Domenico Caiazza
I
Preistoria ed Età Sannitica
(pp. 289-339)
CAPITOLO XIII
IL CENTRO FORTIFICATO DI ROCCAVECCHIA DI PRATELLA
Il gruppo di monti compresi tra Pratella, Mastrati, Torcino e Ciorlano è separato dal massiccio matesino dalla valle di Prata Sannita e Capriati, in cui scorre il Sava, mentre ad ovest e sud è confinato dall'andamento del fiume Volturno.
È posto a mezza strada tra Venafro ed Alife, nel tratto che Cicerone definì celeberrimo, probabilmente per la feracità della pianura, ed era solcato in antico da importanti vie, in parte riconosciute,[1] che collegavano i due centri.
Già in età sannitica la zona era stata intensamente abitata, come risulta da ritrovamenti sporadici,[2] e dall'esistenza di centri fortificati con mura ciclopiche.
Uno di questo, inerpicato sul Monte Castellone di Torcino, è stato, assai sommariamente, indagato dalla Conta Haller, cui rinviamo,[3] sebbene meriti ulteriori considerazioni.
Un altro di ben maggiore interesse è arroccato sul Monte Cavuto (m 660 s.l.m.) detto anche Perrone, e sul vicino Colle Saracino[4] (m 624 s.l.m.).
Siamo indotti a parlarne, nonostante esorbiti dal prefissato ambito di questo lavoro e superando la stessa incompletezza delle nostre ricerche, poiché ci sembra che la scoperta di questo antico abitato consenta una più chiara lettura delle vicende storiche del nostro territorio ed insieme getti notevolissima luce sullo studio degli insediamenti sannitici.
Il Monte Cavuto costituisce l’estremo bastione sud orientale dei rilievi descritti, e si presenta, a chi lo osservi dalla valle del Volturno, o meglio da sud, come un grande altipiano di forma grossolanamente triangolare, col vertice a nord e la base a mezzogiorno, della superficie complessiva di mq. 23.474[5]. L’altopiano oscilla tra i m 660 dell’estremo a nord-ovest ed i m 649-557 di quello a sud-est e pende ripidamente verso il margine sud che si arresta su una profonda, verticale, inaccessibile parete rocciosa.
Alto forse un centinaio di metri il grande e temibile salto roccioso volge ininterrotto dall’estremo occidentale a quello orientale; in esso si apre verso est, una grande caverna.
È questo il buco o “cavuto” da cui ha tratto il nome il monte, denominato peraltro anche Perrone, nome comune che sta per montagna, grande masso. Si dice che la cavità comunichi con l’altopiano[6], ma dopo averla esplorata pare di poterlo escludere. A poche decine di metri, verso est, è un’altra caverna.
Il lungo nastro verticale della parete del burrone si snoda, quasi rettilineo, per circa m 750 ed il rossiccio del calcare, spiccando sulla verde meravigliosa pineta posta a dimora ai suoi piedi da qualche decennio, rende inconfondibile il profilo della montagna. Proprio tale eccellente difesa naturale, unita alla posizione dominante, ed alla quota on troppo elevata, ha determinato la secolare vocazione all'insediamento umano del rilievo, frequentato, peraltro, già nel Paleolitico Superiore (Vedi cap. II).
Infatti in età sannitica fu ottenuta una area potentemente fortificata semplicemente integrando la difesa naturale, mercè la realizzazione di un muro lungo circa m 320 che corre sul margine nord dell’altipiano.
Tale muro ciclopico, realizzato con massi assai grandi e medi, connessi nella II maniera del Lugli, inizia sull'ovest dell’altipiano, là dove è l’acropoli, nei pressi di un muro in opera incerta, forse altomedievale, il quale sopreleva una bella muraglia ciclopica della III maniera del Lugli.
Da questo punto il muro si raddrizza puntando ad est e per m 29,40 circa corre sino ad incontrare una grande cisterna rettangolare.
La vasca (m 16 x 6), è profonda oltre m 3 e conserva evidenti tracce di spesso intonaco a cocciopesto in tutta la superficie interna. Il suo muro a nord coincide con la recinzione poligonale, dove son tracce di restauro, anche con muratura di mattoni.
Proseguendo verso est sul muro ciclopico per m 36 si giunge in asse con una cisterna circolare scavata nella roccia, che dista m 11,50 dalla cinta muraria.
Non lontano è un varco cui conduce un sentiero. Probabilmente vi era una porta, forse con qualche difesa avanzata. Subito all'interno vi sono resti di muri, legati con calce. Occorre uno scavo o almeno una sfrascatura per saperne di più.
Ai tratti descritti seguono ancora m 220 circa di recinzione poligonale, quasi ovunque ben leggibile, conservata per i primi due filari o almeno per il primo, tranne che per una quarantina di metri, ove è scomparsa.
Dopo ulteriori m 20 circa di muro meglio conservato, alto sui quattro metri, con una sopraelevazione in muratura di pietre legate con malta, la cinta si arresta nei pressi dell’inizio ad est del burrone. Ivi forse era un varco. Certo qui giunge un sentiero di cresta proveniente da oriente.
Volgendo oltre il sentiero di cresta con un angolo smussato, il muro ciclopico percorre ancora alcuni metri. Indi si perde e la stessa recinzione realizzata in muratura con malta, puntando in direzione sud, poggia direttamente sul suolo.
I crolli, l’intricata vegetazione, il folto muschio non consentono una tranquilla e veloce lettura dei dettagli dell’opera, che si conserva per lo più nella parte inferiore, n cui fa da sostegno al ciglio dell’altopiano, ed è, oggi, alta mediamente sui due metri, e presenta tracce di sopraelevazione e di restauri in muratura di piccole pietre legate con malta non facilmente databili.
Non siamo sicuri, pertanto, dell’ubicazione delle porte, una delle quali doveva essere più o meno dove giunge il sentiero che sale da nord, l’altra a est dove giunge un altro sentiero, e come già detto, una terza a ovest sul sentiero scavato nella roccia sottostante all'acropoli e guardato da mura con malta spesse m 1,25. Il numero coincide con quello canonico delle urbes iuxtae.
Non abbiamo trovato postierle, non si può escludere che ve ne fossero, ma neanche nei tratti meglio conservati ve ne sono tracce. Potrebbero anche essere state tamponate sopraelevando il muro, però non ve ne sono neppure nell'altro tratto di mura ciclopiche di cui diremo: quello di Colle Saracino, mai rimaneggiato.
L’acropoli della città occupa il vertice nord occidentale dell’altipiano (Quota 660).
La difesa sul ciglio del burrone fu, probabilmente, affidata al tratto iniziale del muro poligonale esterno, di cui avanzano pochi metri, costituiti dal primo filare di grandi massi.
Da tale muro poligonale, posto sul ciglio nord-ovest, si stacca, puntando verso l’altopiano, un muro di perfetto rifinito poligonale della III maniera del Lugli, conservato per un paio di metri d’altezza e lungo circa m 16.
