, partecipando alla Società nazionale italiana fondata nel ’57.
Tra l’altro Garibaldi poteva contare sul fatto che, per cercare di rendere più efficace l’attività patriottica, anche Mazzini aveva deciso di collaborare con i moderati lanciando la proposta di una collaborazione che solo dopo la raggiunta unificazione avrebbe ripreso a discutere su come organizzare l’Italia unita.
Dunque Garibaldi sapeva di poter contare su un fronte molto unito e su una maggiore attenzione internazionale favorevole all’Italia.
Per questo dopo aver preso una nave si imbarca il 6 maggio 1860 con un migliaio di volontari salpando da Quarto, presso Genova, e sbarca a Marsala cinque giorni dopo.
Da Marsala inizia la sua marcia; batte i Borboni a Calatafimi e a Milazzo, libera Palermo e Siracusa e raggiunge Messina, conquistando completamente la Sicilia.
Garibaldi poté contare sull’appoggio popolare che tra l’altro si aspettava una rinascita anche sociale e sperava che si procedesse all’eliminazione del latifondo.
Ma in realtà questo era ben lontano dai piani di Garibaldi che anzi fece fucilare a Bronte, vicino a Palermo, i contadini in rivolta che avevano tentato di occupare le terre.
Il 19 agosto sbarca in Calabria e il 7 settembre entra a Napoli, abbandonata dal re Francesco I.
Sconfitti definitivamente i borbonici sul Volturno, il 26 ottobre Garibaldi si incontra a Teano con Vittorio Emanuele che alla testa del suo esercito era sceso nel Meridione attraverso lo Stato della Chiesa annettendo così anche l’Umbria e le Marche.
La discesa venne giustificata sul piano internazionale come un tentativo di evitare che Garibaldi puntasse su Roma per completare l’unificazione del centro Italia.
La conseguenza immediata fu la scomunica del papa verso il nuovo Regno d’Italia che lo aveva privato delle Marche e dell’Umbria.
Dopo l’incontro a Teano il re può continuare la sua discesa ed entrare a Napoli mentre Garibaldi si ritira nuovamente a Caprera.
Tra le personalità di spicco del risorgimento italiano Garibaldi occupa un posto del tutto eccezionale.
Garibaldi ha iniziato la sua attività politica incontrando nel 1833 Mazzini che era in esilio a Londra.
Dopo questo incontro, entrò nella Marina del Regno di Sardegna per fare propaganda rivoluzionaria.
Dopo il fallimento del moto mazziniano del ’34 Garibaldi non ritornò a bordo della sua nave.
Accusato di essere uno dei capi della cospirazione, fu condannato alla pena di morte. Garibaldi scappa in Francia e decide quindi di rifugiarsi in Sud America.
Nel 1836 sbarca a Rio de Janeiro e da qui inizia il periodo, che durerà fino al 1848, in cui si impegnerà in varie imprese di guerra in America Latina.
Combatte in Brasile e in Uruguay ed accumula una grande esperienza nelle tattiche della guerriglia. Questa esperienza sarà fondamentale per la sua formazione militare.
Nel 1848 torna in Italia e nel 1849 partecipa alla difesa della Repubblica Romana insieme a Mazzini, Pisacane, Mameli e Manara.
Dopo la sconfitta della repubblica riesce fortunosamente a raggiungere il Regno di Sardegna.
Successivamente comincia un periodo in giro per il mondo che si concluderà a Caprera nel 1857.
Garibaldi tuttavia non abbandona gli ideali unitari e nel 1858-1859 si incontra con Cavour e Vittorio Emanuele che lo autorizzano a costituire un corpo di volontari.
Corpo che fu denominato "Cacciatori delle Alpi" e al cui comando fu posto lo stesso Garibaldi.
Partecipa alla Seconda Guerra di Indipendenza cogliendo vari successi ma l'armistizio di Villafranca interrompe le sue attività.
