Con le idee, Platone aveva voluto asserire l'esistenza di principi indipendenti dall'esperienza, cioè dalla sua variabilità e mutevolezza, e perciò capaci di garantire la stabilità e l'oggettività del sapere e dell'agire.
Per questo motivo aveva affermato, con la loro indipendenza, anche la loro presenza e influenza nell'esperienza, e in particolare la possibilità di accedere ad esse mediante la ragione.
Solo essa infatti poteva costituire la base per quel passaggio dal mondo dell'esperienza al mondo delle idee (e di ritorno dal mondo delle idee al mondo dell'esperienza) che è il contenuto del mito della caverna e l'impegno del mito di Er.
Non a caso quindi il rapporto tra l'anima e le idee costituisce un capitolo particolare del pensiero di Platone, sviluppato in alcuni dei suoi dialoghi più suggestivi: il Fedone, il Simposio e il Fedro; e la loro suggestione deriva, anch'essa non a caso, dal fatto di essere costruiti con uno stile peculiare, fatto di "ragionamenti e miti".
Argomento del Fedone - il dialogo che rappresenta con commozione le ultime ore di Socrate - è l'immortalità dell'anima.
Gli argomenti portati sono quattro ma, nel loro intrecciarsi, rimandano tutti di fatto ad un solo argomento, che è quello per Platone fondamentale: l'affinità dell'anima alle idee, da cui partecipa la propria perfezione ed eternità.
In base a questo argomento, fra l'altro, Platone respinge come radicalmente insufficienti le dottrine naturalistiche: esse in effetti spiegano ogni fenomeno (anche quelli relativi all'anima) con cause materiali, e perciò non sanno dar ragione dei comportamenti umani ispirati (come il sacrificio di Socrate) da principi ideali. In quest contesto Platone pone le premesse della sua teoria delle idee:
«-Considera allora, disse Socrate, se la cosa sta così. C'è qualcosa di cui diciamo che è uguale? Uguale, dico, non come legno a legno, pietra a pietra o simili, bensì un uguale che è al di là di tutte le cose uguali e diverso da esse, voglio dire l'uguale in sé. Ebbene, diciamo noi che questo uguale è qualcosa o non è nulla? (b) –Certo che lo diciamo, disse Simmia; e come no?
-E conosciamo anche ciò che esso è in se stesso?
-Certamente, rispose.
-E da dove abbiamo tratto conoscenzadi esso? È forse a partire da quegli uguali di cui si diceva, cioè legni o pietre o altre cose uguali, vedendo che sono uguali, che abbiamo pensato a quell'uguale che è pur diverso da essi? O non ti pare che le cose stiano altrimenti? Considerale da questo punto di vista: pietre uguali e legni uguali, pur rimanendo gli stessi, non succede che a qualcuno sembrino uguali e ad altri no?
-Sì, certo. (c)
-E l'uguale in sé, può mai apparire disuguale, e l'uguaglianza disuguaglianza?
-No, mai, Socrate. (d)
-E allora? soggiunse Socrate: ci appaiono essi uguali come l'uguale in sé, o per qualche aspetto manchevoli in rapporto all'uguale in sé, o per nulla manchevoli?
-Manchevoli, e molto! (e)
-Ma chi pensa così, siamo d'accordo che deve pur aver visto prima ciò cui dice che la cosa, sia pur in modo difettoso, assomiglia.
-Necessariamente.
-Dunque, è necessario che noi abbiamo veduto prima l'uguale: prima cioè (75a) del momento in cui, vedendo per la prima volta cose uguali, abbiamo pensato che esse tendono sì ad essere come l'uguale in sé, ma rispetto ad esso sono difettose.
-È così. (c)
-Dunque, a quanto pare, questa conoscenza noi dovevamo possederla prima di nascere.
-Pare di sì.
-Ma allora noi, prima di nascere e subito dopo nati, conoscevamo non solo l'uguale, il maggiore e il minore, ma anche tutte le altre realtà di questo genere. Infatti, il ragionamento vale non solo per l'uguale in sé, ma anche per il bello in sé, (d) per il buono in sé, per il giusto in sé, per il santo in sé, e insomma, come dico, per tutti gli esseri su cui noi, domandando e rispondendo, poniamo a sigillo che "è in sé". Necessariamente. (76c) –Ma quando le nostre anime hanno acquistato la conoscenza di tali cose? Non certo da quando siamo diventati uomini!
-No certo! Allora, prima.
-Sì.
-Dunque, Simmia, le nostre anime esistevano anche prima: prima, dico, di essere in questa forma d'uomini, separate dai corpi; e avevano intelligenza.(d)
-Sì.
-Dunque, Simmia, riprese Socrate, le cose stanno così? Se esistono veramente le realtà di cui continuamente parliamo, ossia il bello, il buono e tutte le altre del genere, e ad esse noi rapportiamo e compariamo le impressioni dei sensi, come a modelli già in nostro possesso, ebbene, non è ugualmente necessario che la nostra anima esista prima ancora che nasciamo? Se invece quelle realtà non esistessero, il mio discorso sarebbe del tutto vano.»
Il legame dell'anima con le idee significa sostanzialmente aspirazione dell'anima alla perfezione: e di questa sua condizione Platone vede l'espressione nell'amore, che è l'argomento del Simposio. L'amore non è un semplice fatto fisiologico e psicologico, ma coinvolge l'intera natura dell'anima nella sua tendenza a oltrepassare i limiti dell'esperienza.
Ciò che la muove, in effetti, è un bisogno di immortalità, che solo il rapporto con ciò che è eterno può soddisfare. Così inteso, l'amore si ritrova alla base di ogni opera in cui l'uomo cerca di sopravvivere a se stesso, e si rivela quindi come una fondamentale forza di civiltà.
In questo senso, l'amore non è un fatto sentimentale, ma un processo etico, che coinvolge tutte le forze dell'anima; questo è il significato dell'altro celebre dialogo sull'anima, il Fedro. Il suo centro è la nota metafora che rappresenta l'anima come una biga alata che trascorre nel mondo delle idee, guidata da un cocchiere, che rappresenta la ragione, e trainata da due cavalli, che rappresentano rispettivamente i sentimenti elevati e le passioni.