Su questa misura il muro si sdoppia, proseguendo diritto fino ad un roccione appiombato a farne parte, su cui è incisa una larga scanalatura verticale, forse pertinente ad una chiusura a saracinesca. Più avanti blocchi lapidei crollati rendono difficile la lettura.
Dal punto di sdoppiamento il muro piega verso sud per circa m 13, e, dopo un ulteriore angolo, corre diritto per circa m 18. A questo punto con un angolo retto volge a ovest a chiudere il perimetro verso i ruderi in muratura che costituiscono il punto più alto dell’altopiano.
La presenza di questi muri in opera incerta della I maniera del Lugli[7], con sassi legati con ottima malta posti in opera così come provenivano dalla cava, senza piani di posa, col solo accorgimento di situare in facciata il lato pianeggiante, con inclusi rarissimi frammenti laterizi di recupero e con qualche blocco squadrato agli angoli delle porte, di spessore tra i 60 e 90 cm, alti anche parecchi metri, ed i crolli degli stessi complicano notevolmente la lettura e la descrizione dei resti poligonali di III tipo dell’arx sannitica.
Né meno complessa è la descrizione degli stessi muri in opera incerta, che non abbiamo potuto neppure completamente rilevare, e pertanto rinviamo allo schizzo topografico, che è semplificato, anche con l’omissione di emergenze archeologiche.
In questa sede ci limitiamo a dire che il segmento di muro poligonale di III maniera volto ad est, lungo m 18, fu doppiato da un edificio a volta, una specie di corridoio parallelo in opera incerta, in cui sono pure resti di una porta con l’arco formato con scaglie di pietra.
Questo muro da un lato si raccorda al burrone occidentale correndo sopra il tratto di poligonale di III tipo alto un paio di metri, dall'altro, punta pure verso ovest fino al burrone chiudendo il perimetro.
Nell'estremo finale si addossa ed ingloba una stanza preesistente, già coperta a volta, intonacata con finissimo cocciopesto in cui si apre una porticina volta a sud. A questo locale segue, sporgendo sul ciglio dello strapiombo, una specie di torre (m 7 x 3 circa).
Nei pressi sono evidenti giustapposizioni ed incroci di muri che documentano più fasi edilizie.
Poco distante si notano i ruderi di un grosso edificio, quasi completamente crollato, di cui resta sul punto più elevato, sotto cumuli di macerie, una piccola cisterna, di forma irregolare, coperta a volta, intonacata con calce rozzamente spianata. Nei pressi sono resti di una porta ad est, con alla base del piedritto grossi massi squadrati.
Dell’edificio sul lato occidentale resta ancora in piedi un muro alto alcuni metri, a forma di L, il lato lungo parallelo al burrone, quello corto che vi si dirige fin quasi a raggiungerlo.
Subito a nord si notano grossi massi allineati di poligonale di I maniera, che dovevano in origine difendere l’acropoli sul lato ovest.
A sud dell’acropoli si stende una cortina muraria, sempre in opera incerta, ad angoli vivi, di forma poligonale irregolare, in cui si apre solo una porta rivolta all'altipiano.
Ancora più in basso di questo recinto resti di una torre, dalle mura spesse m 1,25, sorvegliano il largo sentiero che, inciso nella parete rocciosa, viene da ovest.
Scarsi resti di un muro, pure legato con malta, segnano lo sbarramento di una depressione a ferro di cavallo, con l’arco rivolto a sud, in cui il burrone si fa un po’ meno inaccessibile.
Questo muro, insieme a quello analogo che sopraeleva il muro ciclopico a nord, testimonia un perimetro difensivo con murature in opera incerta di I tipo, esteso a tutto l’altopiano e che potrebbe essere contemporaneo alle murature intonacate a cocciopesto ed anteriore alle mura quasi identiche che inglobano tali strutture, e presentano, anche nelle cisterne, intonaco con sola malta. La ripulitura e lo studio dei paramenti, soprattutto in punti significativi, come la cisterna rettangolare, chiarirà i rapporti e le cronologie di tali murature.
Scarsissimi indizi rimangono degli edifici non di natura difensiva, mentre all'esterno dell’acropoli, procedendo verso est, si notano dappertutto numerose tracce di edifici in muratura, di sbancamenti nella roccia, di resti fittili, sparsi ovunque.
Residuano, in genere, muri alti appena qualche metro, che spesso negli strati inferiori presentano blocchi megalitici senza cemento, poi soprelevati in opera incerta. In pianta abbiamo potuto segnarne solo alcuni. La tecnica è assai somigliante a quella degli ambienti di età ellenistico-romana, scavati all'interno della cinta megalitica di Monte Pallano, pavimentati in cocciopesto[8].
Un piccolo edificio è in opera incerta, somigliante a quella avanti descritta, ma senza inclusi di terracotta mentre presenta resti di intonaco a cocciopesto e si sovrappone, in parte, ad un muro megalitico di I maniera, conservato nel primo filare. Anche le cisterne dell’edificio sono impermeabilizzate con cocciopesto.
Più a monte di alcuni metri vi sono ruderi di una costruzione a pianta grosso modo rettangolare, piuttosto complessa, che in parte regge un terrazzo pianeggiante. Su questo affacciano i resti più singolari e di non facile interpretazione che si rinvengono all’interno delle mura.
Vi è infatti una gradinata a pianta semicircolare, con la base a sud, intagliata nel calcare.
Sono riconoscibili con certezza almeno 12 gradini con una alzata di cm 32/40 circa ed una pedata di cm 75, che si dilata a cm 87 negli ordini più bassi.
Dopo un sommario rilievo si possono indicare in circa m 16,60 le dimensioni del diametro del semicerchio descritto dal I gradino rilevabile (ve ne dovrebbe essere sepolto almeno un altro). Tale misura si dilata fino ai m 33 del ricostruibile diametro dell’ultimo gradino riconoscibile senza dubbio.
È probabile però che un terrapieno retrostante reggesse altri gradini, oggi solo ipotizzabili, fino a ampliare il raggio fino a m 18,60 e forse a m 24.
La forma ad emiciclo e la regolarità dell’impianto, la cura prestata nel conservare i livelli ed i profili dei piani verticali ed orizzontali dei gradini, la perfezione del raccordo tra le gradinate mediante un levigato angolo retto smussato, consentono di affermare che siamo in presenza della cavea ima e media di un teatro scavato nella roccia, la cui orchestra era delimitata da un muro di terrazzamento, su cui doveva impostarsi la scaena frons (che dista circa m. 10,50 dal punto centrale dell’emiciclo e presenta segni di interventi in tempi diversi).
Le dimensioni dei gradini, non molto diverse da quelle del teatro di Teano, sono in sostanza analoghe a quelle del teatro di Sepino[9], i cui sedili della media cavea sono alti cm 35-40 e profondi 70 cm; mentre quelli della proedria, ove sedevano i personaggi di maggior rango, sono di circa 90 cm di larghezza per 30 di altezza, qui abbiamo cm 87 x 35. È probabile che anche in questo teatro come in quelli di Pietrabbondante e Sarno vi fossero sedili di pietra.