Nel 1860 è promotore e capo della spedizione dei Mille; salpa da Quarto, nei pressi di Genova, il 6 maggio 1860 e cinque mesi dopo, il 26 ottobre, Garibaldi incontra a Teano Vittorio Emanuele II e gli consegna i territori conquistati.
Dopo questa impresa si ritira nuovamente a Caprera.
Ritorna nel 1862 quando si mette alla testa di una spedizione di volontari per cercare di liberare Roma dal governo dei papi, ma viene fermato il 29 agosto 1862 sull’Aspromonte dall’esercito del Regno d’Italia per paura di reazioni da parte francese.
Imprigionato e poi liberato ritorna nuovamente nell’isola di Caprera.
Nel 1866 partecipa alla Terza Guerra d’Indipendenza a capo dei volontari nel Trentino e ottiene la vittoria di Bezzecca, il 21 luglio 1866, ma deve fermarsi perché l’alleata Prussia ha firmato un armistizio con l’Austria.
Nel 1867 tenta nuovamente di liberare Roma, ma viene fermato a Mentana dall’esercito francese.
Nel 1871 partecipa alla sua ultima impresa combattendo per i francesi nella guerra Franco-Prussiana.
Torna infine a Caprera, dove passerà gli ultimi anni e dove si spegnerà il 2 giugno 1882.
Nel gennaio 1861 si tennero le elezioni per il primo parlamento unitario.
Con la prima convocazione del Parlamento italiano del 18 febbraio 1861 e la successiva proclamazione del 17 marzo, Vittorio Emanuele II diventa il primo re d'Italia, sino alla sua morte nel 1878.
Il nuovo regno nasce portandosi dietro tutti i problemi degli stati pre-unitari e, in primo luogo, i debiti dei vari stati, e soprattutto i debiti prodotti dalle recenti guerre contro l’Austria e contro il regno delle due Sicilie.
Il primo problema era dunque quello di trovare delle formule adatte a diminuire il divario tra le diverse regioni.
Divario provocato dall'esistenza di economie e culture differenti.
Il sud è stato fortemente danneggiato dall'unificazione sul piano industriale e sul piano politico e poco si è identificato con l’unificazione.
Purtroppo la prematura scomparsa di Cavour proprio in quei mesi non fu sostituita da uomini con le sue stesse capacità.
Inoltre la dinastia dei Savoia mostrò una grande miopia politica.
Vittorio Emanuele, proclamato re d’Italia, continuò a chiamarsi Vittorio Emanuele II e non Primo come la logica e il buon senso avrebbero suggerito, anche per dare un segno di discontinuità col passato che avrebbe stemperato i malumori soprattutto lombardi e meridionali.
Poco si fidavano, infatti, delle capacità amministrative e politiche dei sovrani piemontesi.
Inoltre, vennero mandati a dirigere i vari uffici dello stato uomini di fiducia del nuovo Regno che spesso, soprattutto al sud, venivano da regioni lontane e quasi sempre dal Piemonte.
Considerando che la lingua parlata dalla maggioranza degli italiani era il proprio dialetto locale, c’era il rischio di non capire nemmeno i nuovi funzionari facendoli apparire così ancora più estranei.
Questo modo di creare l’unificazione è stato definito dagli storici «piemontesizzazione».
Il nuovo stato era identico al passato del regno sardo. Continuava ad essere una monarchia costituzionale, secondo quanto previsto dallo statuto albertino, concesso a Torino nel 1848, che resta la costituzione del nuovo stato.
Purtroppo anche il nuovo parlamento era poco incisivo perché il diritto di voto era attribuito in base al censo, secondo la legge elettorale piemontese del 1848; in questo modo gli aventi diritto al voto costituivano appena il 2% della popolazione.
Le basi del nuovo stato erano ristrette a una cerchia di nobili e militari, imprenditori agricoli e industriali, commercianti all’ingrosso e liberi professionisti che lasciava fuori dal parlamento la maggioranza degli italiani.