Mossa da queste forze, l'anima vive una vicenda che di volta in volta le consente di alzarsi a contemplare i valori e la verità, o la precipita nell'abiezione. Anche nel più profondo di questa, tuttavia, essa nutre nostalgia della perfezione; e l'esperienza che la riconduce ad essa è, ancora una volta, quella della bellezza.
L'attrazione misteriosa e irresistibile verso il bello fa dell'amore una mania, cioè una forza irrazionale: non però una forza contraria alla ragione: anzi, questa forza costituisce lo stimolo necessario perché l'anima risalga dalle cose ai loro principi e, alla fine, al principio stesso di questi, il bene, e poi ritorni alle cose, ritrovandone la natura e il senso a partire da questi principi; costituisce cioè lo stimolo della dialettica.
Questo legame della dialettica col sentimento ricompone l'unità dell'anima, e costituisce un'altra, più radicale, critica della sofistica, che sapeva sollecitare sentimento e fantasia, ma non la ragione (perciò il dialogo si chiude con un saluto ironico a Isocrate).
Al di là delle allusioni alla cultura del suo tempo, la dottrina dell'anima costituisce una vera e propria dottrina dell'uomo (che fra l'altro ha avuto una particolare influenza sul cristianesimo), e non solo perché in essa colloca la natura dell'uomo (questa era una dottrina pitagorica, già presente nell'Alcibiade maggiore) ma perché mette in rilievo in lui una dimensione particolare, non rilevata nella cultura greca: quella del sentimento.
Non il sentimento empirico, ma il sentimento come esperienza dei valori, e perciò aspirazione ad essi. Così inteso, appunto, il sentimento fa dell'uomo un essere "in bilico", mosso dalla "nostalgia dell'essere"; e perciò costituisce per Platone una prova dell'esistenza stessa delle idee.
A questa concezione dell'anima si connette il carattere peculiare del pensiero platonico, specie in questi dialoghi ma non solo in essi, di essere "ragionamento e mito" insieme.
L'esistenza di una dimensione mediatrice tra sensi e ragione (le passioni nobili) era già rilevata nella Repubblica; nei dialoghi dell'anima essa viene valorizzata anche come il tramite per cui Platone ritiene di far passare il suo messaggio filosofico.
La filosofia nella sua purezza, in effetti, comporta un itinerario non accessibile ad ogni uomo, e d'altra parte non tutte le verità filosofiche possono essere dimostrate: di qui la necessità di trovare una via di accesso alla verità diversa dalla ragione ma non contraria ad essa, anzi con essa convergente: questa, come abbiamo visto, è la mania (sentimento e fantasia) e il suo corrispettivo è il mito.
Presentazione immediata di una verità più profonda, e capace di svilupparla nell'anima, esso è il naturale alleato della filosofia tra gli uomini; come tale, esso recupera il valore dell'arte, non solo, ma le conferisce una portata per l'uomo che prima non aveva.
La mediazione del mito garantiva dal punto di vista etico il rapporto tra le idee e l'uomo perché i valori etici sono più facilmente ancorabili all'azione umana, ma non serviva a chiarire in termini razionali il rapporto tra le idee e le cose. Chiarirlo però era indispensabile, perché Platone aveva fatto delle idee non solo dei principi ideali, ma anche le cause della realtà.
Per rispondere a queste difficoltà, Platone, già vecchio, si mise in un'impresa straordinaria di ripensamento delle precedenti teorie, il cui senso fondamentale è di riavvicinare alle cose i principi che aveva separato da esse. L'itinerario di questo ripensamento è stato da lui stesso indicato -fatto eccezionale - mediante una serie di rimandi tra i dialoghi di questo periodo (i "dialoghi dialettici") Parmenide, Teèteto, Sofista, Politico, Filebo.
Su questo piano, il Parmenide costituisce una denuncia spietata delle difficoltà delle idee "separate" (difficoltà insuperabili se esse sono concepite come cose e non, per dirla con Kant, come principi sintetici); esse infatti non consentono di rappresentare il loro rapporto né come partecipazione né come imitazione.
«-E ancora non hai visto (b) la difficoltà più grave, a voler porre ogni Idea come una e distinta.
-Quale difficoltà?, chiese.(134b)
–Le Idee in sé, come tu stesso dici, non sono sul piano della nostra esperienza.
-No, infatti.
-E ciascuna di esse non potrà essere oggetto se non della scienza in sé.
-Sì.
–Scienza che però noi non possediamo.
-No.
-Dunque, nessuna Idea è da noi conosciuta, perché non partecipiamo della scienza in sé.
-Sembra di no.
– Sarà dunque inconoscibile per noi il bello in quanto tale, e il bene in quanto tale, e tutto ciò che noi ammettiamo come Idea in sé.
-Può essere vero, riconobbe. (135b)
-E d'altra parte, Socrate, concluse Parmenide, se non si ammette che esistano le Idee delle varie realtà, non si avrà un punto di riferimento per il pensiero, (c) e si distruggerà la forza della dialettica.
-Questo è vero, affermò.»
Ma che una possibilità di soluzione esista è forse prospettata dall'esame che Parmenide stesso compie della dottrina che sta alla base delle teoria delle idee: la dottrina dell'uno.
Non segiremo qui la complessa trama di argomenti della parte principale del dialogo ma prendiamo atto del fatto che l'ipotesi pone una stretta correlazione tra idee ed esperienza e comporta delle contraddizioni, che dipendono dalla natura della molteplicità e del divenire, ma è l'unica via percorribile, se si vuole salvare il valore della conoscenza.
Diversamente, se essa fosse abbandonata al divenire, senza alcun fondamento nell'essere, il valore della conoscenza razionale sarebbe perduto.
Non è infatti possibile spiegare il molteplice in riferimento a se stesso, poiché esso richiede il riferimento ad un’unità fondativa - ragion per cui unità e molteplice sono inseparabili. D’altra parte, l’unità del molteplice non è altro che un insieme di unità e molteplicità relative, su cui avrà il compito di indagare la filosofia attraverso la dialettica.
