Accende lumen sensibus

Accende lumen sensibus,

infunde amorem cordibus,

infirma nostri corporis

virtute firmans perpeti.

Accende lumen sensibus. La poesia è dell'impossibile, se si dà solo corporeità ai sensi, ma presa in questa accezione limitativa l'espressione ha una sua suggestione formale, oltre ai valori di sostanza cui si riferisce: in tre parole si condensa un trattato. Accende: torna il fuoco, quello della pentecoste che noi pensiamo sempre acceso sull'umanità, lesto a scendere sull'uomo che s'immette nel progetto di Dio per farlo suo con volontà decisa, illuminante perché rassicurante, latore di speranze, anticipatore di certezze. Il fuoco è uno, sempre lo stesso, l'amore, e che sia quello che porta Gesù Cristo a dividere è uno dei paradossi della predicazione neotestamentaria.

Scocca la scintilla e una luce si apre a dare risvolti nuovi ai ritmi dell'esistere. La luce è un altro simbolo dello Spirito Santo, dagli estensori del Catechismo accoppiato inseparabilmente alla nube. I riferimenti biblici a Mosè sul Sinai e durante il cammino nel deserto e a Salomone al momento della dedicazione del tempio si compiono per Cristo nello Spirito Santo, all'annunciazione, quando nella povera casa di Nazaret scende sulla Vergine Maria e su di lei stende la sua ombra, sul Tabor, la montagna della trasfigurazione con la voce che proclama: «Questo è il mio Figlio diletto, ascoltatelo», nel momento dell'ascensione, ma pure quando il Figlio dell'uomo si rivelerà nella sua gloria il giorno della sua venuta.

Mi piace il senso riduttivo letterale che do al verso, anche se so bene che il cervello e i nervi fanno pur essi parte della vita sensitiva dell'uomo, anzi ne sono elementi portanti. Mi piace dare corporeità al discorso, prima di tutto perché anima e corpo nell'uomo son tutt'uno, perché materia e spirito insieme partecipano alla crescita umana, ma anche perché la risurrezione finale sarà pure della carne. Accendi, quindi, Spirito di Dio, il lume alla vita sensitiva dell'uomo, liberala dalle incrostazioni dei contatti trascorsi, sanala dalle ferite della cupidigia. E il ragionamento lo faccio ancora più restrittivo, considerando appunto i cinque sensi, i mezzi che fanno entrare la realtà esterna nel cervello e nei nervi, che rilevano e comunicano le sensazioni, che trasmettono fuori dell'esistere le ansie dell'essere sulla terra, le amarezze e le attese del suo esilio. Ma i sensi sono pure gli strumenti del godimento, ed è vero il godimento quando è unico, unito, dello spirito e del corpo, quando la compenetrazione tra spirituale e temporale è completa, quando la gioia dell'anima è benessere anche fisico. Tutto questo lo prova l'amore dell'uomo nella reciproca donazione integrale dei corpi, come dice Benedetto XVI, l'atto sublime con cui si partecipa alla creazione della vita. Quando si scinde l'amore nelle sue componenti o addirittura lo si riduce alla sua consistenza carnale, produce effetti nocivi in tutti i modi, tanto alla vita dello spirito, tanto alla vita del corpo.

Nella direzione giusta, quindi, Spirito di Dio, accendi lume ai sensi: è la direzione giusta in cui intendiamo la carnalità della preghiera, la fissità della contemplazione e dell'estasi, la danza di san Francesco che balla la regola del suo primo ordine quando ne chiede l'approvazione al papa, la tensione spenta del dolce far niente, il gemito dell'amore vero che figlia la vita. Ad illustrare tutto questo, l'immagine che mi gira in mente è quella della vecchietta seduta nello scanno della chiesa, quella vera, non quella della scultura stanca e smorta: recita il rosario e ne tocca i grani infilati nella corona, onti tanto li alza perché pure le orecchie sentano, ogni tanto bacia il crocifisso che vi è appeso in fine quasi ad assaporarne l'umanità e ad avvertire il profumo del suo sangue. Tutto l'essere è teso nell'elevazione della mente a Dio, nella preghiera, e sono espressioni di spiritualità le mani giunte sulla bocca del vecchio vescovo che ieri ha supplito in cattedrale il nuovo per la celebrazione della festa della titolare, l'Assunta, la genuflessione non dovuta alla statua prodigiosa del Cristo in croce dell'uomo solo provato dalla vita, devoto fino a prostrarsi incolto fino a terra, il toccare con la testa sotto la roccia della grotta di Massabielle sul Gave e tenervela così il più possibile.