A rendere ancora più basso il consenso degli italiani al nuovo stato c’era anche l'ostilità della Chiesa cattolica e del clero nei confronti del nuovo Stato, ostilità che si sarebbe rafforzata dopo il 1870 e la presa di Roma.
Considerando l’importanza della Chiesa al nord come al sud, specialmente nelle campagne, si capisce che questo non poteva giovare alla reale unificazione delle diverse regioni sotto una comune realtà sociale e politica.
Dopo il processo di unificazione e la morte di Cavour, la sua eredità fu affidata agli uomini della cosiddetta destra storica.
Questo nome da una parte differenzia questo raggruppamento politico di seguaci di Cavour dalle destre che sorgeranno, col fascismo e col nazismo, nell’Europa del ‘900.
Dall’altra qualifica questi uomini come esponenti di una visione politica moderata, contrapposta alla sinistra mazziniana e repubblicana.
I punti qualificanti dello schieramento erano l’adesione alla monarchia, un forte senso dello stato, una condotta politica individuale onesta e coerente, il liberalismo politico e il liberismo in economia.
I suoi esponenti erano grandi proprietari terrieri soprattutto del sud, industriali soprattutto del nord, nonché militari.
Gli uomini della Destra affrontarono i problemi del Paese con una forte determinazione: estesero a tutta la Penisola gli ordinamenti legislativi piemontesi e adottarono un sistema fortemente accentrato, accantonando i progetti di autonomie locali avanzati da Minghetti e tutte le varie proposte di federalismo che erano state avanzate negli anni precedenti l’unificazione.
Questo spiega le linee guida della loro politica: furono create 59 province tutte con a capo il prefetto che era nominato dall'alto e aveva compiti di controllo della vita delle province, soprattutto nell’ordine pubblico.
Per attuare la riforma si estese a tutta l’Italia il sistema già varato, nel 1859, in Piemonte e Lombardia, col decreto Rattazzi.
Anche la legge elettorale, con la quale si votò nel 1861 il primo parlamento dell’Italia unita, era quella piemontese.
Con lo stesso criterio si estese a tutta Italia la riforma scolastica varata come legge Casati nel 1859 in Piemonte.
Fu attuata l’unificazione dei pesi e delle unità di misura e ci fu un tentativo d'unificazione del mercato economico, tramite l'abolizione dei sistemi doganali tra le frontiere dei vari Stati pre-unitari.
Questo in nome del concetto liberista dell’economia che prevedeva il libero mercato per le merci.
Ma questo significava la non protezione delle economie più deboli, soprattutto quella dell’Italia meridionale.
Il liberismo, infatti, avvantaggiava soprattutto gli industriali del nord che potevano contare sulle commesse statali, mentre le attività industriali meridionali non erano in grado di produrre agli stessi prezzi praticati dalle industrie europee.
Per questo prima dell’unità d’Italia l’industria meridionale si difendeva con le barriere doganali e produceva per il regno del sud.
Prima dell’unificazione, un prodotto industriale, quando arrivava nel Regno delle due Sicilie, pagava una tariffa doganale per poter essere venduto entro i confini del regno.
Questa tariffa era così alta da far diventare più conveniente comprare le merci prodotte nel regno perché non pagando le tariffe doganali costavano meno.
Questa nuova situazione in cui non c’erano più alte tariffe doganali avvantaggiava le merci straniere.
Inoltre, non essendoci più il Regno delle due Sicilie le attività industriali meridionali non potevano più contare sugli ordini statali perché questi erano appannaggio delle industrie del nord volute da Cavour e dalla Destra storica.
Il giovane Regno d'Italia appena nato, si trovò davanti ancora la questione risorgimentale dell’unificazione.
La classe politica della destra storica al governo vedeva il compimento dell'unità territoriale come una questione prioritaria.