Le idee sono dunque quegli enti primi, eterni e immobili di cui partecipano le cose sensibili. Esse rimangono sempre identiche, in sé e per sé, e separate dal mondo sensibile a causa della propria superiorità ontologica: solo attraverso il ragionamento sarà possibile conoscerle, in modo da conoscere così i criteri di ragionamento assoluti fondativi della vera conoscenza, dell'etica e della politica.
Questa è la tesi del Teèteto, in cui Socrate è introdotto a riprendere la sua polemica contro il relativismo di Protagora, al cui fondamento però Platone pone con decisione la dottrina di Eraclito che la realtà è divenire. Questa concezione riduce il sapere a sensazione, ma la sensazione, per sua natura, è instabile e contraddittoria - al punto da rendere contraddittoria anche la tesi che su di essa fonda la conoscenza.
Né un sapere più sicuro si raggiunge se alla sensazione si aggiunge la riflessione, e nemmeno se la riflessione consiste nel "dar ragione" delle cose.
La ricerca della ragione si riduce infatti alle cause fisiche, e non è in grado di spiegare come avvenga l'errore.
Il Teèteto, secondo lo stile socratico, sembra non trovare conclusioni, ma esse si impongono: il sapere può fondarsi solo sulla conoscenza delle idee e dei rapporti tra esse - e in questi si deve cercare tanto la falsità quanto la verità.
Bisogna allora supporre che l'anima abbia la capacità di stabilire una connessione e un rapporto tra i vari dati. Ma con ciò il piano della sensazione è superato definitivamente, perché solo in questa fase ulteriore di collegamento e rapporto di dati l'anima è in grado di affermare l'esistenza di una cosa, la sua identità con se stessa e la sua alterità rispetto ai correlativi, la somiglianza e la dissomiglianza, l'uno e il multiplo.
Senza questi "generi comuni", essere, relazione, qualità e quantità non c'è percezione.
«SO.: Allora dimmi, Teeteto: (c) è più corretto dire che gli occhi sono ciò "con cui" vediamo, o ciò "per mezzo di cui" vediamo? e che gli orecchi sono ciò "con cui" udiamo o "per mezzo di cui" udiamo?
TEET.: Mi sembra meglio "per mezzo di cui" abbiamo le sensazioni. (e)
SO.: E gli organi per mezzo di cui senti le altre qualità, caldo, duro, leggero, dolce, non li consideri organi singoli del corpo? O di qualcos'altro?
TEET.: Di nient'altro.
SO.: E non diresti anche che (185a) ciò che percepisci per mezzo di una facoltà determinata, non può essere percepito da una facoltà diversa? Per esempio, non si può percepire con la vista ciò che riguarda l'udito, e viceversa.
TEET.: E come potrei dire di no?
SO.: Se prendi due oggetti insieme, uno veduto e l'altro udito, dunque, non potrai, con una sola delle due facoltà, né pensarli né sentirli.
TEET.: No, in effetti
SO.: Ma del suono e del colore, presi insieme, non pensi forse questo innanzitutto, che entrambi sono? TEET.: Sì.
SO.: E non pensi anche che ciascuno è diverso da ogni altro, ma identico a se stesso? (b)
TEET.: Certo.
SO.: E che insieme sono due, ma ciascuno è uno?
TEET.: Anche questo, sì.
SO.: Sei dunque capace di stabilire se sono simili o dissimili.
TEET.: Certo.
SO.: Ebbene, per mezzo di quale facoltà pensi tutto questo di essi? Non per mezzo della vista o dell'udito, infatti, potrai cogliere ciò che hanno in comune. E poi, se siano entrambi salati o no (c) tu potrai dirmi con quale facoltà si può stabilire; ma non sarà certo né la vista né l'udito.
TEET.: E che facoltà sarà, se non quella che si serve della lingua?
SO.: Giusto. Ma allora, per mezzo di cosa opera, e che facoltà è quella che ti chiarisce ciò che c'è di comune nelle cose, e in particolare l'essere e il non essere, e quello che dicevamo? A quali organi di senso attribuirai, una per una, queste percezioni? (d)
TEET.: Ma per Zeus, Socrate, non mi pare che per queste ci siano organi specifici; mi pare invece evidente che è (e) la stessa anima, per mezzo di se stessa, a stabilire ciò che nelle cose c'è di comune.
SO.: Bravo, Teeteto, che mi hai risparmiato un lungo discorso, se dici evidente che certe cose l'anima le stabilisce da sé, per mezzo di se stessa, altre invece per mezzo delle facoltà del corpo. (186a)
TEET.: Sì, mi pare evidente.
SO.: In che tipo di cose, dunque, poni l'essere? perché l'essere soprattutto è comune alle cose.
TEET.: Tra le cose cui l'anima tende da sé, per se stessa.
SO.: E il simile e il dissimile, l'identico e il diverso?
TEET.: Anche.
SO.: E il bello e il brutto, il buono e il cattivo?
TEET.: Anche questi, mi pare, sono cose di cui l'anima indaga l'essere, soprattutto con l'esaminare i rapporti che hanno tra loro, (b) nel passato, nel presente e nel futuro.
SO.: Fermati qui! La durezza di ciò che è duro, come la mollezza di ciò che è molle, l'anima non la percepisce per mezzo del tatto?
TEET.: Sì.
SO.: Ma il fatto che sono [duro e molle] [qualità], che sono due [quantità], che sono opposte[relazione], è l'anima che si sforza di chiarirceli, ripercorrendoli e confrontandoli fra loro.
TEET.: Certo. (c)
SO.: Dunque, ci sono sensazioni che uomini e animali hanno la capacità di percepire per natura, e sono quelle che arrivano all'anima dal corpo; ma le riflessioni su queste sensazioni, sul loro essere e sulla loro utilità, si sviluppano a fatica e col tempo, in quelli pure in cui si sviluppano, e sono quelle che l'anima scopre da sola. TEET.: È proprio così.
SO.: Ora, è possibile che colga la verità chi non coglie nemmeno l'essere?
TEET.: Impossibile, Socrate.
