Le Americhe prima di Colombo erano estesamente abitate dall’uomo, che le aveva raggiunte, in epoca preistorica, dall’estremità nord-orientale dell’Asia, attraversando lo stretto di Bering. Nell’America centrale e in quella meridionale ebbero origine importanti civiltà, distrutte dal genocidio perpetrato dai conquistadores spagnoli. Esistono tracce di civiltà a partire dal 2500 a.C., ma bisogna giungere all’VIII secolo a.C. per veder sorgere nel centro America quella Olmeca, che ha lasciato impressionanti teste di pietra (alte più di 2 m.) con caratteri di tipo mongolico. La città sacra degli Olmechi, Monte Albàn, costruita nel 500 a.C., sopravvisse fino all’arrivo degli Spagnoli (1522). Questa civiltà inventò una scrittura geroglifica e una sorta di pallavolo, che nel V secolo d.C. si diffuse presso i popoli limitrofi. Nel centro America, oltre alla civiltà dei Maya, hanno lasciato tracce i Toltechi, che, nella capitale Teotihuacàn, costruirono nel I secolo d.C. i templi del sole e della luna, e, a partire dal 1200 d.C., gli Atzechi. Nel sud le più antiche civiltà si svilupparono sulle coste del Pacifico a partire dal 2500 a.C. circa. Nel 400 a.C. compare a Paracas la civiltà che porta questo nome; ne rimangono tracce in caverne e necropoli. Al 272 d.C. risale l’inizio della civiltà Mochica, giunta fino al 1000 (ne troviamo resti in necropoli, come tessuti e monili). Essa fu sostituita dall’impero dei Chimù (1000-1466). A Nazca (400 a.C.-1000) si sviluppò una civiltà celebre per le estese raffigurazioni, probabilmente rituali, rimaste sul terreno lungo le coste peruviane, e visibili solo dall’alto. Fu assorbita da quella Tiahuanaco (o Tiwanako), irradiatasi, a partire dal 400 d.C., da un centro cerimoniale presso il lago Titicaca. Su tutte sovrasta la civiltà inca apparsa verso il 1100 d.C.
La storia dei Maya inizia nel 987 d.C., quando abbandonano, non si sa per quale ragione, i loro centri - Copàn, Tikal, Palenque ove i templi piramidali testimoniano la loro presenza - per "scendere" nella giungla dello Yucatàn; e loro origini sembrano risalire però al 2000 a.C. I Maya rimasero sempre fermi al Neolitico; non lavoravano i metalli, ma la pietra. Erano guerrieri, cacciatori, agricoltori; coltivavano mais, fagioli, zucche, meloni, cacao. Tessevano il cotone e avevano abiti vivacemente colorati. Conoscevano il gioco della palla. Erano abili mercanti, e un settore tra i più fiorenti del loro commercio era quello degli schiavi, impiegati per i lavori più faticosi. La loro scrittura, a glifi policromi non tutti decifrati, è testimoniata da testi cartacei, astronomici, astrologici e ritualistici. I Maya dipingevano mappe topografiche su stoffa, scolpivano statue ed erano ceramisti. Vivevano in capanne con un unico ingresso senza porta; vi pendeva una sottile cordicella con sonagli di rame che annunciavano il visitatore. Ai loro dignitari dedicarono splendidi palazzi di pietra (elemento architettonico tipico è la volta a mensola). Di bassa statura, molto robusti, si tatuavano e avevano zigomi prominenti e occhi mongolici. I loro riti religiosi cruenti erano molto simili a quelli atzechi. Occorsero molti anni ai conquistadores spagnoli per soggiogare i Maya, grazie anche alla convergenza di eventi, che si verificarono tra il 1527 e il 1546 (distruzioni, peste, sfinimento). La capitolazione definitiva giunse solo nel 1697.
