Saluto il vostro amantissimo cuore

12 – Io saluto oggi il vostro amantissimo Cuore, ed intendo salutarlo per tre fini.

Il pensiero va difilato al «Ti saluto, o Maria» dell’arcangelo Gabriele, il momento che più m’inebria della vita di Maria, la scelta che di lei fa Dio ab aeterno e che si manifesta lì, in quell’istante, nella povera casa della Vergine, bella più di ogni creatura. Salutare è esprimere con parole e segni amicizia, augurio, rispetto e pure manifestare consenso, gioia, piacere, verso qualcuno. Il verbo ha derivazione etimologica dalla salus latina, un concetto che implica anche il senso di salvezza. Comunque, è esternazione di una familiarità già acquisita o che si ha interesse ad acquisire. Quando poi la parola ha una direzione specifica, le motivazioni che ci determinano ad usarla son ben solide, studiate accortamente nella riflessione e dirompenti.

Oggi qui, in questa chiesa, saluto il cuore di Gesù, rivolgendomi al figlio di Dio in persona con semplicità quanto con fervore. Chi scrive la preghiera nella situazione del tempo, in verità ricolma di informazione religiosa e appunto per questo capace di gente disposta al facile oltraggio in materia di fede, trova buoni motivi per l’invocazione al cuore di Cristo. «Oh Dio e quante ingiurie e disprezzi questo amabile Redentore ha dovuti, e dee ogni giorno soffrire in questo Sacramento, da quegli uomini stessi, per amore de’ quali si è lasciato in terra sugli altari! Ben Egli se ne lagnò con quella sua cara Serva Suor Margherita Alacoque, come riferisce l’autore del libro della divozione al Cuore di Gesù. Un giorno appunto ch’ella si trattenea dinanzi al SS. Sacramento, Gesù le diede a vedere il suo Cuore in un trono di fiamme, coronato di spine, e con una Croce di sopra, e poi così le disse: Ecco quel Cuore, che tanto ha amato gli uomini, e che non ha risparmiato niente, è giunto a consumarsi, per mostrare loro il suo amore. Ma per riconoscenza Io non ricevo che ingratitudine dalla maggior parte, per le irriverenze, freddezze, sacrilegi, disprezzi, che mi fanno in questo Sacramento d’amore. E ciò che più m’è sensibile è che sono cuori a me consacrati. Indi Gesù le richiede che il primo venerdì dopo l’ottava del Sacramento fosse dedicato ad una festa particolare, per onorare il suo adorabile Cuore, in cui le anime sue amanti cercassero compensare co’ loro ossequj ed affetti i disprezzi, che Egli ha ricevuti dagli uomini in questo Sacramento sugli altari».

In quel tempo l’eucaristia è centrale nella vita religiosa, negli usi liturgici del popolo di Dio e nella pratica devozionale: l’episodio di Margherita Maria Alacoque si situa in quel tempo perché gli oltraggi al sacramento, appunto per la diffusione che si ha nella religiosità popolare della pietà eucaristica, sono continui. Raffrontassimo noi con i giorni di allora i nostri, potremmo dire che nella sostanza le situazioni si equivalgono. Le bestemmie, i vituperi, le villanie contro il sacramento non ci sono più così palesi, perché il progresso dell’alfabetizzazione ha in qualche modo migliorato le condizioni generali di vita. L’analfabetismo va definito oggi a diverso livello ed è pure di larga estensione, e in questo trova collocazione l’indifferentismo, in massima parte derivato dal consumismo, i cui parametri vanno ricercati nella direzione opposta a quelli della riflessione religiosa. Il pensiero debole e veloce viene coniato in sede filosofica per necessità di vita quotidiana, trovandosi anche l’indagine culturale di fronte alle immediatezze che impongono le sempre più accelerate e stupefacenti innovazioni della scienza e della tecnologia, specie quelle del computer e di internet. Il tempo disponibile si riduce sempre più nelle ansie e nelle tensioni della ricerca del benessere ad ogni costo ed il cosiddetto tempo libero acquista sempre di più le dimensioni dell’escluso godimento corporale.

L’indifferenza religiosa e la piaga del nostro tempo: certamente è meglio avere uno che parla contro invece di uno che non ha proprio interesse alla materia. Di questo indifferentismo soffri, Signore, e la solitudine e l’attesa perpetuano il tuo calvario. Uomo, perché mi hai abbandonato? Nel saluto di Alfonso de’ Liguori, rivolto in modo così cordiale, proprio sostanziato di tanta familiarità, io sento un accento consolatorio di indubbio valore. Son qui io a farti compagnia, voglio dirti, Signore, con la semplicità di Gerardo Majella, a divertirti, cioè a distrarti da tanta ben motivata malinconia.

Il saluto è degli angeli, diceva mio padre e si affrettava egli per primo a salutare tutti quelli che incontrava per la strada ed erano di sua conoscenza. Con gli angeli ti saluto pur io, e con Alfonso che ti canta di certo una delle sue composizioni affettuose. Sì, perché il de’ Liguori ha fatto la musica e le parole di Tu scendi dalle stelle e una ninna nanna a te Bambino in dialetto napoletano, quello della sua terra, densa di sostanza biblica e di dottrina cattolica: il lupo e l’agnello ora possono stare insieme e il fieno arido messo sotto di te a farti culla «s’infigliulette e de frunnelle e sciure se vestette».