SO.: E potrà uno aver scienza di ciò di cui non coglie la verità? (d)
TEET.: E come potrebbe, Socrate? SO.: Allora, non è nelle impressioni sensibili che si trova la scienza, ma nella riflessione su di esse: con questa, infatti, è possibile, a quanto pare, cogliere la verità, con quelle no. TEET.: È chiaro. (e)
SO.: Dunque, Teeteto, sensazione e scienza non possono essere la stessa cosa.
TEET.: È chiarissimo che la scienza è altra cosa.»
La stessa prima formulazione di questa tabella di categorie logiche e ontologiche a un tempo, che prelude a quella analoga, sebbene diversa, del Sofista, poneva immediatamente una serie imponente di problemi, la cui mancata discussione nel Teeteto (al pari della mancata discussione della filosofia dell'eleatismo) renderà senza esito positivo la discussione di quel problema dell'errore che segue immediatamente e che vedremo ripreso in maniera assai più complessa nei successivi dialoghi.
Se la conoscenza non è sensazione, ma il giudizio dell'anima sulla sensazione, dovremo essere sicuri che tale giudizio sia vero e non falso.
Come riuscire allora a distinguere l’"opinione vera", cioè la conoscenza, dall'opinione falsa? In che senso è possibile l'errore? In questa domanda sono preannunciati alcuni dei complessi problemi che saranno trattati nel Sofista e ancora una volta la tesi dell' errore come pensiero, opinione di ciò che non è si scontra con l'altra tesi, per cui pensare e opinare hanno sempre un loro oggetto determinato e reale.
Questa è la tesi del Sofista, il dialogo in cui la dialettica platonica raggiunge il suo apice e trova le ragioni definitive contro la logica cinica e megarica, e, in fondo, ancora contro la logica sofistica.
Il problema nasce dalla natura stessa del sofista, perché non si può denunciare la sua falsità se prima non si dimostra che si può dire in qualche modo "ciò che non è".
Per risolverlo Platone avvia l'esame delle concezioni possibili dell'essere, e attraverso esso giunge a quello che presenta come il "parricidio" di Parmenide, cioè il superamento della concezione eleatica dell'essere, proposta dallo Straniero di Elea (dunque a partire dallo stesso eleatismo).
Tale parricidio consiste nell'affermare che l'essere è molteplice e in moto (altrimenti non sarebbe possibile pensarlo) e dunque identico a sé ma anche diverso da sé: e questa diversità è il non essere (relativo), che non solo è, ma può essere presente nel pensiero e nel discorso, che così è per sua natura sia vero (filosofico) sia falso (sofistico).
Il superamento della dottrina eleatica - la dottrina del principio separato - è il segno che Platone ormai intende l'idea come una struttura interna alla realtà, la cui funzione fondamentale pone nel dar forma alle cose, di per sé altrimenti informi a causa della materia che le costituisce:
«LO STR. Tra i generi dunque, i più importanti sono quelli di cui noi abbiamo trattato poco fa,"ciò che è", in quanto tale, la quiete e il moto.
TEET. Certo.
LO STR. E noi affermiamo che due di questi non si possono mescolare fra loro.
TEET. Sicuramente.
LO STR. E "ciò che è" è mescolabile ad ambedue; ambedue infatti sono.
TEET. Come no?
LO STR. Quindi vengono ad essere tre.
TEET. Certo.
LO STR. Ciascuno di essi, allora, è diverso dagli altri due, e identico a se stesso.
TEET. Appunto.
LO STR. Ma che cosa abbiamo noi mai inteso dire ora, dicendo "identico" e "diverso"? Sono questi forse due generi, altri dai tre di prima, sempre necessariamente misti a quelli? Dobbiamo così ricercare su cinque e non su tre, per essere essi appunto cinque, oppure invece noi ci inganniamo chiamando coi nomi "identico" e" diverso" qualcuno di quei tre generi?
TEET. Forse.
LO STR. Ma il moto e la quiete non sono per niente né il diverso né l'identico.
TEET. Perché?
LO STR. Perché qualsiasi termine noi attribuiamo insieme sia alla quiete che al moto, questo termine non può indicare né l'uno né l'altro di essi due, quiete e moto.
TEET. E perché?
LO STR. Perché il moto starebbe e la quiete si muoverebbe. Uno dei due infatti, quale si sia, nell'un caso e nell'altro, sopravvenendo ad essi due, costringerà l'altro a mutarsi nell'opposto, in quanto esso sarà venuto a partecipare del suo opposto.
TEET. Proprio così.
LO STR. Partecipano quindi ambedue dell'identico e del diverso.
TEET. Sì.
LO STR. Non diciamo dunque che il moto è l'identico o il diverso e neppure, d'altra parte, diciamo così della quiete.
TEET. No.
LO STR. Ma forse dobbiamo pensare come una cosa sola "ciò che è" e l'identico?
TEET. Forse.
LO STR. Ma se non significano nulla di diverso" ciò che è" e "identico", allora dicendo che sia il moto che la quiete, ambedue, sono, di nuovo noi verremo così a dire che ambedue sono la stessa cosa.
TEET. Questo è certamente impossibile.
LO STR. È quindi impossibile che l'identico e"ciò che è" siano una cosa sola.
TEET. Direi di sì.
LO STR. Poniamo quindi come quarto genere oltre ai primi tre, l'identico?
TEET. Certamente.
LO STR. Ebbene? Dobbiamo dire che quinto è il diverso? O dobbiamo pensare che questo e "ciò che è" sono due denominazioni applicate ad un solo genere?
TEET. Forse.
LO STR. Ma io credo che tu mi conceda che delle cose che sono si danno due generi, alcune si dicono essere quello che sono sempre in relazione a se stesse, altre sempre in relazione ad altro.
TEET. E come no?
LO STR. Il diverso è sempre in relazione al diverso. Non è vero?
TEET. Certo.
LO STR. Ciò non avverrebbe se"ciò che è" e il diverso non differissero totalmente; se però il diverso partecipasse di ambedue questi generi, come"ciò che è", si potrebbe dare il caso di un diverso che non sarebbe diverso rispetto ad un' altra cosa, ma invece ora ci risulta certissimamente che ciò che è diverso, è questo che è necessariamente in relazione ad altro.