Comparvero sul suolo messicano verso il 1168, come tribù nomadi ferocemente bellicose, che scendevano da nord in cerca di nuove terre, là dove erano fertili, coltivate da centinaia d’anni e costellate di laghi e di popolose città dei Toltechi, Olmechi, Zapotechi. In circa due secoli divennero signori assoluti del Messico, sottomettendo le altre tribù. Costruirono la metropoli più sontuosa d’America; sorta su di un’isola in mezzo al lago di Texcoco, la capitale Tenochtitlán era una città di circa novantamila abitanti, con strade, abitazioni, templi piramidali, ove, nei loro crudeli riti propiziatori, gli Atzechi offrivano il cuore ancora pulsante delle loro vittime. Erano infatti un popolo ossessionato dal timore di suscitare la vendetta dei propri dei, che andavano quindi nutriti con la più preziosa delle offerte, ossia il sangue umano. Perciò erano feroci guerrieri, che scatenavano le loro battaglie per procurarsi prigionieri quali vittime da immolare. L’acqua potabile scorreva nelle loro città in tubazioni di terracotta e zampillava nelle fontane. Coltivavano il mais, il cotone, ma erano anche ingegnosi architetti e artigiani; lavoravano metalli nobili e pietre preziose, erano dediti alla scultura, alla ceramica e alla tessitura, ma erano anche abili mercanti. Conoscevano la palla di caucciù per i loro giochi rituali, la carta, la scrittura, il calendario, ma non la ruota, utilizzata solo nei giocattoli e nei monili. Il 13 agosto 1521 Hernan Cortès, accolto come un dio dal re Montezuma e dai suoi dignitari (che non conoscevano i cavalli, le armature, le armi da fuoco) poneva fine nel sangue e col saccheggio all’impero atzeco, depredandolo dei suoi immensi tesori.
La civiltà incaica si affaccia alla storia dall’alto del suo trono andino, quello del leggendario primo imperatore Manco Capac, fondatore della capitale Cuzco nel 1100. Già nel 1250 la civiltà inca fuoriesce dalla valle di Cuzco per diffondersi nelle regioni circostanti. L’undicesimo imperatore estende le sue conquiste oltre Quito sino alla Colombia e, nel 1498, completa la strada che attraversa le Ande, lunga oltre 5200 Km. L’inca, ossia il re, disponeva di una ben ordinata organizzazione sociale che gli consentiva il controllo di questo vastissimo territorio; il suo regno, nella massima espansione (1520), si estendeva dall’arida fascia costiera lungo il Pacifico per 5000 km fino alle Ande (dal Perù alla Bolivia), inoltrandosi nella foresta amazzonica. Abili nel costruire città fortificate da mura megalitiche, gli Incas erano dediti alla pastorizia, alla coltivazione su terreni terrazzati, all’irrigazione, alla tessitura, all’arte orafa e alla ceramica. Nel 1532 Atahualpa, ultima inca indipendente, fatto prigioniero dallo spagnolo Francisco Pizarro coll’inganno, paga con un enorme tesoro come proprio riscatto, ma è ugualmente decapitato. L’impero è soggiogato; Manco II viene incoronato inca dagli spagnoli (1535), ma lo stato neo-inca crolla definitivamente nel 1572, quando il vicerè Francisco de Toledo fa uccidere Tupac Amaru, ritenuto l’ultimo esponente della dinastia inca.
I viaggi alla scoperta di terre nuove furono realizzati principalmente da Spagna e Portogallo, fra le quali ben presto esplose la rivalità, tanto che minacciarono di entrare in conflitto per i territori ancora da scoprire.
Così, nel 1494, dovette intervenire il papa Alessandro VI, che convinse spagnoli e portoghesi a sottoscrivere il trattato di Tordesillas.
Con esso fu fissata una linea di demarcazione immaginaria (raya), corrispondente al 46° meridiano ovest, che delimitava la sfera di influenza dei due paesi; ai portoghesi sarebbe spettato tutto ciò che fosse stato scoperto ad Est della raya, agli spagnoli i territori ad Ovest della stessa.
In seguito a questa decisione i portoghesi continuarono a battere la via della circumnavigazione dell'Africa, mentre gli spagnoli proseguirono sulla rotta aperta da Colombo.