Nel saluto al cuore di Gesù, che si ha la gioia di incontrare qui vivo e vero, ci sono intenzioni ben precisate, che attengono a valori sostanzialmente religiosi, della sfera delle proprie intimità, nel disegno di una spiritualità calibrata all’oggettività della fede, incentrata al nocciolo del rapporto teandrico eucaristico, ma pure aperta sulle dimensioni degli altri, e quindi in senso propriamente apostolico. Il cuore di Dio. Il tuo cuore, Signore: il cuore di Dio. La stessa familiarità, compensativa del rammarico che si sente nelle viscere per la tua solitudine e il tuo dolore, percepisco nella specificazione che il santo dà al tuo cuore immalinconito. Esiste la malinconia, il dolore di Dio? Il dolore di Dio è la disubbidienza dell’uomo, la malinconia di Dio è l’indifferenza dell’uomo alla sua presenza continua in carne ed ossa nelle specie eucaristiche. E la sofferenza più profonda è nel cuore. È appunto qui, nel tuo cuore affranto, l’urgenza dell’apertura agli altri del mio incontro con te.

A rafforzare la pienezza del saluto nel suo tono familiare, ma vitalmente indicativo del bisogno d’essere vicino al Signore per ritrovare insieme agli altri, è il contrasto che marca il vescovo di Sant’Agata dei Goti, usando il superlativo del participio presente alla maniera latina, che egli ben conosce per gli studi che ha fatto e che porta avanti. Amantissimo, superlativo di amante, che ama. Già il termine espressivo di inclinazione, di disponibilità, di desiderio, avvalora la pregnanza del sentimento; il suo rafforzativo, quindi, sta ad indicare per contrapposizione il disagio in cui si trova Cristo ancora oggi, e in che misura abbondante. Così non siete stati capaci di vegliare un’ora sola per me? Gesù Cristo, amantissimo, con il cuore tanto sfilacciato, la sua anima è tristo fino alla morte, si dona all’uomo fino in fondo sulla croce, anche lì tanto solo che non ce la fa più e grida, grida al Padre la sua angoscia dolorosa.

Lo avevi già presentito. Adeso l’anima mia è turbata. E che dirò? Padre, salvami da quest’ora. Per questo, comunque, sono giunto a quest’ora. Ma poco prima avevi già impostato il triste discorso. Se il chicco di grano caduto in terra non muore, resta infecondo, se invece muore, produce molto frutto. E sei morto, e la tua morte rinnovi ogni momento nella celebrazione eucaristica, e il tuo sacrificio mantieni in questo tabernacolo dove vengo a salutarti.

Faccio pure mie le tre intenzioni che individua il de’ Liguori nella sua fervida preghiera, nella quale il numero tre è ricorrente quasi certamente a rimarcare i riferimenti a Dio uno e trino. Gli intendimenti sono tre anche per me e con te, Figlio di Dio ma pure Figlio dell’uomo, mi immergo nel Padre a glorificarlo nella mia miseria spirituale e corporale, afferrando un pizzico d’amore dello Spirito Santo per rigenerarmi alla grazia e renderti con i mio saluto cordiale un infinitesimo di gratitudine nella tua infinita carità, un attimo di gioia vera e profonda. I tre fii del saluto nella preghiera compendiano i contenuti della pietà alfonsiana, tutti e tre da ben collocare nelle urgenze di adorazione e nella cultura ascetica del tempo.

Il primo è ancora di ringraziamento per lo stupore perenne che crea nell’animo il mistero dell’eucaristia: il cambio della sostanza e il mantenimento della specie nel pane consacrato, pane ineliminabile di vita spirituale e di salvezza, il corpo e il sangue del Figlio di Dio. O salutaris hostia, quae coeli pandis ostium, da robur, fer auxilium. Il secondo è di ripartizione e si motiva nell’empito caritativo della comunione dei santi, espresso nel bisogno della preghiera per l’altro: il principio dei vasi comunicanti nella pietà e nell’ascesi è sfogo proficuo e rigenerativo dell’amore del prossimo. Panis angelicus fit panis homunum. Il terzo è di adorazione e annullando ogni spazio, come annullano di fatto ogni spazio e ogni tempo le cose che non si vedono, quelle che contano di più, diventa pur esso riparatorio del disamore del mondo. Verbum caro, panem verum, / Verbo carnem efficit, /fitque sanguis Christi merum, / et, si sensum deficit, / ad firmandum cor sincerum, / sola fides sufficit.

La spiritualità del secolo del santo che scrive è impregnata di queste urgenze di vicinanza a Cristo che soffre, risentendo dell’impostazione dottrinaria dell’ascetica del tempo, la quale si riflette pienamente nelle pratiche di devozione della religiosità popolare contemporanea. Però, se andiamo a considerare nella sua reale consistenza il valore di quegli atteggiamenti e in un confronto con i nostri riflettiamo sulla sostanza delle cose, dobbiamo dire che di differenze ce ne sono ben poche: forse cambiano le parole, le modalità di accesso ai temi sono diverse, gli usi e i comportamenti risentono dei mutamenti sociali, si addolciscono le espressioni e si fanno meno vive e cruente le immagini, si sfumano i toni; ma il Figlio di Dio e con lui il Padre e lo Spirito Santo amano infinitamente e soffrono infinitamente di non essere amati.