TEET. È proprio così come dici.
LO STR. Dobbiamo dunque porre la natura del diverso come quinto fra i generi da noi prescelti.
TEET. Sì.
LO STR. Ed essa è diffusa attraverso tutti gli altri, dobbiamo affermare; infatti ciascuno di essi è diverso dagli altri, non per sé, ma per il fatto che partecipa al carattere proprio del diverso.
TEET. Perfettamente.»
L'errore, dunque, come abbiamo già notato, consiste non nell'affermare ciò che in assoluto non è, ma nello stabilire connessioni errate, non rispondenti al vero, cioè non corrispondenti alle reali connessioni che legano le idee.
A questo punto Platone è in grado di definire, in modo esatto e coerente, che cosa si debba intendere con le parole "pensiero", "sensazione" e "opinione".
È un passo che si può considerare in ogni senso decisivo, in forza del quale possiamo intendere la nascita della filosofia come vera e propria scienza.
Ora invece Platone è in grado di porre distinzioni essenziali tra pensare, sentire e opinare. Egli delinea in tal modo, per la prima volta, una compiuta descrizione dell'anima, distinta nelle sue tre principali attività.
Ai suoi estremi stanno il sentire (che è la pura ricettività del corpo) e il pensare (che è l'attivo ragionare, il dialogare muto dell'anima con se stessa).
Ma come mediatore si pone l'immaginazione: attività mista che, muovendo dalle sensazioni, perviene a conclusioni verosimili (a opinioni, appunto), le quali tuttavia possono essere sia vere sia false. Ed è appunto il ricorso all'immagine la mossa vincente e risolutiva di Platone: posta a mezza via tra il vero e il falso, tra le ombre del sensibile e la luce dei concetti veridici, l'immagine rende possibile la spiegazione dell'errore e la collocazione del sofista tra coloro che producono opinioni illusorie, cioè appunto discorsi che, pur essendo in loro stessi "qualcosa" (e non nulla), tuttavia non corrispondono ad alcuna cosa reale.
Nasce in tal modo, dobbiamo aggiungere, una nozione di anima come mondo interiore e soggettivo, capace di immagini, contrapposto al mondo esteriore delle "cose stesse", nozione che da allora resterà canonica e sostanzialmente immutata in tutta la tradizione dell'Occidente.
In altre parole, nelle righe che seguono dobbiamo leggere il battesimo dell'uomo occidentale; esso d'ora in poi si caratterizzerà come uomo dell'interiorità soggettiva che, tramite la ricerca razionale condotta dal pensiero, si volge alla definizione e alla scoperta "scientifica" del mondo oggettivo, inteso come mondo universalmente vero per tutti gli uomini, sia che essi lo sappiano, sia che non lo sappiano ancora.
Ogni rapporto con l'umanità del mondo sacrale e con la parola del mito è in tal modo spezzato. L’Occidente si considererà, da allora, la terra della verità e il luogo della sua storica manifestazione, cui tutte le altre umanità e culture dovranno un po' alla volta uniformarsi.
«LO STR. E allora? Il pensiero e l'opinione e l'apparenza [= l'immagine] non è ormai evidente che sono tutte cose, queste, che si producono nella nostra anima ora false, ora vere?
TEET. Come?
LO STR. Lo capirai più facilmente se prima tu comprenderai che cosa esse sono e in che cosa ciascuna differisce dalle altre.
TEET. Non hai che da dirmelo tu.
LO STR. Il pensiero, dunque, e il discorso sono la stessa cosa, con la sola differenza che quel discorso che avviene all'interno dell'anima, fatto dall'anima con se stessa, senza voce, proprio questo fu denominato da noi "pensiero".Va bene?
TEET. Benissimo.
LO STR. Non si è chiamato "discorso" invece il flusso che dall'anima esce attraverso la bocca e si accompagna al suono della voce?
TEET. È vero.
LO STR. E d'altra parte, noi per certo sappiamo che nei discorsi c'è ...
TEET. Che cosa?
LO STR. L'affermazione e la negazione.
TEET. Lo sappiamo.
LO STR. E quando ciò si realizza nell'anima, come pensiero, in silenzio, sai tu come chiamare questo fatto altrimenti che opinione?
TEET. E come se non così?
LO STR. E quando tale affermazione si verifica, in qualcuno, non più per sé ma sulla base della sensazione, è possibile chiamarla senza errore altrimenti che "apparenza" [= immagine]?
TEET. Non è possibile.
LO STR. Poiché dunque abbiamo visto che il discorso è vero e falso, e poiché, fra i discorsi, il pensiero noi vedemmo che è una conversazione che l'anima fa con se stessa, e poi l'opinione è la conclusione del pensiero, e vedemmo pure che quando diciamo la parola "appare" [= io immagino] v'è una mescolanza di sensazione e di opinione, è certo necessario anche ammettere che essendo le apparenze [= le immagini] congeneri al discorso, alcune di esse e qualche volta siano false.
TEET. Come no?
LO STR. Ti rendi conto allora che abbiamo trovato l'opinione falsa e il discorso falso prima di quanto poco fa prevedevamo, tanto da temere, poco fa, di compiere un'opera completamentevana conducendo questa ricerca?
TEET. Me ne rendo conto perfettamente.»
Platone, dunque, fa dire allo Straniero che nella nostra anima si producono tre cose, ora false e ora vere. Esse sono il pensiero (diànoia), l'opinione (dòxa), e l’apparenza (fantasìa) che possiamo ben intendere come immaginazione, intuendo già un legame col modello di conoscenza esposto da Kant.
Immaginazione rende meglio di "apparenza", il senso del discorso platonico. Platone infatti pone le seguenti distinzioni: c'è il pensiero che, scaturendo dall'anima, si esprime nei suoni della voce; c'è il pensiero silenzioso che l'anima produce in se stessa e che mette capo a opinioni.
In entrambi si procede per affermazioni o negazioni (si afferma o si nega qualcosa relativamente a qualcosa; per esempio si dice: "La neve è bianca" o "La neve non è bianca").