Ebbero così inizio i primi due imperi coloniali della storia, quelli di Spagna e Portogallo. Gli altri stati europei che finanziarono viaggi di esplorazione, cioè Inghilterra, Francia e Olanda, si divisero invece l’America Settentrionale.
Gli spagnoli crearono un impero coloniale molto esteso territorialmente basato sullo un sfruttamento minerario e agricolo; i portoghesi, al contrario, cercarono di occupare porti e basi commerciali.
La colonizzazione riguardò anche l'aspetto religioso, per la diffusione del cristianesimo, che fu facile impresa per gli spagnoli, data la netta inferiorità culturale delle popolazioni autoctone, mentre si presentò estremamente difficile per i rivali, che dovettero affrontare popolazioni orientali con alle spalle civiltà e religioni molto evolute.
Nonostante il controllo dall’alto che la corona spagnola esercitò sui traffici verso il nuovo mondo, inizialmente la colonizzazione vera e propria visse sull’iniziativa, sulla spregiudicatezza e soprattutto sull’ampia autonomia di cui potevano godere i conquistadores. Gli stessi istituti giuridici mediante i quali le nuove terre venivano date in concessione dai sovrani, l’encomienda e il repartimiento, assicuravano, per il carattere feudale che li contraddistingueva, ampi poteri ai concessionari delle terre conquistate.
Alla stregua di signori feudali essi si ritenevano in diritto di sfruttare il lavoro della popolazione, assoggettarla al proprio giudizio, sottoporla al regime di coercizione militare e politica emanante dalle loro persone e sfuggire il più possibile ai controlli della madrepatria.
Queste premesse crearono le condizioni per l’innescarsi del brutale sfruttamento che caratterizzò il primo colonialismo spagnolo, un processo che provocò immensi vuoti demografici nella popolazione indigena e iniziò a sollevare dubbi e polemiche nelle coscienze religiose più sensibili. La corona intervenne allora per cercare di ridurre gli spazi di autonomia nelle colonie, accentuando il controllo delle strutture statali non solo sui commerci ma anche sull’organizzazione delle nuove terre.
Un "Consiglio Supremo delle Indie" venne insediato nelle colonie a rappresentare la suprema autorità amministrativa, giudiziaria ed ecclesiastica. Il dominio fu poi suddiviso in due vicereami per cercare di limitare l’autonomia dei conquistadores e degli encomenderos; la "Nuova Spagna", creata nel 1540, abbracciava l'area messicana, mentre la "Nuova Castiglia", o Vice Regno del Perù (1542), comprendeva la regione andina. Fu creato inoltre un corpus di "Nuove Leggi" (1542) che, considerando gli indigeni come vassalli della corona, cercavano di limitare i poteri di sfruttamento; furono infine creati dei tribunali speciali, detti audiencias, presieduti dai viceré, incaricati di giudicare e reprimere eventuali abusi.
Per quanto riguarda il Portogallo, la sua presenza nel continente sudamericano non si discostò molto da quella spagnola che anzi fornì il modello per la colonizzazione del Brasile. Occupate infatti intorno al 1530 alcune località lungo la costa, la premessa del processo di colonizzazione vera e propria fu la suddivisione nel 1533 di tutta la costa brasiliana in 12 capitanie che vennero affidate ad altrettanti donatari, non troppo dissimili, per l’ampia autonomia di cui godevano, dagli encomenderos spagnoli.
L'istituzione cardine di tutta la conquista spagnola fu uno strumento giuridico che presentava forti caratteristiche di origine feudale e che servì alla corona per regolare i conflitti che si accesero fra i conquistadores al momento di suddividere le terre conquistate.
L'encomienda (da encomandar, cioè affidare) significava che un colono spagnolo riceveva per conto del re un determinato territorio e un certo numero di abitanti indigeni che si impegnava a convertire a convertire al cattolicesimo, ricevendone in cambio prestazioni di lavoro. In realtà i conquistadores oppure i loro discendenti diventavano una sorta di piccoli signori feudali, dotati di un vasto possesso fondiario sfruttato con il lavoro coatto e non retribuito degli indios.
