Incontro e parola, fonti di rinascita

Il 18 gennaio si è tenuto, per tutte le classi quinte del liceo, il Progetto Carcere “A scuola di libertà”: un incontro virtuale con Agnese Moro, figlia dello statista Aldo Moro rapito e poi ucciso dalle Brigate rosse tra il marzo e il maggio 1978, e Franco Bonisoli, ex esponente della lotta armata che partecipò al sequestro.

“Il volto di Franco è come il cielo d’Irlanda, svela tutte le emozioni che lo attraversano”

È proprio così, il volto di Franco tradisce la sua sofferenza e il suo dolore nel raccontarci la sua storia. È una testimonianza sofferta, la sua, perché si tratta di una storia che attraversa la violenza, il fallimento, la sconfitta personale e la tragica perdita di sé per approdare poi ad una sorta di rinascita.

Franco ha 19 anni quando decide di partire di casa e lasciare tutto per inseguire i suoi ideali e dar vita alla “rivoluzione”. Ne ha 23 quando, armato di mitra, neutralizza la scorta di Aldo Moro in via Fani, a Roma, il 16 marzo 1978. Da quel momento, inizia la sua vita da prigioniero, che lo conduce nei primi anni di reclusione a rafforzare maggiormente il suo odio nei confronti dello stato e il suo desiderio di rovesciare il sistema. Organizza quindi sommosse con i compagni e si autoconvince sempre più di essere nel giusto, fino a che accade qualcosa che lo smuove da dentro.

Viene trasferito nel nuovo carcere di Torino e qui, il nuovo direttore chiede a lui e ad altri tre compagni di formare un comitato che gli possa riferire eventuali problemi riscontrati. Franco rimane interdetto. È la prima volta che viene fatto un passo avanti nei suoi confronti ed è anche la prima volta che i suoi ideali vacillano.

Franco entra così, piano piano, in una spirale dolorosissima. Si sente uno sconfitto, non solo dal punto di vista politico, ma soprattutto morale. Vede i suoi “alleati”, nel mondo di fuori, impugnare le armi e uccidere persone senza ottenere i risultati sperati. Li vede generare violenza che genera altra violenza. Vede sfracellarsi i valori nei quali aveva creduto, che gli appaiono ora vuoti.

Schiacciato dal peso di una sofferenza e di una colpa indicibili, decide con altri 5 compagni di togliersi la vita attraverso lo sciopero della fame. Poco dopo, però, i 6 prigionieri vengono a contatto con il cappellano del carcere, il quale è il primo a riconoscerli finalmente come uomini. Li chiama pubblicamente “fratelli”, davanti ad un paese che li considera puri terroristi, se non mostri.

Franco raccoglie i frutti dell’amore seminato dal cappellano.

Per la prima volta pensa alle sue vittime, e a tutte le persone che hanno pagato le conseguenze delle sue azioni.

Mi resi conto del dolore che avevo provocato ad altri solo quando smisi di considerarli il nemico, di identificarli nella funzione da loro rivestita. Fu quello il momento in cui presi coscienza che, negando la loro dignità umana, stavo negando anche la mia.”

Così ci descrive un momento di dolore inimmaginabile, con parole semplici, tanto, basta il suo volto a raccontarci ciò che non dice.

“Il volto di Franco è come il cielo d’Irlanda, svela tutte le emozioni che lo attraversano” sono le parole di Agnese Moro, di una dolcezza meravigliosa.

Anche Agnese ha un passato di grande sofferenza alle spalle e si riferisce ad esso come ad un Inferno. Dice che è stato l’incontro con Franco, richiesto da lui medesimo, a darle la possibilità di liberarsi in parte del dolore. “L’inferno di Franco è anche il mio” afferma “nel ripercorrere le cose terribili con le parole c’è un profumo di giustizia, e l’accettare di riviverle insieme a Franco non le ha cambiate nei fatti ma le ha comunque rese differenti”.

Ci descrive poi un incontro che non è stato affatto facile, che ha avuto l’ausilio del tempo, il tempo per riuscire effettivamente ad ascoltare l’altro e accettare quelle parole che inizialmente risuonavano “fastidiose”. “È stato complicato sentire che mio padre fosse stato ucciso per amore (della causa), ma anche l’attenzione per il linguaggio, da entrambe le parti, è stato poi un continuo progredire”.

Un passaggio necessario per raggiungere la comprensione e la compassione dell’altro è stato quello del disarmamento. Il disarmarsi dalle proprie convinzioni, dal pregiudizio, dall’odio, per sostituire tutto ciò con la comprensione e acquisire un nuovo senso di libertà.

Agnese riflette sul male, il quale è capace di estendere sempre la sua forza e attraversare il tempo. “Se c’è possibilità di fermare tutto questo, di spezzare la catena di odio” dice “questa è data dalla parola, parola che genera incontro, parola che restituisce un’integrità”.

Essere disarmato mi ha aiutato a prendere più forza di me stesso” ci confida Franco e, riferendosi all’incontro con un altro parente di un'altra vittima, “quasi ci siamo abbracciati… da lì è caduto proprio tutto. L’incontro e la possibilità di parlare mi hanno permesso di liberarmi dalle gabbie interiori che mi ero costruito, ben più forti di quelle di ferro del carcere”.

Ora Franco è in semilibertà, sposato e con due figli.

Non ho nulla da insegnare” ripete per la seconda volta, “so solo quello che ho imparato dalla mia esperienza: che la violenza genera solo altra violenza, e non lascia spazio per alcuna soluzione”.

A me che ascolto le loro parole, sia Franco sia Agnese hanno tanto da insegnare. Sono la testimonianza vivente che un cambiamento è sempre possibile, sono fonte di speranza e sono esempio di grande umiltà e umanità allo stesso tempo. Soprattutto però, sono la prova che l’odio costruisce muri e confini, che, per quanto sembrino invalicabili, l’amore riesce, se si è disposti, ad oltrepassare.

Giulia Rizzardi, 5^C