Quando invece l'opinione si produce sulla base della sensazione, allora essa mette capo a una fantasìa, a un'immagine o immaginazione.
In tal modo la capacità dell'anima di immaginare viene da un lato collegata al discorso (poiché mette capo a un'opinione), dall'altro alla sensazione. Questa attività mista dell'anima è così passibile di errore: alcune immagini che l'anima si fa, mossa dalle sensazioni, producono opinioni che sono meramente illusorie, mere "apparenze", appunto; altre invece saranno opinioni vere.
Così in effeti Platone supera il modello della conoscenza solo apparente (doxa) dei Sofisti e modifica concretamente la sua valutazione della conoscenza sensibile, dell’opinione.
Infatti è vero che quello che uno sente lo sente così come lo sente (io sento caldo, tu senti freddo e per ognuno dei due questa è una "verità"inconfutabile).
Ma ciò che la sensazione mostra all'anima, provocando in essa una corrispondente opinione ("Oggi fa caldo", "Oggi fa freddo"), non è per questo equivalente a come la "cosa" è in sé ("Oggi è caldo", "Oggi è freddo"). La sensazione, si potrebbe dire, è un fatto fisico, materiale.
Ma le immagini che ne derivano all'anima sono, diremmo oggi, un fatto "psichico", un immagine interiore che corrisponde allo stato del corpo che sente ma non è detto che corrisponda allo stato oggettivo della cosa di cui opina ("Oggi è caldo" ecc.).
A questa "oggettività" delle cose non bastano le sensazioni e le opinioni soggettive ma è necessario il pensiero razionale (dialettico) che è fondato per tutti su come la cosa "è" (su come sono e sono definibili le idee o forme di essa), e non per come io la sento o me la immagino.
In conclusione, dobbiamo scorgere in questi passi platonici la nascita e la costituzione della "realtà psichica" dell'anima, distinta dalla "realtà fisica" dei corpi.
Non stiamo dicendo, si badi, che Platone ha "scoperto" che le cose stanno così (realtà psichiche interiori più realtà materiali e oggettive esteriori). Stiamo dicendo che egli ha inaugurato questo straordinario modo di vedere le cose e di spiegarle "razionalmente": gesto le cui conseguenze camminano ancora con noi, con le nostre opinioni di uomini moderni e con le nostre scienze della natura e dello spirito.
Di fatto Platone, costruendo, "inventando", si potrebbe dire, l'anima logica e razionale (riflesso "epistemico", cioè scientifico, della voce interiore di cui Socrate fu lo scopritore e il modello), ha nel contempo imposto a tutta l'umanità occidentale l'idea di una realtà esteriore "in sé" del mondo e delle cose del mondo.
La "cosa in sé" è così pensata come il corrispettivo "oggettivo" delle sensazioni, delle immagini e dei pensieri dell'anima e su questa idea si basa la possibilità di una conoscenza certa e veritiera, cioè "razionalmente" condivisibile da chiunque ragioni "dialetticamente".
Questa idea di un mondo universale e oggettivo posto di contro all'uomo, alla sua mente razionale, è il fondamento filosofico di tutta la ricerca scientifica europea dall'antichità ai nostri giorni.
In altre parole, tutta la nostra scienza o tutte le nostre scienze non esisterebbero, non sarebbero immaginabili o concepibili, senza questo preliminare gesto della filosofia: esse ne sono la prosecuzione e la realizzazione storica.
Riassumiamo ora, in sintesi, la conclusione del Sofista.
Il sofista, si era detto all'inizio, non possiede vera sapienza, ma solo immagini illusorie di essa. Egli "imita" il sapere e in questo senso è un mimo della verità.
La sua arte mimetica è la retorica, che esercita in privato, in cambio di mercede, o in pubblico, come oratore politico. Anche il filosofo può definirsi un mimo: anche lui imita la verità producendone l'immagine "nelle azioni e nelle parole".
Sofista e filosofo hanno lo stesso sangue, sono congeneri, e infatti si occupano delle stesse cose: la verità delle cose umane e sovrumane, la politica e la scienza dell'universo.
Ma sono congeneri come il lupo e il cane: il primo, il sofista, è selvaggio e distrugge il gregge; il secondo, il filosofo, è mansueto e lo protegge.
C'è chi ha visto in questo spostamento di interessi (oltre a una conseguenza delle ricerche condotte nell'Accademia, a cui vennero chiamati a collaborare scienziati e matematici insigni) una progressiva attenuazione della rigida separazione tra mondo delle idee e mondo dell'esperienza e una rivalutazione del concetto di doxa scientifica.
Accanto all'epistéme, alla scienza fondata su principi ideali, Platone sembra ora, nel Timeo, far posto all'opinione vera, propria della conoscenza naturale e dell'esperienza.
Ora, i discorsi hanno una affinità con l'oggetto che manifestano? Perciò il discorso su ciò che è stabile, saldo in se stesso e visibile all'intelletto, anch'esso è saldo e incrollabile e, per quanto possibile, inconfutabile e invincibile.(c) II discorso su ciò che raffigura il modello e ne è l'immagine, invece, sarà verosimile, secondo questa proporzione: che la credenza sta alla verità come il divenire sta all'essenza. Ma di discorsi di questa natura ci dovremo accontentare, ricordando che io che parlo (d) e voi che giudicate abbiamo una natura umana, e non cercare più in là.
SO.: Molto bene, Timeo, è certo così. Abbiamo ammirato il preludio; facci ora sentire il tuo canto.
La doxa non è più opposta alla verità, come sinonimo di errore o di sapere sofistico, ma si distinguono e si valorizzano, in essa, taluni aspetti che l'avvicinano alla verità. Non solo nell'ambito della vita pratica, in cui se ne era sempre riconosciuto il valore, ma anche nella scienza trova spazio e significato la distinzione tra opinione vera e falsa.
Questa distinzione assegna all'opinione vera (da cui lo studio della natura non può prescindere) un ambito distinto e provvisorio di validità, non incompatibile - anche se non coincidente - con quello della verità filosofica. Va però aggiunto che tale processo non giunge a conclusione in Platone: il suo ideale della conoscenza rimane in definitiva legato a un'idea intellettualistica, non empiristica, di verità.