Le terre che venivano lavorate, infatti, non erano il frutto di un libero acquisto ma il risultato di una conquista militare oppure di una donazione della corona, per cui il dominio, oltre che sulle terre, venne ad estendersi sugli stessi abitanti e sulle loro precedenti istituzioni. Già dai primi insediamenti nell'area caraibica il sistema delle encomiendas assunse forti connotazioni schiavistiche provocando conseguenze nefaste per la popolazione india.
La prassi coloniale e lo sfruttamento di rapina dei territori conquistati, pur fra enormi contraddizioni che non scalfirono la legittimità dell'encomienda, cercò in qualche modo di essere mitigata dalla monarchia spagnola: anche gli indios erano infatti sudditi della corona e da lei dipendevano. In gioco vi erano inoltre i rapporti con le colonie e gli spazi di autonomia che faticosamente si cercò di ridurre.
Dopo i primi timidi tentativi fatti con le Leggi di Burgos (1512-1513) si cercò nuovamente di intervenire con le Nuove Leggi del 1542: la difesa degli indios venne affermata con maggiore decisione ma il vero oggetto del contendere e fonte dei successivi conflitti fu la questione dell'ereditarietà delle encomiendas, che si cercò di limitare a favore di un incameramento da parte della corona
Hernan Cortés è il primo viaggiatore a realizzare una vera conquista militare attraverso la presa di coscienza del proprio ruolo politico e storico. Se dapprima è spinto dalla stessa curiosità o ansia di ricchezza di Cristoforo Colombo e di Amerigo Vespucci, a differenza di questi ultimi Cortés trasforma poi il suo viaggio in Messico in una campagna rivolta alla sottomissione di quel paese.
Uno dei tratti fondamentali nella strategia di Cortés è la manipolazione della comunicazione tra sé e gli indigeni, che procede in modo sfumato tramite una fitta rete di informatori.
Attraverso questi egli scopre le rivalità e le divisioni in seno agli indigeni, sfruttandole per conseguire quei successi militari che lo condurranno ad impadronirsi dell’impero atzeco. Parimenti è abile nel suscitare nei suoi avversari il rispetto ed il timore nei confronti degli spagnoli, sfruttando le armi da fuoco, come i cannoni, e i cavalli, in quelle terre del tutto sconosciuti.
Manifesta, inoltre, il suo favore per le azioni spettacolari e per le punizioni esemplari. Quest’abilità strategica di Cortés lo avvicina all’insegnamento quasi contemporaneo di Machiavelli, il quale pone la reputazione e la finzione al sommo della gerarchia dei valori; lo spirito di un’epoca si riflette negli scritti dell’uno e negli atti dell’altro.
Cortés è certo animato da sincera ammirazione per l’impero atzeco (anche se non considererà mai gli atzechi al livello di sudditi, cioè di individui dotati di una volontà libera), ma dimostra come si possa al contempo ammirare gli altri e contribuire al loro sterminio. Pur senza essere nominato vicerè, gestisce anche la fase di consolidamento del proprio potere, dando un respiro imperiale alla riorganizzazione di quel territorio.
Per fuggire in patria a un’esistenza stentata Francisco Pizarro, avventuriero senza patrimonio e senza cultura (era stato addirittura guardiano di porci), si reca nelle terre del nuovo mondo. Da Santo Domingo partecipa a una spedizione di Vasco Nuñes de Balboa nel golfo di Darién (1509-1510), poi si stabilisce a Panama.
Qui fa società con Diego de Almagro per organizzare la conquista del Birù o Pirù, paese favoleggiato da diversi viaggiatori. Dopo due spedizioni esplorative (nel 1524 e 1526) Pizarro parte per la Spagna e ottiene dal re la nomina di capitano generale e governatore delle terre che conquisterà.
Nel 1531 è pronta una nuova spedizione che parte da Panama per giungere a Túmbez, nel golfo di Guayaquil, dove Pizarro viene a conoscenza della situazione caotica dell’impero incaico, diviso per la guerra di successione tra i partigiani di Huáscar e quelli di Atahualpa.
