I colori della pace

Diario, di ieri e di oggi

E guardavo l’orizzonte, indefinito e lontano.

Le nuvole perlacee si stagliavano in un placido mare azzurro, mentre i raggi del sole penetravano diagonalmente gli spazi stretti tra esse, creando giochi cromatici antitetici e soffusi, come pennellate del più abile pittore.

La luce debole, rossastra, si rifletteva nel ruscello mormorante dove, almeno per quel giorno, avevo potuto immergere i piedi. Dietro di me una piccola timida falce chiara emergeva dalle cime innevate e provava a farsi spazio nello spettacolo celeste, quasi a chiedere il permesso, per non disturbare il protagonista (ancora per poco) della scena.

Era tardi, e ormai tempo di tornare dagli altri.

Ma lì, all’aria aperta, sotto il sempre più flebile calore e colore dell’enorme spicchio dorato che andava sfumando all’orizzonte, ero vivo come non mai.

Solo, ma non solo.

Immerso nella totalità di quella visione, instancabilmente determinata a perseguire il proprio ciclo eterno, allontanavo i miei pensieri in altri tempi e in altri spazi, permettendo alla mia mente di godere di qualche istante di pace.

Solo, ma non solo, in quell’infinito spettacolo variopinto, in quello scorrere vitale fresco e pungente del rivolo che mi bagnava le gambe.

La leggera brezza serale levatasi da valle e i ciuffi d’erba umida su cui sedevo, mi riportarono alla realtà, al mio dovere di uomo. Così lasciando quel paradisiaco momento di serenità, mi ritrovai nella cruda realtà della guerra a cui ero chiamato. L’atmosfera naturale e pacata del paesaggio intorno diventò affanno, e la mente rapida tornò alla divisa, al fucile, all’elmetto, al respiro veloce e angosciato, al crepitio sferzante dei proiettili sulle lamiere.

Quella no, quella non era pace. E non avevo scelto io.

Ma come uomo e cittadino, ora soldato inviato dalla mia madre patria ad assolvere a un dovere che non corrispondeva al mio volere, ero costretto ad accettare le condizioni imposte, pur senza conoscerne le reali ragioni e senza condividerne le finalità.

Era forse vera la pace che avevo appena vissuto?

È forse vera pace quell’intervallo più o meno lungo tra interminabili giorni di lotta fratricida?

È forse vera quella che viene richiesta a gran voce solo dopo esperienze di violenza, di odio?

O forse lo è quella minima veloce stretta di mano tra due uomini che può porre fine allo sterminio di vite e di culture, di pensieri e di potenzialità, di pure incolpevoli anime coinvolte in un comune destino fatale.

La pace, forse, è soltanto utopia.

Sapevo che indossando nuovamente quegli scarponi consumati, voltando le spalle a quel tramonto innocente, sarei andato ancora incontro ad un triste e macabro domani.

Avrei riposto le mie speranze nella sconfitta del mio nemico, nell’uccisione del mio nemico.

Avrei risposto solo all’istinto di sopravvivenza, alle pulsioni più bestiali, per potermi concedere la possibilità di vedere un’ultima altra volta quel meraviglioso panorama di colori e di sogni.

La luna era salita nel cielo, ora fattosi più scuro e opaco.

Il nero vano della notte, a minuti, avrebbe assorbito nel suo buio opprimente ogni luce e ogni ombra, avrebbe sommerso ogni vetta solitaria e ogni distesa silenziosa e con loro ogni particolare attore di quello spettacolo naturale.

E non avrebbe risparmiato nemmeno ogni persona che, come me, si sarebbe addormentata con il terrore della fine.

Leonardo Montagnin, 5^C