In questo dialogo, Platone presenta la propria riflessione intorno alla costituzione del cosmo naturale attraverso il racconto della genesi e del processo di produzione del mondo da parte di un divino artefice (un Demiurgo, come vedremo).
Solo le idee (e, in misura minore, le verità matematiche) sono conosciute a priori dall'intelligenza, ossia senza il ricorso all'esperienza. Pertanto, possono diventare oggetto di un sapere deduttivo, qual è la dialettica filosofica.
Essa infatti "discende" da un'idea all'altra, ricava una verità particolare da un'altra verità più generale, senza fare riferimento all'osservazione o alla conferma dei sensi.
La natura, invece, ci è nota attraverso la sensazione e la conoscenza, che da tale base prende le mosse, non può pretendere di raggiungere la certezza dimostrativa di un sapere definitivo.
La scienza naturale è dunque un sapere congetturale e probabile, che non giunge, come la filosofia, a una verità assoluta.
Filo conduttore di questa immensa ricostruzione è - non a caso – la misura, in cui le forme distinte delle idee sono sostituite da un principio unico d'ordine, forse più generico ma assai più flessibile: questa è la proposta finale del Timeo, simboleggiata nell'opera "mediatrice" del Demiurgo che dà ordine alle cose realizzando in esse le forme mediante leggi matematiche.
Volutamente Platone presenta questa dottrina come un discorso "umano", cioè puramente probabile, ma nella sua articolazione fissa i risultati ultimi della sua riflessione sulla realtà: da un lato il finalismo, che guida l'azione del Demiurgo in funzione del bene; dall'altro il matematismo, che realizza la trasformazione delle idee in principi d'ordine.
In genere i bilanci servono a fare un consuntivo di quanto operato e lasciano spazio a nuove iniziative. Nel nostro caso serve solo per poterci addentrare per davvero nel nostro tema. Diversi punti tra quelli che abbiamo visto in questa pagine e nella precedente dedicata alla conoscenza in Kant lasciano indovinare più di un aspetto del nostro attuale percorso comparativo.
Abbiamo già intentato un primo provvisorio esercizio comparativo nella conclusione della pagina precedente, cercando di sviluppare soprattutto la conoscenza scientifica alla luce dei quattro gradi della conoscenza di Platone nel VI libro de la Repubblica. Pur riconoscendo l’insufficienza di quella raffigurazione per spiegare integralmente il valore della conoscenza in Platone, tuttavia ci è stato utile per illustrare un primo schema comparativo della conoscenza e verificare su quali piani della problematica platonica potevano essere inseriti i termini del discorso kantiano.
Ora il parallelismo può essere completato alla luce dell’interpretazione del problema della conoscenza in Platone sino ai dialoghi della tarda maturità. Con la precisazione che non tutto, anche dei diversi rapporti sia riconducibile sempre a un comune denominatore. La grandezza di una filosofia è anche nei problemi che sa mettere in campo. E se le filosofie sono due i problemi certo non mancano...
Il primo punto riguarda il concetto stesso di Idea. La forma del pensiero universale si affaccia in Platone dallo stimolo offerto dalla definizone socratica e trova un primo importante elemento di intepretazione nel Menone e nel Fedone. Nel primo dialogo Platone immagina la radice ultima del sapere come frutto del ricordo dell’anima preesistente che conosce la verità a contatto col mondo delle Idee, dove esse risiedono. Nel secondo comincia a porre una definizone coerente di questi principi superiori e trascendenti che rappresentano i criteri ultimi del pensiero razionale e dunque la verità stessa. Questa definizione implica dunque un ruolo preciso delle Idee e un valore ontologico: sono i criteri ultimi del sapere, i principi mediante i quali si sviluppa la nostra conosnceza della realtà e si trovano in un mondo superiore trascendente il nostro mondo. Fatto che spinge Platone a negare valore alla conoscenza sensibile a vantaggio della razionalità. In realtà questa caratterizzazione ci mostra la vicinanza all’a priori kantiano: anche qui esistono criteri razionali per l’organizzazione del sapere e il metodo per individuarli è definito trascendentale perchè deve risalire oltre l’esperienza e le modalità della conoscenza concreta sino a cogliere le condizioni prime, a priori, della razionalità. In altri termini la funzione dell’apriori razionale kantiano e delle Idee platoniche sono certamente simili.
Si potrà obiettare che però in Kant anche la sensibilità ha le sue intuizioni a priori: lo spazio e il tempo.
In effetti questo aspetto poteva valere per il Platone de La repubblica ma non per il Platone della maturità. La soluzione è offerta proprio dall'affresco del Timeo dove lo spazio e il tempo sono rappresentati come immagini del mondo ideale. Sono dunque l’a priori di ogni realtà sensibile e di ogni forma di misura del cosmo. Dunque si trovano in una posizione analoga alle intuizioni sensibili dell’Estetica trascendentale che giustificano la realtà delle qualità primarie e fondano geometria e aritmetica. Il principio della misura che ordina il cosmo è il fondamento di quell'ordine geometrico matematico di cui è fatto il cosmo del Timeo. In effetti la differenza resta altrettanto importante quanto le vistose analogie. Ma non bisogna dimenticare che se Kant non si addentra nel terreno mitico e ontologica che anima il discorso platonico è anche vero che Platone vede il suo cosmo demiurgico come somiglianza col mondo ideale, come discorso umano. Sotto le vesti del mito la finalità resta quasi identica; per entrambi si tratta di dare un criterio razionale di ordine matematico alla realtà dell’esperienza. E per entrambi si tratta di superare una visione scettica del sapere razionale: il problema sofistico in questo senso non è molto differente dal problema di Hume. Certo con le dovute differenze i Sofisti mettevano in discussione il valore dell’esperienza mentre Hume poneva in discussione il valore della scienza. Ma il relativismo di entrambi trova nel principio matematizzante della misura una risposta solida che può dare oggettività alla conoscenza del mondo sensibile. Un’acquisizione platonica che ha influenzato profondamente il metodo sperimentale galileiano e che resta sullo sfondo dell’analisi kantiana.