Quest’ultimo si trova nella vicina città di Cajamarca con un seguito di 40 mila soldati, ma Pizarro, riesce a catturarlo a tradimento con appena 200 uomini. L’impero incaico cade così in un giorno (15 novembre 1532). Atahualpa resta qualche mese prigioniero, consegna un enorme riscatto in oro, ma non evita la condanna a morte. L’entrata di Pizarro a Cuzco (1533) e il saccheggio della città completano l’opera di devastazione, mentre la resistenza incaica si organizza sotto il nuovo sovrano Manco Capác II.
Mentre Almagro volge le sue mire verso il Cile, Pizarro inizia il consolidamento della conquista fondando Ciudad de los Reyes (Lima) e Trujillo. Ma gli indigeni si sollevano e assediano Cuzco, liberata dal ritorno dell’Almagro che pone la città sotto la propria giurisdizione.
Tra lui e Pizarro comincia allora la "guerra dei conquistadores": Cuzco passa più volte di mano, ma infine Almagro è sconfitto a Las Salinas e condannato a morte (1538). Tre anni dopo i suoi partigiani, raccoltisi attorno al figlio Diego il Giovane, penetrano nel palazzo del governatorato di Lima e uccidono Pizarro.
È noto che inizialmente l'atteggiamento degli europei nei confronti delle nuove popolazioni incontrate in America fu di incomprensione e di totale rifiuto. Nella fase della conquista simile atteggiamento fu necessario a giustificare le crudeltà e la sopraffazione violenta che furono attuati dai primi conquistadores, messi a disagio dalla diversità degli indios e dai loro modi di vita. Ma le atrocità commesse, che si tradussero in un vistoso calo demografico delle popolazioni indigene, iniziarono a suscitare da un lato le proteste di alcune voci isolate - come quella di Las Casas - dall'altro resero sempre più urgente l'esigenza di convertire al cristianesimo le popolazioni americane. Dopo tutto si trattava di sudditi dei re cattolici di Spagna e il problema della conversione al cristianesimo dei "selvaggi" rivestì di spirito missionario la colonizzazione iberica del nuovo mondo. Naturalmente il processo fu complesso e assai difficoltoso, anche perché inizialmente fu difficile distinguere fra la croce di Cristo e la spada dei conquistatori, a non voler considerare altre difficoltà di tipo culturale. Spesso la soluzione di questi problemi fu estremamente drastica: battesimi forzati di massa, distruzione dei luoghi di culto preesistenti e costruzione di chiese, condanne a morte per eresia (tribunali dell'Inquisizione spagnola furono attivati nei viceregni del Messico e in Perù). Se l'imposizione forzata di una nuova religione avviò un inesorabile processo di destrutturazione culturale, altri fenomeni contribuirono distruggere il tipo di organizzazione sociale e produttiva delle popolazioni indigene. Soprattutto le malattie provocarono il declino e la distruzione di intere comunità. L'incontro con gli europei fu un vero e proprio choc microbico che introdusse virus e malattie sconosciute che si rivelarono altamente distruttive; il vaiolo, il tifo, oppure malattie considerate in Europa più blande, come il morbillo e l'influenza, provocarono fra la popolazione americana delle terribili epidemie. Lo sfruttamento coloniale, infine, e soprattutto il lavoro coatto nelle miniere e nelle piantagioni, costituì l'altro motivo preminente del drammatico crollo demografico. Il dato del Messico è impressionante: all'inizio del '500 si registravano circa 25 milioni di indios: un secolo dopo erano ridotti a malapena ad 1 milione
Con l’arrivo dei conquistadores le popolazioni native che abitavano i territori del nuovo continente sia avviavano a scomparire. L'unica voce che denunciò al mondo civile e al governo spagnolo le orrende atrocità perpetrate ai danni delle popolazioni indigene, fu quella del frate domenicano Bartolomeo de Las Casas(Siviglia 1474 - Madrid 1566), il religioso spagnolo rimasto famoso come l’"apostolo delle Indie".