Spirito Santo, che sei luce, fa scoccare la scintilla ad accendere l'amore a Dio la vita dell'uomo. Infunde amorem cordibus. La sostanza di questo verso, il secondo della strofe, in cui si chiamano in causa i cuori, chiarisce, in fondo, che il senso non è riduttivo del contenuto del primo verso da noi appena annotato. Lo so bene e lo metto in evidenza con discernimento; però che mi è piaciuto insistere sulla per così dire corporeità della vita spirituale non lo nego e ogni volta che posso lo faccio volentieri. Anche qui si potrebbe ragionare sul cuore come muscolo e come luogo delle sensazioni caritative, ma il tema è superato. Sta di fatto che l'uomo è un mistero, anima e corpo uniti, che non si conoscono le vie che percorrono nell'essere umano i sentimenti, l'amore e il dolore per condensarvi il cumulo delle componenti varie e complesse le quali costituiscono l'esistere dell'uomo, che i fili del rapporto teandrico sono personali, diversi e distinti da persona a persona, e misteriosi oltre che segreti. San Pio da Pietrelcina nella santità della sua semplicità umana diceva: io sono mistero a me stesso.

Sottolineare ogni tanto la sapienza dell'autore nella scelta delle parole nella composizione dell'inno non è superfluo: è il caso di soffermarci un tantino sull'infunde, da in-fundere, dentro-versare, e dell'uso del verbo non si può dire che derivi da un'esigenza metrica, perché di sinonimi di fundere ce ne sono diversi e alcuni utili al caso. È il concetto della ridondanza che lo scrittore vuole dare alla parola, correlata all'ascetica preparatoria dell'accettazione dei doni di Dio. Versare dentro, giù, fino in fondo, fin dove s'è fatto il vuoto dalla consapevolezza di esser nulla e dall'umiltà che deriva dall'esame vero, profondo della finitezza della condizione umana. In questo vuoto, nel silenzio che dà l'urgenza di Dio, nell'annullamento di sé e nel distacco dalle cose del mondo che dà la meditazione sulla limitatezza comunque insuperabile dell'essere uomo, versa, Spirito di Dio, il tuo amore.

Dio è amore e l'amore è il primo dono, quello che contiene tutti gli altri. Le sintesi del Catechismo della Chiesa sono estremamente chiare, le percorriamo per il nostro bene e per il bene di quanti ci leggono. Poiché noi siamo morti, o almeno fatti per il peccato, il primo effetto del dono dell'amore è la remissione dei nostri peccati. È la comunione dello Spirito Santo che nella Chiesa ridona ai battezzati la somiglianza divina, perduta a causa del peccato. Egli dona allora la caparra o le primizie della nostra eredità: la vita stessa della Santissima Trinità che consiste nell'amare com'egli ci ha amati. Questo amore è il principio della vita nuova in Cristo, resa possibile dal fatto che abbiamo forza dallo Spirito Santo. È per questa potenza dello Spirito Santo che i figli di Dio possono portare frutto. Colui che ci ha innestati sulla vera vite farà si che portiamo il frutto dello Spirito che è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé. Lo Spirito è la nostra vita; quanto più rinunciamo a noi stessi, tanto più lo Spirito fa che anche operiamo.

Accendimi, Spirito di Dio, il lume ai sensi, dammi cioè la buona intelligenza delle cose divine e di operare in conseguenza con tutte le forze mie, anche quelle del corpo, dammi l'amore al cuore e la gioia di abbandonarmi tutto alla signoria di Dio, annullando completamente la mia volontà in quella sua, e mi avrai salvato. È san Basilio Magno che nel suo Liber de Spiritu Sancto dice testualmente: «Con lo Spirito Santo, che rende spirituali, c'è la riammissione al paradiso, il ritorno alla condizione di figlio, il coraggio di chiamare Dio Padre, il diventare partecipe della grazia di Cristo, l'essere chiamato figlio della luce, il condividere la gloria eterna».

Accendimi il lume ai sensi, infondici l'amore nei cuori, tu, che ci raffermi, ci dai vigore a sopportare con la virtù le cose inferme, non ferme, le infermità del nostro corpo. La logica della quartina è stringente, ricca di pathos umano perché si volge alle cose nostre, di nostro interesse carnale, non priva anche di ricerca formale e di buon uso delle parole a creare contrasti di certa efficacia anche letteraria, come la contrapposizione infirma-firmans. A questo punto, prima di entrare un tantino nel merito del discorso, ci sia consentito uno sfogo, che non ha alcun intendimento irrispettoso e tanto meno critico. Nel Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica, nell'utile appendice dedicata alle Preghiere comuni, si pubblicano i due inni che sono soggetti della nostra riflessione: a fronte vi si stampa una traduzione poetica italiana a senso, molto a senso, talvolta poco fedele al luminoso testo originale latino di una bellezza formale ci considerevole valore, oltre che di una ricchezza di contenuti di ben nutrita scienza teologica.

