Paura, coraggio e temerarietà

Quante volte è capitato di sentir parlare di bungee jumping? Quanti ragazze e ragazzi di fronte a simili prove hanno consentito alla paura prendere il sopravvento, lasciandosi dietro una scia di risate grasse che davano un verdetto inesorabile di codardia? Ed infine, quante volte abbiamo sentito in TV di vigili del fuoco o, di recente, di personale ospedaliero, che, nonostante il pericolo, ha fatto ciò che doveva fare, perché bisognava… farlo?

Sono questi episodi da mettere sullo stesso piatto della bilancia per misurare il grado di coraggio e paura?

Io credo di no.

Vorrei provare con voi a mettere ordine nelle idee e nelle parole, perché molto spesso dietro le parole si nascondono pensieri diversi che denotano a loro volta realtà nuove e inaspettate.

In primo luogo, i termini paura e coraggio non rappresentano concetti antitetici o complementari, al contrario sono due risposte diverse che noi uomini diamo a fatti che accadono intorno e dentro di noi.

A questo proposito un aiuto interessante proviene dalla neuropsicologia, che ha dimostrato che paura e coraggio sono azioni che vengono mobilitate da due diverse modalità di pensiero, chiamate Sistema1 e Sistema2.

Il primo “opera in fretta e automaticamente”, interessa la parte profonda del cervello (l’amigdala), e, nel caso della paura, sposta le energie del corpo sugli arti, aumenta la frequenza cardiaca e del respiro. Il secondo – il Sistema2 - “indirizza l’attenzione verso le attività mentali impegnative”, coinvolge la parte esterna occipitale del cervello, che focalizza le energie sulla concentrazione mentale.

Pertanto, la paura è un’emozione, una re-azione alla percezione di un pericolo, che porta il Sistema1 ad intervenire. Il coraggio, invece, è opera del Sistema2, ed è un atteggiamento che produce azioni che in genere vanno incontro alla stessa fonte della paura.

È evidente che siamo di fronte a due piani completamente diversi, che già la filosofia aveva nettamente distinto.

Platone definisce il coraggio come la “capacità (dùnamis) di conservare in ogni caso l’opinione corretta e legittima su ciò che è pericoloso e ciò che non lo è” (Rep. IV, 430b).

Per dùnamis si intende una capacità, ovvero, una potenzialità di essere qualcosa, presente in ciascuno di noi e che non si è ancora realizzata. Il coraggio è in potenza nell’uomo e per realizzarsi, continua Platone, ha bisogno di due cure. La prima è la formazione (paideia): ci si educa al coraggio, imparando il controllo delle emozioni che potrebbero sviare dall’opinione corretta e legittima su ciò che è pericoloso. La seconda è l’azione: si è coraggiosi quando si agisce compiendo ciò è giusto. Insomma, secondo Platone, non basta nascere coraggiosi, per esserlo bisogna che ciò che è in potenza si realizzi (ècsis) e diventi un modo di essere e di agire davanti ad un determinato pericolo.

In sintesi, se la paura è un’emozione, una reazione immediata ad uno stimolo; il coraggio è un atteggiamento, un habitus. Dunque, quest’ultimo consiste in un modo di operare di fronte ad eventi, che, grazie ad un cammino di formazione, si è in grado di riconoscere come giusti a tal punto da mettere in pericolo la propria vita. Il coraggioso riconosce dietro quel pericolo un bene superiore alla vita stessa!

Ecco perché, ad esempio, non credo giusto dare a tutti la possibilità di portare armi, senza un’adeguata formazione. Un poliziotto sa ed è consapevole delle conseguenze che potrebbe portare un uso sconsiderato, non ponderato della propria pistola.

Ma allora se la paura è altro dal coraggio, cosa si oppone al coraggio?

Aristotele ci dice che il suo contrario non è la paura, ma la temerarietà.

Se la paura è la prima reazione che ciascuno di noi prova davanti alla percezione di un pericolo, il coraggio e la temerarietà non sono altro che la risposta alla paura e al pericolo. Insomma, sia il temerario sia il coraggioso vivono ugualmente la paura. Ma qual è la loro differenza?

Il temerario è la persona che vince la paura per la paura stessa: cerca la paura per sentirsi vivo e agisce rischiando la morte. Lanciarsi con un elastico da un ponte non è coraggio, ma temerarietà.

Il coraggioso, invece, è colui che nonostante la paura agisce, ma non per la paura stessa, ma per un bene superiore, quale potrebbe essere la vita di un altro individuo. Il coraggioso vince la paura, mette in gioco la vita, la propria vita, per raggiungere un bene superiore.

Ecco che lanciarsi con un elastico non è la stessa cosa che lanciarsi tra le fiamme o infilarsi tra le macerie di un terremoto. Nel primo caso siamo temerari, nel secondo coraggiosi.

A voi la scelta.

G. Aliberti

Per approfondire: Kahneman D., Pensieri lenti e veloci, Oscar Saggi cult, Milano (Mondadori) 2013, pp. 23-37; 50-65.