Figlio di un mercante che si era stabilito nei Caraibi diventando un ricco proprietario di piantagioni, dopo aver studiato diritto in Spagna, Las Casas nel 1502 si trasferì a Hispaniola (oggi Haiti), diventando consigliere del governatore di Santo Domingo. Nel 1512 fu il primo sacerdote ad essere ordinato nel nuovo mondo; in premio ottenne una encomienda che lasciò due anni dopo consapevole degli abusi e dello sfruttamento schiavistico cui erano sottoposti gli indigeni.
Iniziò qui la sua crociata per abolire la schiavitù e per assicurare condizioni di vita meno disumane alle popolazioni indigene. Fra il 1520 e il 1521, avendo ricevuto una concessione di terreno di circa 250 leghe, cercò di dare vita ad una comunità modello sulle coste del Venezuela. L’insuccesso dell’operazione lo convinse ad intraprendere la strada della predicazione.
Nel 1522 entrò a far parte dell’ordine domenicano e successivamente si dedicò a comporre una cronaca delle vicende della prima colonizzazione spagnola in America (Storia delle Indie, 1528). La sua attività di missionario si esplicò da un lato nei tentativi di convertire al cristianesimo gli indigeni (nel 1537 fu inviato ad esempio in Guatemala), dall’altro in una costante difesa dei diritti dei colonizzati.
Nel 1542 presentò all’imperatore Carlo V la sua opera più famosa, la Brevissima storia della distruzione delle Indie, un’opera che denunciava in toni durissimi le disumane condizioni di vita cui erano sottoposti gli indios.
I coloni spagnoli sfruttavano queste popolazioni riducendole in schiavitù e sottoponendole a lavori inumani sia nei campi che nelle miniere. Las Casas dovette penare non poco perché il governo e la Chiesa si convincessero di tali brutalità, ma riuscì solo in parte a frenare il potere dei conquistadores.
Il suo impegno contribuì all'emanazione delle Nuove Leggi delle Indie (1542), che, fra l’altro, abolivano il sistema dell'encomienda e proibivano la schiavitù delle popolazioni indigene non senza evidenti contraddizioni.
Da un lato infatti il governo vietò la riduzione in schiavitù degli indigeni, dall’altro legalizzò il lavoro forzato nelle miniere. La Chiesa, sostenuta da alcuni teologi che, per favorire gli interessi degli affaristi, arrivarono ad affermare che gli Indios essendo privi di anima erano dei veri e propri animali da soma e potevano esser trattati come tali, divenne essa stessa una grande proprietaria terriera.
La sua attività in favore degli indios gli attirò, inevitabilmente, parecchie inimicizie e rancori. Nonostante nel 1544 fosse stato nominato vescovo del Chiapas, nel Messico meridionale, nel 1547 fu costretto a tornare in Spagna per difendersi dalle accuse di tradimento e di eresia. Ormai anziano non poté più fare ritorno in America, ma non per questo cessò la sua attività di divulgazione e di predicazione in favore della causa degli indios.
Un interessante esperimento per cambiare gli aspetti più duri della colonizzazione spagnola - al cui fondo vi era un senso di superiorità che si alimentava di giustificazioni di tipo antropologico, politico e religioso - fu quello messo in pratica dalla Compagnia di Gesù. I gesuiti provarono un po’ in tutta l'America latina, ma concretamente soprattutto nella regione del Paraguay, ad impiantare delle comunità di indios fondate sul lavoro agricolo, riprendendo taluni degli aspetti istituzionali delle società incas. Chiamate "Riduzioni" (dalla frase latina "riducti ad vitam civilem"), le comunità indios sopravvivevano al riparo dai soprusi dei coloni spagnoli e prosperarono sia economicamente che demograficamente, sebbene in un regime di autonomia molto limitata, visto che gli indigeni, evidentemente, erano ritenuti incapaci di amministrarsi da soli. L'esperimento della Compagnia, comunque, aveva anche altre valenze fra cui, in primo luogo, quella di affermare la propria indipendenza dai poteri iberici e coloniali: le "Riduzioni" si configurarono infatti come uno spazio di autonomia che sarà fatale ai gesuiti e alle loro comunità indie alla metà del XVIII secolo.