Il Regno italiano, infatti, non poteva ancora contare su Venezia e sul Veneto, sotto il controllo austriaco, e su Roma e il Lazio ancora parte dello Stato della Chiesa sotto il potere del papa.
Scomparso Cavour, il posto di capo del Governo passò a Ricasoli che non seppe portare avanti la questione romana per vie diplomatiche con la stessa abilità mostrata in precedenza da Cavour.
Vittorio Emanuele II non approvò l’operato di Ricasoli che nel 1862 fu costretto alle dimissioni.
Al suo posto viene chiamato Urbano Rattazzi. Durante il suo ministero Garibaldi organizza la prima spedizione militare per la liberazione di Roma.
Davanti al rischio di intervento delle grandi potenze straniere a favore del papa, Austria, Inghilterra e soprattutto Francia,
Rattazzi fu costretto ad inviare l'esercito contro Garibaldi stesso che fu ferito ed imprigionato nella battaglia d'Aspromonte.
Caduto il governo Rattazzi, a capo dell’esecutivo fu chiamato nel 1864 Minghetti che raggiunse un compromesso diplomatico con Napoleone III con la Convenzione di settembre.
Quest'ultima prevedeva il ritiro delle truppe francesi inviate in difesa del papato, sostituite da quelle italiane, mentre la capitale italiana passava da Torino a Firenze.
Questa convenzione scatenò gravi tumulti a Torino che non voleva perdere il suo ruolo di capitale e il governo di Minghetti fu costretto a dimettersi.
Il re chiamò come primo ministro il generale piemontese La Marmora che nell'estate del 1866 partecipò alla Terza Guerra d'Indipendenza.
Allo scoppio della guerra fra Prussia ed Austria, l'Italia era alleata della Prussia.
Il nostro esercito subì due gravi sconfitte a Custoza e in mare a Lissa, mentre la Prussia sconfisse gli austriaci a Sadowa.
Con la pace di Vienna il Veneto passò all'Italia, mentre il Trentino, dove Garibaldi aveva colto una brillante vittoria a Bezzecca prima di essere fermato a causa dell’armistizio tra Prussia e Austria, rimase ancora all’Austria, così come il Lazio e Roma.
Nel 1867 viene richiamato Rattazzi e Garibaldi, galvanizzato anche dalla vittoria in Trentino dell’anno precedente, fece una nuova spedizione per la conquista di Roma ma questa volta Napoleone III inviò le sue truppe che bloccarono Garibaldi a Mentana.
La questione di Roma capitale di concluse quando a Sedan, il 2 settembre del 1870, l'esercito prussiano sconfisse quello francese e catturò lo stesso Napoleone III.
Approfittando delle difficoltà francesi l'esercito italiano, sotto il governo di Lanza, il 20 settembre marciò verso Roma ed entrò nella città attraverso la breccia di Porta Pia.
Il Papa Pio IX abbandonò la città di Roma che fu annessa al Regno d’Italia.
Nel 1871 Roma divenne capitale del Regno d'Italia.
Il Papa, ritenendosi aggredito, si proclamò prigioniero e lanciò virulenti attacchi allo Stato italiano, istigando per reazione una virulenta campagna laicista e anticlericale da parte della Sinistra.
Il governo, nel tentativo di risolver la questione, cercò un incontro diplomatico con papa Pio IX ma davanti al suo fermo rifiuto regolò unilateralmente i rapporti Stato-Chiesa, con la legge delle guarentigie.
La seconda parte della legge regolava i rapporti fra Stato e Chiesa Cattolica, garantendo ad entrambi la massima pacifica indipendenza.
Inoltre al clero veniva riconosciuta illimitata libertà di riunione e i vescovi non dovevano prestare giuramento al Re.
Il Papa respinse la legge e, disconoscendo la situazione di fatto, proibì ai cattolici di partecipare alla vita politica del Regno, secondo la formula "né eletti, né elettori" (non expedit).
