I colori dell'Ucraina

Non riesco più a vedere i miei colori.

Sorvolo le mie città, le mie montagne, i miei altipiani, le mie campagne e intanto guardo la mia gente: uomini e donne che combattono al fronte, bambini e anziani terrorizzati, riparati nei rifugi anti-bombe, gli sfollati che dormono in campeggi di fortuna, i profughi in fuga verso l’Europa e i tanti, troppi morti. Per ogni ucraino caduto, sento una stilettata al cuore, percepisco la fredda lama penetrare la mia carne e muore una parte di me, mi sento stremato, il mio spirito si infiacchisce e si riduce a una flebile fiammella tremolante. Il dolore mi fa lacrimare e mi si offusca la vista, ma non è per questo che non riesco più a vedere distintamente. Il fatto è che quando il mondo si sgretola attorno a te, non riesci più a distinguerne i colori: si sciolgono, si mescolano e tutti si perdono nel grigiore della guerra, nelle macerie degli distrutti, nella fanghiglia che ricopre le strade deserte, nel cielo polveroso dopo una giornata di bombardamenti.

Sono uno spirito giovane, io: nato il ventiquattro agosto del 1991, sono poco più che un ragazzino imberbe in confronto altri spiriti, come quello dell’Egitto, o dell’India, o della Cina, i quali di anni ne hanno fra i quattromila e i cinquemila. Rispetto alla loro vita millenaria, la mia appare come un granello di sabbia sulla costa del Mar Nero, un esile arbusto immerso nelle foreste dei Carpazi, un chicco di grano in un campo dorato. Ma nonostante la mia giovane età, sono sempre stato pieno di passione e di amore per la mia gente e i miei territori, e non voglio che il loro ricordo cada nell’oblio, come, con mio rammarico, sta accadendo, man mano che questa guerra procede nella sua furia sanguinosa. Sto iniziando a dimenticare come ci si sente di fronte a un cielo azzurro, la sensazione che si prova guardando il sole che tramonta, le emozioni che suscita assistere a una danza tradizionale coi suoi costumi variopinti. Per questo ho deciso che affiderò il mio pensiero alla carta, nella speranza che, quand’anche l’ultimo frammento di ricordo dovesse perdersi nei meandri del tempo, io possa rileggere queste poche parole, e sapere per certo che qualcosa, prima di questa melma grigia, esisteva, ed era bellissimo.

Il ventitré febbraio di quest’anno, come ogni giorno, mi destai poco prima dell’alba. Il primo luogo che visitai fu la piccola Isola dei Serpenti, nel Mar Nero, con la sua costa frastagliata e scoscesa a picco sul mare, gli scogli aguzzi ed erosi dall’acqua e dal sale che emergono fra le onde gonfie e spumose. Al mattino presto, quando il sole ancora deve sorgere, il mare riflette il colore del cielo notturno, e appare del colore del vino, violaceo scuro. Allora non potevo ancora saperlo, ma il giorno seguente la mia amata isola sarebbe stata teatro dell’attacco di una nave da guerra russa, e i soldati di guardia sarebbero stati catturati, fatti prigionieri, umiliati e usati qualche giorno dopo come merce di scambio per le trattative per la liberazione di undici soldati russi. Chi sa dov’era, allora, quella nave? Se già solcava le acque viola del mare, o se ancora doveva salpare, e chi sa se mai abbandonerà la mia isola, così che io possa rivederne i colori? Dall’isola proseguii a nord-est, e sorvolando le vaste pianure del sud giunsi nel Donbass, regione pericolosa, cui non mi è mai facile accedere: sono in pochi, lì, a sentirsi figli miei. Tuttavia non è questo che mi rammarica, non posso obbligare gli esseri umani ad amarmi e a riconoscersi in me, e del resto, infatti, non è l’imposizione a creare una nazione, ma la volontà di unirsi, di condividere una lingua, una cultura, dei valori, delle tradizioni. Non è per costringere gli abitanti del Donbass a sentirsi ucraini che feci visita alla regione, quel giorno, ma solo e unicamente per osservare quei pochi uomini che ancora si sentono figli miei e che risiedono in quelle aree, per rinfrancare i loro cuori donando loro un alito della mia forza di spirito. Indugiai a lungo nel guardare una famigliola, i bambini ancora dormienti, la madre intenta a preparare il caffè per lei e suo marito, che a breve sarebbe dovuto andare a lavorare. Seguendo quell’uomo, poi, scoprii che lavorava in un impianto per l’estrazione del petrolio, e mi rimase bene impresso il colore di quel combustibile fossile, tanto prezioso per i miei figli quanto per chiunque altro, al punto da essere definito “l’oro del Donbass”. Ne rammento distintamente il colore, poiché quel giorno lo osservai attentamente per la prima volta, e ne rimasi ammaliato: mai il blu mi era apparso tanto scuro e denso, mai ne avevo apprezzato il fascino come in quel momento. Dal Donbass, poi, quando il sole salì alto nel pallido cielo celestino, volai a nord-ovest, sorvolando la fitta foresta di Kharkiv, con le sue scure fronde e la sua quiete, inconsapevole del fatto che di lì a qualche ora quelle stesse foreste sarebbero bruciate sotto lo scroscio delle bombe, assieme alla città e ai suoi inermi abitanti: In seguito mi diressi verso le le fertili pianure coltivate dell’entroterra, coi loro campi di grano, all’epoca ancora spogli, la nuda terra arata da cui spuntavano timidi germogli, ma era vivido in me il pensiero, che in pochi mesi il frumento sarebbe cresciuto e maturato, e nelle giornate di sole estivo avrebbe brillato come un immenso mare d’oro. Mentre il sole iniziava a tramontare, tingendo l’ovest d’arancio e rosso, mi rallegrai dei guadagni che avrebbe fruttato agli agricoltori e agli imprenditori, della bontà del nostro pane, della gioia dei bambini che si sarebbero arrampicati sui mucchi di fieno raccolti in cascine. Non potevo sapere che nulla di tutto questo, per colpa della guerra, sarebbe successo.

Il giorno seguente, mentre ancora vedevo, vivido, lo spettacolare tramonto arancio e rosso, avvertii la prima pugnalata al cuore, accompagnata dalla visione di una bomba che esplode su Kyiv, così immediatamente seppi che la guerra era iniziata, e il rosso del tramonto del giorno precedente si fuse al rosso del sangue, e il sangue alla polvere, e la polvere alle lacrime, e poi non rimase altro che il grigiore della morte. La normalità, la bellezza e la quotidianità del mio popolo sono state infrante, spazzate via in un attimo: laddove un tempo c’era vita, ora vi sono solo dolore e distruzione, laddove fiorivano i colori, ora altro non rimane che un ammasso grigiastro di niente.

G.T., 4^C