Dal pari per rendere più agevole la salita e discesa delle gradinate, si è diminuita l’alzata del gradino scavando nello spessore dello stesso una depressione rettangolare (cm 31 x 51 per cm 10 di profondità) con accorgimento identico a quello usato nel teatro di Sepino per creare le scalinate radiali di accesso alla cavea[10]: tale intaglio è conservato sul settimo gradino di quelli oggi visibili, a destra dell’asse centrale della cavea.
Diversa rispetto a Sepino, il cui teatro poggia su murature, è la concezione ispiratrice, avendosi a Roccavecchia un teatro più di tipo greco, addossato al pendio ed intagliato nello stesso, volto ad un grande scenario naturale, forse in origine non del tutto occultato dall'edificio scenico. È evidente piuttosto la notevole analogia col teatro di Pietrabbondante.
Ciò potrebbe indicare una maggiore antichità del nostro ma anche essere conseguenza della natura dei luoghi.
Pure ad alta antichità parrebbe attribuibile il fatto che le gradinate sembrerebbero quasi chiudersi a cerchio non perfettamente ma attraverso il raccordo di segmenti di circa 3 m iscritti sul cerchio. Ma tale impressione potrebbe essere dovuta alla corrosione dei gradini.
Peraltro, lo stato di conservazione pessimo dell’impianto – manca il lato destro e settori di cavea, mentre molti gradini sono spezzati, o interrati o coperti di vegetazione – hanno impedito un rilievo regolare e preciso, da farsi previa ripulitura e con adeguata strumentazione.
Pertanto, non siamo sicuri dell’andamento per segmenti dei gradini e non ci dilunghiamo su misure e descrizione della parte scenica (scaena frons, parodoi, orchestra etc. che sarebbero largamente ipotetiche, rinviando alla pianta).
È certo comunque che non può trattarsi né di una cava a gradoni, né di una scalinata posta a servizio di un edificio soprastante. Invero, a parte la forma ad emiciclo non troppo consona ad una scala, questa sarebbe stata scomoda tanto da richiedere lo scavo delle depressioni atte ad agevolare il transito, il che è assurdo.
Non siamo riusciti ad ipotizzare altra funzione per la cavea ricavata nel calcare, e se futuri scavi confermeranno, come riteniamo, la nostra identificazione dell’edificio teatrale, forse usato anche come luogo di assemblea, si avrà la riprova dell’importanza eccezionale di questo centro, l’unico nell'intera area sannitica così dotato.
Ed invero, i teatri ed anfiteatri di Venafro (i cui primi tre gradini dal basso misurano cm 42 x 42 il primo e 42 x 84 gli altri due)[11] e Sepino (edificato dopo il 4 a. C.) etc. sono di età romana avanzata, mentre l’unico teatro sannitico (se si esclude quello di Trebula, riconosciuto in foto aerea ma non scavato e di cui non si sa nulla), quello di Pietrabbondante (fine del II sec. a. C.) è in un un’area ritenuta extraurbana, ai piedi delle mura poste sul Monte Saraceno. Non può peraltro escludersi che in origine le mura inglobassero anche la località Calcatello ove sorge il teatro.
In merito alla datazione converrà ricordare che “agli ultimi decenni del II secolo vanno attribuiti anche i più antichi edifici per spettacoli di cui ci cono pervenuti avanzi sicuri in Campania e in età sillana numerose città possiedono un teatro e spesso anche un anfiteatro. Mentre della costruzione del teatro più antico di Capua si ha notizia da decreti dei magistri pagorum dal 108 al 104, sono certo anteriori alla guerra sociale quelli di Teano e Sarno, pertinenti ambedue a santuari e di tipo ellenistico, nonché quello di Pompei e il teatro di Cales ampliato già in età sillana, mentre l’odeion di Pompei è di poco posteriore alla deduzione della colonia”[12].
Inoltre il teatro di Teano, a parere del Johannowsky è “certamente il più antico teatro interamente in muratura finora riconosciuto, ed è abbastanza vicino come dimensioni a quello di Pietrabbondante”[13].
Abbiamo detto che le misure degli scalini di tale teatro erano non troppo diverse da quello descritto ed infatti “la media cavea... aveva dei gradini alti m 0,44 e profondi m 0,74, misure che danno una inclinazione abbastanza frequente nel I secolo avanzato e nel II secolo d.C.”[14].
L’insediamento di Monte Cavuto di Pratella oltre il teatro ha di singolare anche la possibilità che vi sia stata continuità di vita in età repubblicana romana, documentata dalle abitazioni e dalle cisterne rivestite col cocciopesto, che si sovrappongono ad evidenti resti di abitazioni costruite su fondazioni in opera di tipo poligonale.
Neppure è consueta l’associazione di poligonale di II maniera con poligonale di III maniera, qui impiegato per l’acropoli. Muri edificati con questa ultima tecnica nella vicina Venafro, vengono datati all’età sillana[15] e pure alla fine del II sec. a. C. vengono assegnati uguali muri del teatro di Pietrabbondante. Ci pare pertanto legittimo estendere tale cronologia alla difesa dell’acropoli. Mura dello stesso tipo sono pure a Campochiaro (Campobasso), a Luco dei Marsi (L’Aquila), a Boiano, sull’acropoli di Montecassino[16].
Il muro di sbarramento del ciglio nord dell’acropoli e quello esterno che cinge il Colle Saracino, di cui diremo, sono certo anteriori e contemporanei agli altri impianti analoghi della zona, e pur se una certa perfezione dell’esecuzione ci indurrebbe a ravvicinare l’età di costruzione, l’assenza di posterule potrebbe indicare il contrario.
Prima di passare alla descrizione della fortificazione esterna resta da dar conto di un singolare pozzo a bocca quadrata, scavato nel calcare, da cui si diparte un cunicolo volto a sud, in origine forse più lungo. Il pozzo è ostruito da detriti e probabilmente è pertinente ad una cisterna, meno facilmente ad un sottopassaggio, ed è ad est del teatro.
Una ventina di metri più a monte è un allineamento di grossi massi poligonali, in cui forse si apriva una porta. Molti altri ruderi, che per brevità si omette di descrivere, appaiono soprattutto nell'area occidentale dell’altopiano, insieme a spazi regolari ricavati nelle roccia, già funzionali ad abitazioni, anche se in genere si preferiva edificare muri di terrazzamento per impiantarvi edifici.
Uno di questi spiazzi (m 10 x 26,50) è stato inciso superiormente e subito dietro alla summa cavea del teatro. Ad est è la cisterna, a pianta circolare, del diametro di m 8,50, rivestita in blocchetti di calcare uniti con calce e profonda, a quanto è dato vedere a causa dei fittissimi rovi, circa sei metri.
Sorge al solito praticamente in vetta dell’insediamento, nella posizione meno idonea alla raccolta delle acque piovane, che evidentemente riceveva da un vicino edificio certo situato nello spiazzo adiacente.