All'intransigenza di Pio IX lo Stato, sollecitato dalla sinistra anticlericale, rispose con la soppressione di tutte le facoltà di teologia dalle università italiane, sottoponendo inoltre i seminari a controllo laico.
Questa forte presa di posizione contro il nuovo stato da parte del papa ha impedito che in Italia il nuovo stato unitario vedesse la nascita di un partito cattolico.
Ma la presenza cattolica è stata comunque forte anche perché già al primo congresso dei cattolici italiani, nel 1874, c’era stata la richiesta di partecipare attivamente alle elezioni amministrative nei comuni e nelle province.
L’anno successivo al secondo congresso dei cattolici nacque l’Opera dei congressi che dava ai cattolici un punto di riferimento per tutte le loro attività e diventava pertanto la voce del cattolicesimo nella vita sociale, assumendo di fatto un ruolo autorevole anche nel dibattito politico.
Il non expedit ha avuto soprattutto l’effetto di creare una distanza molto marcata tra i contadini e il nuovo stato, per effetto della grande autorità morale della chiesa nelle campagne italiane.
L’esclusione dei contadini concretamente ha reso la struttura dello stato molto più debole rispetto agli altri paesi europei perché i contadini non si identificavano col nuovo stato che vedevano come usurpatore di diritti e di consuetudini a cui erano tradizionalmente molto legati.
Di per sé il cattolicesimo non era contrario all’idea di nazione.
Lo stesso Gioberti nel dibattito politico prima dell’unità d’Italia aveva teorizzato una confederazione degli stati italiani sotto la presidenza del papa.
La caduta dello Stato della chiesa incrinò sensibilmente il rapporto tra cattolicesimo e nazione italiana.
In Polonia, dove non si poneva il problema di uno Stato della chiesa, il clero fu tra i principali artefici dell’indipendenza nazionale a cui dava anche un significato religioso di difesa del cattolicesimo perché la nazione conquistatrice era la Russia, di religione greco-ortodossa.
Dopo l'unità il governo si assunse il debito pubblico di ogni Stato pre-unitario.
Il gesto aveva un forte significato politico perché avvicinò la borghesia e i ceti medi di tutti i vecchi stati al nuovo regno.
Al momento dell’unificazione il debito non era altissimo ma negli anni immediatamente successivi cominciò a crescere così che nel 1866-1868 ammontava ad una cifra enorme.
Il motivo è da ricercare nelle spese necessarie non solo per pagare i debiti precedenti ma anche in quelle fatte per costruire davvero la struttura basilare del nuovo stato.
In primo luogo ci furono consistenti spese militari per aver un esercito all’altezza, sul piano del prestigio internazionale.
Poi c’erano le spese per creare o rafforzare gli uffici e il personale delle pubblica amministrazione.
Infine era necessario costruire una rete di comunicazioni stradali e ferroviarie che garantisse davvero il commercio all’interno di tutto il paese e tutte le altre attività.
Per far fronte alle spese la Destra storica, già nel 1862 per bocca di Quintino Sella, aveva dichiarato che l’unico sistema era quello di far ricorso alle tasse.
Le tasse, o imposte, possono essere di due tipi: dirette o indirette.
Le tasse dirette sono quelle che vengono pagate in base al reddito e alle ricchezze di ciascuno.
Le tasse indirette sono quelle che si pagano quando si comprano delle merci.
All’epoca la maggioranza delle tasse, il 51%, era indiretta, dunque colpiva tutti senza distinzione di reddito o di ricchezza e pesava di più soprattutto sui più poveri.
La più nota, e duramente contestata, fu la tassa sul macinato del 1868 che era anch’essa partita da un’idea di Sella.
La tassa colpiva tutti cereali che venivano portati alla macinazione nei mulini.
Dunque chiunque avesse frumento o altri cereali e volesse la farina doveva pagare questa tassa. In la realtà colpiva anche chi portava al mulino le castagne per avere la farina.
Cioè i più poveri in assoluto che non potevano neanche permettersi i cereali.