L'annotazione facciamo a questo punto, perché la richiesta allo Spirito non è di sanare le nostre infermità, ma di darci forza a soffrirle con amore, virtute, a superarle con virtù. L'oggetto del canto è la malattia: son tutte le malattie le cose inferme, infirma, il neutro plurale dell'aggettivo, le infermità. Chi uomo ne è immune? E quante sono. E, quando se ne debella una con la ricerca appropriata della terapia o della soluzione da applicare, ne vengono fuori due nuove, e qualcuna, come oggi il cancro, assai resistente alle cure mediche e chirurgiche. La forza dacci, Spirito di Dio, di poterle sopportare. È qui, del resto, il centro del problema, in quanto è già fatica vivere: cos'è allora il soffrire? La sofferenza della malattia, il dolore fisico. Il segreto per andare avanti al meglio in questa valle di lacrime è accettarsi come si è, anima e corpo, accettare tutte le cose che si hanno dentro per come si sono formate e via via si formano, accettare tutte le cose che si hanno addosso, specie quelle che ci attaccano gli anni che inesorabilmente passano, accettare pure tutte le cose che ci vengono meno, le positività che diventano negatività, specie quelle che ci levano gli anni che volano via sempre più veloci uno appresso all'altro, senza aver neppure in vecchiaia il tempo per contarli.

Accettarsi è fare la volontà di Dio, amare cioè Dio, che è l'obiettivo primario dell'esistere. Nostri corporis, sì, sono del mio corpo, Spirito creatore e signore, le malattie, le sofferenze, questo mio corpo, che non mi è nemico né fratello, è mio, parte essenziale ed esistenziale di me. Sono io. La lotta dell'ascetica contro il corpo, la carne, la mia carne, si comprende appieno solo nel senso del discorso impostato con sapienza somma dall'autore dell'inno. Tu, spirito divino, rassodami la forza di patire e di vincere il male con virtù: accrescimi cioè la capacità di vivere bene, cioè di amare, accogliendo la sofferenza come mezzo di ulteriore santificazione e di glorificazione del Padre. È facile parlare del dolore degli altri; ma qui no, io parlo del mio dolore, quello di ogni giorno, quello che mi è attaccato alle ossa e ai tendini, che mi sfilaccia il cuore, che assale nel vivo gli organi di questo corpo vecchio e malato. Nostri corporis: il discorso non è generico, ma si aggancia al sangue che mi circola nelle vene e nelle arterie, annacquato per la strategia terapeutica propria.

Perpeti. Perpetior: per e patior: soffrire coraggiosamente, sopportare, tollerare, ma pure farsi forza, vincere su se stesso. Plinio, mi pare in una sua lettera, scrive: vehementius quam gracilitas mea perpeti posset. La questione è tutta qui. È la capacità di sopportazione che si chiede allo Spirito. Vero è che nel piano dell'economia provvidenziale le prove che si hanno sono dimensionate alle capacità che si hanno di sopportarle: è logico e morale che sia così, però, virtute, che cresca il livello della propria conformazione a Cristo con l'esercizio della virtù è avvicinarsi di più a Dio, amare di più Dio, entrare di più nel vortice caritativo trinitario. Per questo, che certamente non è poco, tu devi aiutarmi, tu che raffermi, rafforzi, ritempri la virtù dell'uomo, firmans, devi rinvigorire la mia virtù che io possa sopportare la la sofferenza, perpeti, per vivere sul serio, nei fatti, non a parole soltanto, alla sequela di Cristo Gesù, sentire l'appartenenza al regno e servire per quanto mi consentono le forze nella signoria del Padre misericordioso.

Quanto sia attuale la preghiera allo Spirito Santo suggerita in questi versi si avverte nelle polemiche che sono in essere sui problemi del dolore dell'uomo, cioè della vita dell'uomo, e in particolare sulla interruzione di essa, al principio e alla fine, quando in effetti si mettono in evidenza le proprie incapacità a sopportare il rischio dell'esistere e le paure della fine. Spirito di Dio, fissami, raffermami proprio nel senso latino, la virtù, dammi sempre più energia e prontezza nell'accettazione delle prove che mi vengono e nelle sofferenze che portano, tenendo io fissi il Getsemani e il Calvario come punti di riferimento sostanziale del mio andare avanti verso la morte, quando vedrò, come spero, il Padre faccia a faccia.

Mi viene in mente un passo della lettera di Paolo di tarso ai filippesi, dal quale dal lettore frettoloso potrebbe derivarsi che la scelta tra vita e morte sia del grande convertito. «Per me il vivere è Cristo e il morire un guadagno. Ma se il vivere nel corpo significa lavora con frutto, non so davvero che cosa scegliere. Sono stretto infatti tra queste due cose: ho il desiderio di lasciare questa vita per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio, ma per voi è più necessario che io rimanga nel corpo». Bisogna tener presente il contesto della missiva e le ragioni che spingono l'apostolo a quel ragionamento. Ebbene, se si è un po' più attenti, si evince che in fondo la volontà di Dio è la scelta che fa l'autore della lettera, il quale si rimette a quanto accade convinto e speranzoso «che chi ha cominciato l'opera buona la compirà fino al giorno di Gesù Cristo».