Questo, secondo una nostra ipotesi[17], basata su soli elementi induttivi, potrebbe essere stato un tempio che, nel caso di specie si sarebbe trovato in connessione col teatro secondo un accostamento più volte verificato, anche in area sannitica, ad esempio a Pietrabbondante[18].
Tralasciando l’ulteriore descrizione dei resti murari emergenti veniamo a dar conto di quelli ceramici che residuano in superficie.
Sono numerosissimi e praticamente tappezzano l’altopiano, soprattutto ad occidente, nonostante il dilavamento abbia convogliato la gran massa dei detriti ai piedi del burrone, nella pineta.
Andrebbero indagati anche alcuni riempimenti di spiazzi ed edifici, specie cisterne.
Dappertutto abbondano i tegoloni piani con risvolti, sparsi anche per le pendici del monte; subito dopo la classe più rappresentata è quella della ceramica acroma, sottile, rossiccia, tornita, per lo più ben depurata, di cui si raccolgono ovunque frammenti. Si tratta spesso di resti di ciotole e vasi dal basso profilo; un coccio presenta due impressioni serpeggianti, a onda, sovrapposte e credo sia di altra epoca. Innumerevoli le anse a nastro, anche con costolature.
Non mancano frammenti di massiccia e rustica terracotta rossiccia, con inclusi granelli silicei ed altre impurità, tra questi due frammenti di coperchio, uno dei quali presenta il pomo attraversato da un foro verticale, entrambi plasmati, credo, senza l’ausilio del tornio; ed inoltre il frammento dell’orlo di un basso recipiente.
La ceramica a vernice nera, pur se meno abbondante, si rinviene un po’ dappertutto. La qualità è buona, il supporto è sempre color rosa e molto omogeneo e raffinato. Su un frammento quasi decorticato si notano ancora dei cerchi concentrici. Un altro coccetto presenta la vernice della faccia esterna color marrone olivastro.
Si tratta prevalentemente di materiali di età ellenistica e repubblicana. Scarse tracce abbiamo trovato di ceramica sigillata e a pareti sottili.
Un paio di frammenti, l’uno a vetrina verde-scura, brillante, e l’altro a smalto bianco con spennellatura di verde, ocra e giallo potrebbero essere medievali, come parte della ceramica acroma, o anche più recenti.
Pastori che già da fanciulli hanno frequentato la zona ci hanno raccontato del facile rinvenimento di “pignatelle” di varia forma, anche associate a più sepolture a inumazione, coperte da lastroni calcarei o tegoloni dissepolte nell'altopiano. Potrebbe trattarsi di sepoltura intra moenia effettuate nel corso di assedi, o inglobate nell'espansione dell’insediamento.
Le stesse fonti ci hanno parlato di una lastra calcarea con una indecifrabile scritta, che sarebbe stata portata via da qualche anno da forestieri. Non abbiamo potuto controllare l’attendibilità di tali affermazioni.
Ricchissima di frammenti è pure la pendice nord di Monte Cavuto, esterna al muro ciclopico e percorsa da un più agevole sentiero che porta in sommità di tale lato.
Tale abbondanza di cocciame non si spiega con la caduta dall'alto poiché la pendenza dell’altopiano trascina i detriti a sud, e pertanto potrebbe aver avuto origine dalla presenza di abitazioni all'esterno di tale muro, o meno probabilmente può ipotizzarsi che ivi si discaricassero rifiuti.
La pendice, pur ricoperta da fitto bosco, sembra recar tracce di interventi, specie nell'appiombo di una alta e lunga roccia, e va meglio esplorata.
Assai minore quantità di resti fittili si incontrano sulle colline pure fortificate poste a nord del muro ciclopico dell’altopiano. Questo può forse spiegarsi col fatto che tali aree esterne erano soprattutto adibite al rifugio del bestiame in periodo bellico, o che non furono abitate non essendo stato completato il perimetro difensivo esterno.
Per raggiungere questa ulteriore difesa a nord dell’insediamento occorre seguire il sentiero che scende sul versante nord del Monte Cavuto e, raggiunta una piccola radura circolare, bisogna piegare ad ovest e continuare per un po’ fino a raggiungere una biforcazione.
Il ramo di sinistra scende, con regolare e ripido tracciato, verso Roccavecchia, quello di destra continua in piano verso nord, raggiungendo una seconda radura posta nella valletta tra Cima 633 (pare si chiami Colle Falascoso) e Cima 625 (detta Colle Saracino).
In questo secondo spiazzo confluiscono più sentieri, e, subito a valle di quello che, puntando ad est, incide la pendice di Cima 633, è dato osservare un tratto di trenta metri di mura ciclopiche, ben leggibili, sopratutto verso la radura, dove il muro si arresta su un sentiero. Qui forse era una porta; resti di un muretto che scendono verso valle complicano la lettura.
Procedendo dalla radura sul sentiero che punta a nord si ritrova subito il muro megalitico che volge a cingere Cima 625. Il muro è piuttosto mal ridotto per circa m 53; ben conservato, fino a m 3,50 d’altezza, nei successivi 90 metri.
Su questa misura la strada che, al solito, è a monte delle mura, attraversandole con un varco largo circa m 1,50, continua verso nord in direzione del Monte Castellone di Torcino.
Oltre il sentiero l’opera difensiva guadagna quota e continua ad avvolgere Cima 625, con 50 metri di muro perfettamente conservato, alto più di m 3, un poco rastremato, costruito al solito con massi enormi nel paramento esterno, con blocchi più piccoli in quello interno, farcito di minori scaglie calcaree, il tutto per uno spessore di circa due metri.
È questo uno dei tratti più imponenti e meglio conservato, essendo rimasto parte del coronamento che sporge dal livello della retrostante caminada. Si arresta su un’altro sentiero, che all'interno delle mura si allarga a formare uno spiazzo. Anche qui è possibile che vi fosse una porta che sarebbe però troppo vicina alla precedente. Di certo dopo un varco largo m 3,50, su cui lo spessore del muro è di m 1,50, la fortificazione riprende a correre piegando sulla pendice ovest del colle per m 80 ben conservati; nei successivi m 40 essa è crollata. Ricompare poi con un bel tratto di m 100 sempre sormontato dal sentiero; gli ulteriori m 80 sono pure ben leggibili e presentano, a volte, nel paramento pietre più piccole. Il perimetro fortificato continua poi, evidente, ancora per m 60, con i quali dopo aver varcato un ripido sentiero, si affaccia sulla pendice sud di Cima 625, nei pressi di una zona dalla diradata vegetazione. Da qui doveva, originariamente, proseguire, come può intuirsi, sul versante sud verso Monte Cavuto fino a raccordarsi con esso completando il perimetro. Poche decine di metri di muro megalitico di II maniera, tendente alla III, sono in località Castelluccio, ai piedi dell’acropoli, verso sud. Ma potrebbe trattarsi di un avamposto.