L’analogia nella visione del mondo sensibile rafforza la possibilità di proseguire il parallelismo anche sul piano propriamente razionale.
In Platone lo sviluppo della concezione delle idee passa attraverso tutti i suoi dialoghi. Il passaggio cruciale è determinato, come abbiamo visto dal Parmenide. Nei dialoghi successivi il pensiero razionale smette di essere quasi un oggetto, come parrebbe nell’ontologia eleatica. Pensare razionalmente smette di essere una meccanica reminiscenza di cose di un mondo superiore per diventare soprattutto un sistema di principi capaci di unificare la realtà. Questo passaggio ulteriore avvicina ancora il modello di apriorismo presente in entrambi.
In Kant i principi di unificazione dell’esperienza sono le categorie: quantità, qualità, relazione e modalità. Ma una visione analoga dei principi razionali del reale si trova anche in Platone nel Teeteto. Esattamente nel testo che abbiamo già visto, Platone sviluppa una profonda riflessione sul fatto che è l’anima «a stabilire ciò che nelle cose c'è di comune» che sembra decisamente in sintonia con l’io penso kantiano nonostante le differenze. E se l’anima-io penso sta sul fondo della realtà unificante del pensiero le stesse categorie, i principi unificanti, sono raggrupati nel dialogo in modo molto simile, visti i riferimenti platonici alla quantità, alla qualità alla relazione e all’essere. La differenza maggiore sembrerebbe terminologicamente nel quarto gruppo di categorie che Kant definise della Modalità ma se sis guarda al senso di quell’espressione e al fatto che le tre categorie del gruppo - possibilità, realtà e necessità - riguardano l’essere in rapporto al tempo possiamo dire che Platone colga esattamente il problema partendo dall’essere visto che «l'anima indaga l'essere, soprattutto con l'esaminare i rapporti che hanno tra loro, nel passato, nel presente e nel futuro» mostrando ancora una volta la forte analogia dei temi, seppure letta da punti di vista differenti. Non va domenticato che il problema del tempo i raporto all’essere in Kant è lla base anche del gruppo di categorie di relazione. Sono entrambi gruppi di categrie dinamiche che riguradno al conosnceza scientifica (cioè fisica) della realtà. Sono i cardini del metodo sperimentale, fatto che spiega la distanza e l’analogia che intercorre tra le due prospettive.
Sul piano dei primi due gruppi di categorie l’analogia risulta più forte anche sul piano della stessa classificazione interna. Infatti al primo gruppo (quantità) vanno ascritte: Unità, Pluralità, Totalità che rappresentano la dimensione stessa del probema dell’unità del molteplice oggetto di tutti i dialoghi dialettici. Così come non meno affini appaiono le categorie di qualità: Realtà, Negazione, Limitazione. Esse rappresentano nella loro struttura lo stesso metodo diairetico che sviluppa la dialettica platonica a partire dal Sofista. In effetti la struttura della divisione tra idee segue un andamento che risulta familiare con la logica delle categorie di qualità di Kant. Fermo restando che il loro campo di applicazione risulta pur sempre la scienza sperimentale e dunque non sono completamente sovrapponibili le realtà significate nelle due diverse filosofie.
Un ultimo punto decisivo va individuato nel problema dello schematismo trascendentale kantiano che poggia sull'immaginazione produttiva. Stando a quella definizione l’immaginazione può essere definita da quanto scrive Cassirer «lo schema non è il fantasma sbiadito di un oggetto empirico e concreto, ma per così dire l'archetipo e il modello per gli oggetti possibili dell'esperienza». Certo si tratta di un modello archetipo che si snoda lungo il carattere proprio della conoscenza scientifica moderna ma mostra i caratteri salienti dell’attività del demiurgo platonico. Anche il demiurgo plasma la materia secondo un modello che si ispira all'archetipo ideale. In un certo senso la conoscenza scientifica che poggia sull'immaginazione produttiva tratta il materiale che viene dai sensi dandogli forma attraverso l’attività plastica determinata dall'immaginazione produttiva attraverso gli schemi. Certo una differenza essenziale resta tra le due visioni ed è la stessa questione che divide il “platonico” Galilei dal Timeo stesso.
In Platone la forma plastica che il Demiurgo attribuisce alla materia resta solo immagine e somiglianza col mondo ideale e determina una conoscenza della natura solo verosimile. In Kant l’attività demiurgica, per così dire, realizzata attraverso gli schemi trascendentali, che sono il ponte tra ragione e intuizioni sensibili, non produce una conoscenza verosimile ma una conoscenza universale e necessaria visto che sono regolati dalle categorie. Sono queste ultime a decretare la necessità della scienza kantiana in opposizione alle obiezioni di Hume.
In tal senso il parallelo suggerisce un’ulteriore riflessione sul ruolo del mondo delle idee nel mito del Demiurgo platonico rispetto al ruolo dell’a priori categorico nello sviluppo dello schematismo trascendentale. Certamente un tratto comune esiste anche qui. Entrambe le posizioni sono una risposta al problema dei rapporti tra mondo razionale e mondo sensibile ed entrambe hanno al centro il problema dei rapporti tra l’unità razionale e il molteplice sensibile.
Ma diversa è la posizione strategica del razionale tra il mondo ideale platonico e il giudizio sintetico a priori. In Platone la razionalità affonda le sue radici in una realtà indipendente e trascendente che è al di là delle realizzazioni umane. In Kant la realizzazione umana attraverso gli schemi è definitiva e non risponde del tutto al problema del rapporto uno-molti perché dà per scontata l’esistenza di una comune razionalità negli uomini ma non spiega il perché questa comunanza dovrebbe essere identica in tutti. Non spiega l’unità del molteplice razionale di cui tutti gli uomini partecipano.
La presenza (parusia) di una comune razionalità fa tutti gli uomini partecipi (metessi) della stessa unica e identica idea di ragione o è solo una somiglianza (mimesi)? Come si vede è esattamente uno dei problemi del Platone dialettico che nell’antidialettico Kant non trova una risposta adeguata.