La tassa fu oggetto di forti contestazioni e scoppiarono tumulti e rivolte, soprattutto tra i contadini poveri nelle campagne e per reprimerli il governo fece intervenire l’esercito.
Ma il pesante tributo ottenne alcuni anni dopo l’esito sperato. Nel 1876, quando a capo del governo c'era Marco Minghetti, fu conseguito il pareggio del bilancio.
Dunque le entrate dello stato, ottenute soprattutto con le tasse, avevano permesso di eliminare il debito statale precedente.
Alle elezioni parlamentari del 1874 le sinistre ottennero un successo elettorale perché riuscirono a conquistare un numero di voti molto più alto rispetto alle precedenti elezioni.
Due anni dopo, il governo formato dalla maggioranza della Destra storica cadde e il nuovo governo fu affidato al rappresentante più autorevole della Sinistra storica Agostino Depretis.
La Sinistra storica si faceva interprete di una serie di riforme tra le quali l’ampliamento del suffragio.
Considerava fondamentale la diminuzione delle tasse in particolare l’eliminazione di tasse impopolari come quella sul macinato e l'introduzione di prime misure a difesa dei lavoratori.
Depretis per poter attuare le riforme promesse, non avendo una solida maggioranza parlamentare, tentò di allargare la sua maggioranza attirando deputati di altri partiti attuando una pratica di governo che da allora è stata definita trasformismo.
In pratica facendo promesse utili a questo o a quel deputato, per aumentare il consenso nel proprio collegio elettorale, otteneva che votassero i provvedimenti del suo governo.
Il trasformismo fu attuato anche guardando alle differenze territoriali.
Nel suo governo c’era un’ampia rappresentanza di deputati meridionali con i quali attuò una politica clientelare in base alla quale al sud si ottenevano favori politici da parte dei parlamentari meridionali in cambio di voti.
Fenomeno che accentuò la corruzione e diede spazio ai fenomeni mafiosi e malavitosi che si stavano sviluppando in quegli anni.
In polemica con la pratica del trasformismo Depretis nel 1877 vide anche l’abbandono del suo schieramento da parte di un gruppo di deputati, capeggiati da Agostino Bertani e Felice Cavallotti, che formarono la Sinistra estrema, di idee democratico-repubblicane.
La sinistra storica cambiò la legge elettorale e aumentò il suffragio, portando la percentuale dei votanti dal 2% al 7%.
In campo economico introdusse il protezionismo per tutelare gli interessi dell’industria del nord.
Il protezionismo faceva salire i prezzi delle merci provenienti dall’estero applicando alte tariffe doganali e favorendo dunque le merci prodotte dalle industrie italiane ma danneggiava le esportazioni del sud, soprattutto agricole, che vedeva, per ritorsione, aumentare le imposte sulle esportazioni nei paesi esteri.
Inoltre nel 1877 attuò un’importante riforma scolastica con la legge Coppino che portava l’obbligo scolastico sino ai nove anni e dichiarava l’istruzione elementare gratuita e laica.
In politica estera l’Italia era in questo momento abbastanza isolata diplomaticamente rispetto alle grandi potenze europee e aveva scarso peso internazionale.
Depretis per uscire da questo isolamento nel 1882 firmò il trattato della Triplice alleanza con la Prussia e l’Austria-Ungheria.
Nello stesso anno iniziò anche l’espansione coloniale in Africa acquistando la baia di Assab dalla compagnia Rubattino che l’aveva rilevata alcuni anni addietro.
Nel 1887 il tentativo di penetrazione verso l’Eritrea subì una dura battuta d’arresto con la sconfitta patita a Dogali dove un colonna di oltre cinquecento soldati italiani venne quasi sterminata.
Alla battaglia seguì un terremoto politico in Italia, a seguito del quale il governo Depretis dovette dimettersi.
Depretis morì nello stesso anno e al suo posto venne chiamato Francesco Crispi.