Dalle foto aeree e dalle ricognizioni non è stato possibile trarre elementi utili per la ricostruzione del tracciato sia attorno a Colle Saracino sia attorno alla gemella Cima 633, né siamo sicuri dell’assenza di ulteriori tratti di recinzione; non abbiamo potuto infatti compiere sufficienti sopralluoghi, soprattutto nel periodo invernale in cui il fogliame si dirada.
Se tuttavia non si rintracciassero le linee del completamento del perimetro già descritto ed assommante a circa m 600 ciò potrebbe spiegarsi in tre modi.
Il primo è il mancato completamento in antico della cinta, in tal senso sembrerebbe deporre la scarsezza di resti fittili, ma tale dato potrebbe, come detto, spiegarsi anche con il diverso utilizzo di tale area; è però assai improbabile il mancato completamento, vista l’altezza e perfezione delle parti conservate.
Si può ipotizzare un crollo dovuto a differenze pedologiche ed in effetti la pendice sud di Cima 625 è molto ripida e costituita di calcare tenero incoerente, degradato e ridotto a farina. Ma tale causa non spiegherebbe la scomparsa del muro sulla pendice di Cima 633, meno scoscesa ed incoerente.
Per il muro che recingeva tale versante può affacciarsi la terza ipotesi, quella della intenzionale distruzione dovuta ad eventi bellici, od operata in età successiva per evitare che venisse utilizzato da assalitori come “cintura d’assedio” atta ad imbottigliare all’interno i difensori dell’abitato in una fase in cui la sua contrazione al solo altopiano evidenziò minore disponibilità di forze difensive.
Abbiamo già detto che procedendo verso est dalla radura tra Cima 625 e Cima 633 sulla pendice di quest’ultima è possibile rilevare appena una trentina di metri di muro megalitico, poi la boscaglia molto fitta impedisce ulteriori osservazioni.
Non sappiamo pertanto se il muro dopo aver protetto Cima 635 puntasse verso cima 600 a raccordarsi con l’altopiano nella sua punta orientale.
È questo il perimetro minimo ipotizzabile. Non può però escludersi che il muro raggiungesse la più dolce ed allungata formazione orografica che dall'altipiano degrada ad oriente fino al fiume Lete.
Trattasi della dorsale collinare detta La Croce nel versante sud e Rava delle Stelle in quello nord. Sulla sommità della stessa, nei pressi di Quota 503, abbiamo rinvenuto un muro ciclopico là dove un sentiero valica il crinale dirigendo da Costa Perrone verso le località Manderini e Colle Pasquale e si raccorda a quello proveniente dall'altipiano.
L’opera poligonale, della seconda maniera del Lugli, difende la pendice nord della dorsale e degrada con pendenza costante ed andamento rettilineo verso la valle del Lete.
Il muro è piuttosto mal conservato, di rado più alto di m 1,50-2 e largo circa m 1,20, ma è sempre leggibile con certezza. Su di esso corre la striscia spezzafuoco che protegge la pineta, la cui recinzione è ad un paio di metri a monte del muro, dopo l’esiguo terrapieno che lo costeggia.
Seguendo in discesa la fortificazione si nota che è attraversata da un sentiero e che si arresta infine su una larga mulattiera, su cui incide con un angolo di poco più di 90°. Può valutarsi a circa m 600 la lunghezza di questo tratto di muro.
La larga mulattiera su cui il muro si arresta ha andamento grosso modo parallelo al Lete e corre sul terrapieno di un altro muro ciclopico. È chiaramente individuabile nelle foto aeree del 1981 poiché anche su questo muro, come su quello precedentemente descritto corre la striscia frangifuoco. Nella foto aerea del 1954 si nota una esile traccia bianca che dovrebbe corrispondere appunto alle pietre calcaree della fortificazione.
Può darsi che in antico nel punto di intersezione tra i due muri si aprisse una porta. Sembra anche che il muro parallelo al Lete continuasse verso nord almeno per qualche metro.
Questo spezzone di fortificazione è anch'esso in poligonale di seconda maniera, conservato al massimo in un paio di filari di blocchi, è largo circa m 1,20 e lungo forse m 150, lungo i quali si identifica con la striscia spezzafiamme, tanto è vero che è possibile seguirlo fin dove questa, con un angolo acuto, muta bruscamente direzione e punta decisamente verso il basso. Ivi si perdono le tracce del muro, ma è assai probabile che proseguisse con direzione immutata ancora per qualche decina di metri, sino ad inoltrarsi nella pineta ed a raggiungere poco più avanti una formazione rocciosa naturale, molto evidente in foto aerea, strapiombante sul Lete e facilmente difendibile.
Poco all'interno del burrone ed immerse nella pineta sono due radure in pendio, coltivate e recinte da muri a secco. Rasentando le stesse sino a pervenire allo estremo inferiore ed uscendo dal bosco ci si imbatte, dopo poche decine di metri, nella recinzione in corda spinata della pineta e subito si noterà che tra la stessa e la sottostante straducola resistono e fanno mostra di sé alcuni spezzoni di muro ciclopico, per circa 60 metri.
Sono paralleli alla viuzza e pertanto allineati su una direttrice est-ovest, sicché è agevole ritenere che dal lato orientale essi si raccordassero in antico allo strapiombo che si affaccia sul Lete, mentre in quello occidentale puntano verso l’altopiano di Roccavecchia e a chiudere il perimetro difensivo di Colle La Croce. Un breve spezzone di mura oltrepassa la strada, ma poiché si immerge in un fitto boschetto non abbiamo per ora potuto seguirne l’andamento.
Resta da dire che lungo i muri descritti e nella pineta abbiamo potuto notare rari frammenti di terracotta e soprattutto di tegoloni e ciò costituisce indizio di abitazioni.
La fortificazione di Colle La Croce oltre ad aumentare enormemente le capacità ricettive della antica città le consentiva di incombere con le mura direttamente sull'imbocco della valle del Lete, a guardia della retrostante valle di Prata e della via per il Matese.
Sembra comunque possibile che la più esterna delle cinte sia il prodotto di un ampliamento (di problematica datazione) del perimetro difensivo, volto ad aggiungere all'altipiano fortificato almeno altri 40 ettari circa, per aumentarne la capacità di ricovero a vantaggio degli abitanti della pianura e delle relative greggi e mandrie, che dovevano costituire una importantissima risorsa, anche se non va sottovalutato lo sfruttamento agricolo del suolo, che nelle pianure pedemontane si affermò certo precocemente.
Tuttavia anche a voler consentire alla tesi che “la cinta muraria doveva includere, per volontà di colore che costruirono, non solo l’abitato vero e proprio, ma anche i terreni a coltura agricola ed a pascolo che ne dipendevano. Nei momenti di pericolo confluivano nelle mura, per trovarvi difesa, anche i contadini, ed i pastori con il patrimonio armentizio a ci era legata in gran parte la sopravvivenza della comunità…”, che “…le mura risalgono per lo più al IV-III secolo a.C” e “che le cinte murarie fossero costruite dalla popolazione locale (Oschi, Sanniti, Dauni e altri ancora) per resistere alla pressione romana, risultato piuttosto che premessa delle guerre che portarono da ultimo all'unificazione sotto Roma”[19], non può a prima vista non rilevarsi alla luce di quanto si nota a Roccavecchia, qualche evidente incongruenza, ad esempio mancano nella cinta esterna, peraltro in più tratti conservata quasi totalmente, tracce di postierle che, proprio nel IV sec. sarebbero entrate nell'uso generalizzato[20]. Lungo il perimetro esterno un solo stretto varco, e neppure sicuramente, potrebbe riferirsi a una postierla. Ed è difficile per la tecnica stimare la cinta di colle Saracino posteriore al poligonale di III maniera dell’acropoli. Certamente poi la superficie interna non era coltivabile.
È comunque certo che l’ampiezza e la quantità e la qualità dei resti murari di Roccavecchia danno da soli la misura della eccezionale rilevanza dell’insediamento che senza dubbio esula, pur nella relativa semplicità dell’impianto, dalla categoria degli oppidai per ascriversi in quella delle urbes.
Lo stanziamento, infatti, che di sicuro era stabilmente abitato almeno sull'intera superficie dell’altopiano, doveva egemonizzare un vasto territorio ed ospitare una cospicua popolazione, oltre a costituire il naturale ricetto in tempi bellici di quanti risiedevano nelle pianure circostanti.
Ad esso convergono larghi sentieri, in antico importanti e comode mulattiere, che innervano il territorio gravitante.
Tra queste spicca la via che sale da sud-ovest, tracciata con regolare disegno a formare un arco di cerchio; in un tratto, verso la cava abbandonata, residuano ancora tracce di rozzo lastricato. Non lontano un lungo segmento di via lastricata con irregolari spezzoni di pietre, con gradini meglio curati, è in località Quattro Cantoni. Pare pertanto che il territorio egemonizzato fosse soprattutto quello a sud, da cui proveniva il maggior traffico.
Del resto, quanto si verificherà l’abbandono del reinsediamento medievale – se questo vi fu – probabilmente avvenuto per lenta emorragia dalla Rocca, che diede luogo al tipico e tuttora vitale sistema d’abitazione per casolari isolati e sparsi sui colli, legati alla coltura agricola degli stessi, è ancora a sud che si fisseranno gli abitanti.
Può d’altro canto ritenersi, in assenza di strutture fortificate che lo giustifichino, che persino il secondo nome, successivo a quello antico, di Roccavecchia, sia migrato dall'altopiano alla pendice sud-est seguendo lo spostamento degli abitanti probabilmente già compiuto in età normanna, epoca in cui appare Pratella o Pratilla.
Fu in seguito, dimenticato l’insediamento sommitale ormai solo meta di tradizionali gite, inconsciamente rievocative, (secondo una tipica ricorrenza, che spinge, specie nel tempo post-pasquale molta gente tra i ruderi antichi, così a Roccavecchia come ad es. a Marzanello e S. Felice Vecchio) che ebbero il sopravvento i nomi antichissimi e comuni di Perrone e Cavuto.
Ed infatti sulle carte preparatorie dell’Atlante del Rizzi Zannoni custodite presso la Sezione Manoscritti della Biblioteca Nazionale di Napoli, appare, in coincidenza con l’altopiano, il nome “Rocca Vecchia diruta”.
Lo stesso aggettivo contrassegna le vicine rovine di San Vito, che non possono coincidere, a giudicare dalla posizione, con quelle oggi dette di Torre Umberto, dal nome del casino di caccia dedicato al Savoia[21]. Infatti Torre Umberto deve identificarsi con “Mastrati diruto”, e S. Vito va cercato poco distante, un po’ più a nord.
L’indicazione della carta su S. Vito è preziosa per precisare l’assetto degli insediamenti della zona in età medievale.
L’analisi va compiuta con documenti di Montecassino, mentre di nessun aiuto sono le Rationes Decimarum.
Il centro più importante nella zona fu il monastero femminile di S. Maria in Cingla[22] posto nel confinante comune di Ailano e dipendente da Montecassino, che continuò forse un più antico centro di culto.
Fu distrutto nell’846 dai Saraceni di Massar appunto insieme al Castrum S. Viti[23].
Non compare tra i centri desolati in questa ed altre scorrerie un insediamento collegabile a Roccavecchia ma ciò non significa necessariamente che l’abitato non fosse vitale, teoricamente anzi potrebbe non essere menzionato proprio perché, potentemente difeso dalla natura, si salvò.
Tuttavia non vi è traccia di Roccavecchia oltre che nelle Rationes neppure nei documenti Cassinesi di Cingla in cui compaiono quasi tutti gli insediamenti della zona, anche assai meno importanti.
Tra i possedimenti di Montecassino elencati sulle porte bronzee della basilica della Badia si legge di S. Maria in Cingla cum villa et molendinis et Ailanu, Villa S. Viti, Castellum S. Archangeli[24].
La localizzazione di Ailano e S. Maria in Cingla non desta problemi; il centro (Villa o Castrum?) di S. Vito, come detto, va localizzato a nord di Torre Umberto. Era certo prossimo a Cingla che vi aveva possedimenti, citati in pergamene dell’anno 999 e 1033.
Il Castellum S. Archangeli presso Mastrati, ricordato in documenti dell’anno 965, e del 969[25], va di sicuro identificato con i ruderi posti sul cocuzzolo prossimo alla Fontana di S. Arcangelo, vicinissimo a Mastrati. Infatti la chiesa di S. Angelus in pertinentiis Mastratiis e Roccae Veteris Alifanae Diocesis è citata con riferimento all’anno 1262 in un regesto cassinese[26].
È questa la più antica menzione della Rocca Vetus.
Si può dubitare ancora che il piccolo monastero di S. Croce[27], annesso da Gisulfo a Cingla, vada cercato a nord di Roccavecchia, nei pressi di Ciorlano, ove la Cima 811 si chiama appunto Colle Croce e pare vi siano muri di terrazzamento e ruderi, ma l’ipotesi va controllata.
Altre località attorno a Roccavechia tra cui Vico Bonelle e Prata appaiono nella scrittura di transazione tra il Vescovo di Alife e Cingla dell’anno 1024[28].
Dal momento che neanche in Erchemperto, nella Cronaca e nei diplomi dell’Abbazia della Ferrara sono tracce di un centro identificabile con Roccavecchia, per ora sembra di non poter confermare la vitalità nel IX-X sec. dell’abitato; questo peraltro è già “Rocca Vecchia” e quindi abbandonato nel XIII sec. e non pare menzionato neppure in età normanna.
Ulteriore indizio in tal senso sembra costituito dal mancato rinvenimento in superficie di resti ceramici sicuramente medievali, ad esempio ceramica invetriata. Di quest’ultima dovrebbe esserne molta se le soprelevazioni in opera incerta fossero medioevali. Meraviglia altresì la mancanza sull’altipiano di edifici riferibili al culto cristiano, e finanche di toponimi sacri.
In età sannitica la città di Roccavecchia era, come detto, coadiuvata nella difesa del territorio da altri centri fortificati ed era in favorevolissima posizione strategica, costituendo l’equivalente, in sinistra del Volturno, del centro di Montauro di Vairano.
Collegata otticamente con i descritti centri poligonali della piana di Pietramelara, con Presenzano e Venafro, sorveglia il guado del Volturno e la pianura lungo il fiume, il transito tra Alife e Venafro, l’imbocco della Valle di Prata su cui si apre la via dell’altopiano del Matese guardata dalla fortezza megalitica di Letino[29].
Del pari dall’insediamento si guarda anche il passo della Nunziata Lunga e dunque il più breve passaggio tra la valle del Liri ed il Volturno dopo quello tra i Cesima e Roccamonfina.
La particolare dignità dell’insediamento e la posizione geografica mi hanno indotto a formulare l’ipotesi che con tale centro possa identificarsi l’antica città sannitica di Callifae.
Come quella, infatti, si pone tra Allifae e Rufrae lungo una direttrice percorsa dai Romani nel 326 a.C.[30] e, probabilmente, da Annibale, quando, muovendo da Telesia, puntò verso Cassino per il territorio di Alife (e di Callife) per poi piegare bruscamente verso Cales e l’Agro Falerno[31].
A tenere presente poi la Tabula Peutingeriana potrebbe trattarsi anche di Cluturnum, (da qualcuno emendata in ad Volturnum), o di Aebutiana poste tra Alife ed Isernia, a nord di Teano, sul prolungamento dell’asse Teano-Alife, ma l’abitato sembra estinguersi in età tardo repubblicana, e quindi difficilmente sarebbe stato riportato in questa carta itineraria tardo imperiale.
Una ultima ipotesi nasce dall'analisi di un famoso brano di Strabone che narra della feroce determinazione di Silla di sterminare i Sanniti e, per dimostrare che si era tradotta in realtà, fa seguire un elenco di centri del Sannio distrutti od immiseriti: “ed infatti le città sannitiche sono ridotte a villaggi e talune sono del tutto venute meno. [Tali] Bovianum, Aesernia, Panna, Telesia limitrofa a Venafrum, ed altre simili delle quali nessuna merita ormai di essere reputata città”[32].
V’è chi ritiene che Strabone meriti piena fede e chi stima esagerate le sue affermazioni[33], e, almeno per quelle tra le città nominate che saranno ancora vitali in età romana, può pensarsi che oltre ai guasti materiali il geografo abbia informato le sue valutazioni al decadere dei centri urbani da res pubblicae autonome a prefecturae sine suffragio.
L’elencazione dei centri non pare casuale poiché descrive un itinerario dal cuore del Sannio verso la Campania, lungo il Volturno. Si nota inoltre una palese incongruenza: Telesia viene detta limitrofa a Venafro, mentre ne dista circa cinquantaquattro chilometri. Le due città erano poi separate dai territori di Allifae in sinistra del Volturno e di Kupelternum e Rufrae in destra del fiume, sicché oltre che lontane sono tutt’altro che confinanti. Questo fa sospettare un’alterazione del testo.
Tutto torna invece logico se si suppone un errore di trascrizione, cioè una trasposizione dei nomi e si emenda il brano nel modo che segue: “Bovianum, Aesernia, Panna limitrofa a Venafro, Telesia” e si identifica Panna con Roccavecchia.
Il territorio di quest’ultima era certamente confinante con Venafro. Ciò è dimostrato, oltre che dalla prossimità e conformazione geografica, anche dal fatto che la diocesi di Venafro si estende sino a Torcino e spesso, come si sa, i territori delle diocesi corrispondono a quelli delle antiche città.
Sembra anche probabile che Strabone citando Panna abbia inteso dare un esempio di città del tutto venuta meno, ed infatti il nome è un hapax e null’altro sappiamo di tale centro e ciò aumenta le coincidenze con Roccavecchia la cui storia sembra interrompersi in età repubblicana.
Le soprelevazioni in opus incertum delle mura se non sono altomedievali ben potrebbero essere state innalzate frettolosamente per fronteggiare il terribile Silla, come avvenne in numerose città italiche...
È indubbio che questa come altre tesi potranno avere più sicuri riscontri solo con un’analisi più completa delle emergenze condotta con maggior tempo e mezzi ed ausilio.
A noi infatti non è possibile neppure fornire una inoppugnabile datazione, e pertanto ci limitiamo ad alcune considerazioni di massima, sulla base di quanto osservato.
Poiché, pur non mancando l’impasto rossiccio arcaico, non pare testimoniato l’impasto buccheroide, ed avuto riguardo alla ceramica a vernice nera, per lo più di tipo A, ma di cui non abbiamo rinvenuto frammenti abbastanza significativi per una datazione, ci pare di poter fissare la cronologia dell’insediamento tra il V e il I sec. a.C.
Dati apparentemente contrastanti sono la cura del poligonale di II maniera e l’assenza di postierle, come già abbiamo rilevato.
Abbiamo già discorso del rifacimento o creazione dell’acropoli intorno alla fine del II sec. a.C., come testimoniato dal poligonale di III maniera e dall'impiego del cocciopesto (che peraltro nelle cisterne dura a lungo).
Non appaiono, almeno stando a quanto rinvenuto in superficie, ceramiche di età imperiale, durante la quale, in coincidenza con la pax romana verosimilmente ebbe luogo l’abbandono del centro, se già non era stato distrutto al tempo della guerra sociale.
È da credersi infatti che l’abitato, troppo forte per essere vittima della populatio annibalica, sia cresciuto in floridezza fino al Bellum Sociale che segnò il definitivo declino del nome sannitico.
Neppure è facile datare le mura in rozza opera incerta che soprelevano quelle di III maniera dell’acropoli e il muro nord dell’altopiano delineando un successivo assetto difensivo.
Da un lato esse somigliano notevolmente alle murature di età repubblicane con resti cocciopesto (il restauro del muro poligonale là dove è la cisterna sarebbe contemporaneo a questa), dall'altro appartengono a una tipologia edilizia molto diffusa e utilizzata può dirsi, fino a ieri.
Esse impiegano, contrariamente alle murature longobarde, solo pochi elementi di recupero da precedenti strutture, (tegoloni e blocchi squadrati per gli angoli), e non hanno peculiarità di facile ed univoco riscontro.
Somigliano anche alle murature di Monteforte di Marzanello, di Monte S. Nicola di Pietravairano e ad alcune strutture di S. Felice Vecchio (chiesa di S. Martino Vecchio), di tipologia certo anteriore a quella delle torri e castelli dei nostri borghi medievali, e potrebbero datarsi forse intorno al IX sec., epoca quest’ultima di diffusione delle roccae ed a cui risale l’oronimo Saracino, ma non possono escludersi tempi anteriori.
Murature simili, pertinenti ad una chiesa ed a un vicino edificio sono a Roccavecchia in località I Colli.
Il vano rettangolare sull'acropoli, intonacato a cocciopesto, appartiene certo ad una fase edilizia anteriore a quella della cortina muraria sud che lo ingloba, ma risulta difficile distinguere le murature.
Si può proporre pertanto la seguente cronologia sommaria:
Il teatro parrebbe, nell'ipotesi di minima, collocarsi tra seconda e terza fase, che potrebbero coincidere tra loro.
Sull'altopiano hanno continuato a rifugiarsi le popolazioni dei prossimi territori in momenti di emergenza ed anche durante l’ultima guerra; ora è frequentato solo dagli ultimi pastori e mandriani, che nelle lunghe giornate per vincere la noia si dedicano alla demolizione dei ruderi, od a scavare alla ricerca di pignatelle o di improbabili tesori.
Dalla loro voce ho appreso che ai tempi della “brigantia”, ovvero della guerriglia antipiemontese, si annidarono a lungo e sino alla fine su Roccavecchia le fiere bande dei partigiani lealisti del Regno Napolitano.
È da dar conto infine di un interessante dato folcloristico diffuso nella media valle del Volturno: il ricordo della leggendaria città chiamata Sperlonga, di cui si ignora il sito, ma si sa che fu ricchissima, splendida e potente finché dopo epica lotta non fu distrutta dai Romani[34].
Ora poiché il nome della città “Sperlonga” è certo l’esito del latino spelunca che significa grotta, caverna (come nel caso di Sperlonga presso Gaeta, di cui ci è tràdito da fonti classiche il nome antico di Spelunca derivatole dalla famosa Grotta di Tiberio[35]) è assai probabile che la mitica Sperlonga debba intendersi come la città della caverna e possa identificarsi con Roccavecchia, che sorge sul “cavuto”, la gigantesca caverna che spalanca il suo occhio sulla valle del Volturno, visibile a molti chilometri di distanza.
Note:
[1] G. Conta Haller, Ricerche cit. tav. I.
[2] G. Conta Haller, Ricerche cit. p. 41.
[3] G. Conta Haller, Ricerche cit. p. 40.
[4] Cfr. infra nota 21 a cap. XVI.
[5] Catasto terreni Pratella, f. 9, particella 13, pascolo, partita 141, Comune di Pratella.
[6] In tal senso cfr. Guida d’Italia del Touring Club Italiano, Campania, Milano 1963, p. 207 “...sulla fiancata del monte si apre una grande e profonda cavità comunicante in alto, nell’altopiano”. Tale affermazione ci è stata confermata dai pastori, che ci hanno riferito pure del crollo, in epoca abbastanza recente di parte del budello. Pare però che ci si confonda tra questa grotta ed altra cavità cui si accede dall’altipiano.
[7] G. Lugli, La tecnica cit. p. 448.
[8] L. Cuomo, A. Pellegrino, Il problema di Monte Pallano, “Documenti di antichità italiche e romane”, Roma, 1976, p. 30, tav. 16.
[9] AA.VV., Sepino, archeologia e continuità, Campobasso, Enne ed. 1979, p. 59 e ss.
[10] AA.VV., Sepino ult. cit. e foto a p. 52 in AA. VV., Molise cit; cfr. pure Saepinum (Museo documentario dell’Altilia), Campobasso 1982 pp. 142-148.
[11] F. Valente, Venafro, Campobasso, Enne ed. 1979, p. 58.
[12] W. Johannowsky, Contributo dell’archeologia alla storia locale: la Campania, “Dialoghi d’archeologia”, Milano, Il Saggiatore 1971, p. 469.
[13] W. Johannowsky, Contributo cit. nota 41.
[14] W. Johannowsky, Rel. prel. Teano cit. p. 154; cfr. pure nota 250 per il teatro di Neapolis ed altri.
[15] A. La Regina, Venafro, “Saggi di fotointerpretazione archeologica” (Quaderni dell’Istituto di Topografia Antica dell’Università di Roma) p. 63 e figg. 10, 11, 12; F. Valente, Venafro cit. pp. 65-69.
[16] Cfr. rispettivamente, Culture adriatiche cit. p. 453 e p. 450, Sannio (1980) cit. p. 203; G. De Benedittis, Boiano, “Studi Etruschi”, 1981, XLIX cit. p. 452 e tav. LIX; A. Pantoni, L’acropoli di Montecassino, al capitolo II e figg. 19, 20, 26, 27.
Per Campochiaro in AA. VV., Campochiaro (Catalogo della Mostra a cura Soprint. Campobasso), Matrice 1982, p. 20 si afferma che “la sistemazione monumentale dell’area, con le mura di cinta... potrebbe risalire al III sec. a.C.”.
[17] Cfr. cap. XVI n. 17.
[18] Culture Adriatiche cit. p. 461.
[19] S. Moscati, Risolto il mistero delle città ciclopiche, dentro le mura anche i campi e le greggi “Corriere della Sera” 9/6/1982 p. 15.
[20] G. Conta Haller, Ricerche cit. p. 83.
[21] Cfr. pure D. Marrocco, Il Monastero di S. Maria in Cingla; Napoli 1964 c.p. 10 che lo localizza in agro di Prata Sannita ove pure è conservato il toponimo S. Vito.
[22] Cfr. D. Marrocco, Il Monastero... cit. nota precedente.
[23] Chronica Sancti Benedicti Casinensi “M.G.H.S.S. Rer. Lang. et Ital.” Cap. 7, p. 473.
[24] L. Fabiani, La terra di S. Benedetto, II, Montecassino 1968, p. 417.
[25] D. Marrocco, Il Monastero... cit. p. 15.
[26] Debbo la notizia alla cortesia di don Faustino Avagliano, Archivista di Montecassino.
[27] D. Marrocco, Il Monastero... cit. p. 8 nota 2; e IGM F. 161, III S.E. Pratella.
[28] D. Marrocco, Il Monastero... cit. p. 38-39.
[29] Cfr. D. Marrocco, L’Arte cit. p. 5. L’A. accenna a tale fortezza e, dubitativamente, ad un abitato posto su Roccavecchia di Pratella. La Guida d’Italia T.C.I. cit. alla voce Pratella afferma che “sul monte Perrone, m. 660 sono ruderi di antiche costruzioni di difesa (la località fu forse abitata sin dal tempo dei Sanniti)”. Inesplicabilmente la Conta Haller, Ricerche cit. p. 44 nota 106 asserisce che “l’indicazione di un contadino, che mi ha parlato di grandi blocchi sulla cima del Monte Perrone a E. (sic) di Pratella, dopo una ricognizione si è rivelata errata”.
[30] Cfr. infra cap. XX.
[31] Cfr. infra cap. XX.
[32] Strabone, V, p. 249 C.
[33] E. Pais, La persistenza delle stirpi sannitiche nell’età romana “Atti Reale Accademia di Lettere e Belle Arti di Napoli” VI, 1918 p. 415 e ss.
34] G. Martone, Rupecanina, (II ed.) Napoli 1981 p. 15.
[35] F. Coarelli, Lazio, guida archeologica, Bari, Laterza ed. 1982 p. 343.