Mi pento d'avere per lo passato
17 – Mi pento d’avere per lo passato tante volte disgustata la vostra Bontà infinita.
Alfonso Maria de’ Liguori è stato un santo del suo tempo; ma veramente santo, pieno di fervore, di grande pietà, ma di robusta derivazione culturale, teologico morale e ascetica, oltre tutto maturata nel cumulo di esperienze umane fatte negli studi e nell'esercizio dell’avvocatura nel secolo. Tutti i santi per il fatto stesso di essere santi sono colti, cioè sanno cogliere la sostanza della vita che viene dalle cose invisibili, quelle che contano sul serio e che essi sanno discernere con buon intuito, attento giudizio e consapevole accettazione. Penso in questo momento a Pasquale Baylon, l’illetterato fratello laico alcantarino tanto innamorato dell’eucaristia da diventare del sacramento conoscitore e propagatore ascoltato in ambienti di ogni livello, da Leone XIII addirittura proclamato con la lettera apostolica del 28 dicembre 1897 patrone delle opere eucaristiche. Quel grande papa afferma di lui che, «fra i santi la cui pietà verso questo sublime mistero si è manifestata con un fervore più vivo, occupa il posto più degno» e che opere come le associazioni e i congressi eucaristici, «sia quelli che sono già esistenti sia quelle che saranno per sorgere non possono essere affidate ad un patrono migliore». E penso a Gerardo Majella, incolto e piuttosto sempliciotto, il quale, alla sequela del de’ Liguori, con Cristo nelle sacre specie s’intrattiene in confidenziali, affettuosi colloqui.
Alfonso, il valente avvocato napoletano che risponde alla vocazione di Dio avendo piena contezza del passo che fa, si butta nello studio della dottrina cristiana e in tali approfondimenti trova alimento alla sua pietà e viva energia alla sua spiritualità. Diceva mio padre, e pare che la notizia gli venisse dalla buona tradizione di famiglia, che il santo per studiare e per pregare tenesse piegato il collo tanto tempo, quasi continuamente, che nelle pieghe della pelle in quella zona si fossero aperte le piaghe e addirittura fatti i vermi. È il tempo in cui nell'ascetica ha preminenza il timore di Dio, il santo timore di Dio: si ha paura di perdere l’anima. Le biografie e gli epistolari dei santi e delle persone pie di allora sono pervasi dal timore di non salvarsi, che dà talvolta vero e proprio tremore fisico, ma comunque genera propositi validi a dare all'esistenza una rotta corretta nella ricerca costante di comportamenti proficui per la propria vita spirituale. Si può ben dire che l’ascetica abbia primazia sulla mistica, pur se per dare giudizi equilibrati deve considerarsi come anche in quel tempo l’ascetica sia il primo passo della mistica e come non sia male definirla l’ancella della mistica. La verifica può farsi in ogni caso, compreso quello del vescovo di Sant'Agata dei Goti, il quale è un maestro di ascetica e di fatto va considerato come un mistico per la posizione intimamente caritativa che assume per ogni suo atteggiamento in campo devozionale.
Così il santo si pene nella sua preghiera. Ma la scrive per me che recito e l’amo per la verità che racchiude ad incastrare la mia condizione umana nel giusto rapporto che devo avere con Cristo Gesù, figlio di Dio, che mi indica la via e mi orienta la vita. Io sono la via, la verità, la vita. Pentirsi e provare per il male commesso dolore, dispiacere, rammarico, ma è pure cambiar parere, idea, opinione. Mi pento, Dio, del male che ho fatto, e quanto, delle cose non fatte bene, delle inadempienze gravissime, gravi e veniali. Mi pento di quello che non ho fatto per la mia salvezza, dei sacrilegi, delle infedeltà. Mi pento delle pagine scritte, quelle più e quelle meno dannose a chi e legge, degli scandali dati. Mi sono pentito tante volte a parole, ma nei fatti mai completamente: la conversione è stata sempre temporanea.
Tante volte ho pronunciato e scritto il termine «metanoia», che nella dottrina cristiana è profonda trasformazione interiore etica, culturale, spirituale, è capovolgimento radicale del modo di pensare seguito alla conversione e al pentimento. La conversione dell’intelligenza c’è stata sempre, ma non quella del cuore, della volontà; il pentimento finora sempre è stato singultito, a tratti, passeggero. Se mi fermo all'etimologia della parola, al senso filosofico, cioè a ciò che è oltre la comprensione dell’intelletto umano, al di là del pensare, devo dire no, perché il senso del termine è ben chiaro nella mia mente. Il grave è, però, che il capovolgimento radicale, totale, coinvolgente tutta la persona, definitivo, non c’è stato. L’uomo nuovo, quello che si registra nelle viscere e nei fatti, non c’è, pur se l’adesione al regno c’è e sentita fortemente è la signoria in me di Dio Padre, di Dio Figlio e dello Spirito Santo.
Ti dico un’altra volta, Signore, che mi pento, e tu rinforzami la grazia perché il pentimento sia decisivo, finalmente risolutivo di ogni incertezza, conclusivo. Ho sempre creduto e credo fermamente nel sacramento dell’altare e nella forza sacramentale che infonde, ma ne ho approfittato, ne ho abusato terribilmente e mi trema il cuore al pensiero che tu possa castigarmi di tanta mia superbia. Perdonami, Dio dell’amore, se ti ho offeso proprio al centro del tuo esistere eterno, oltraggiando così pesantemente il tuo essere divino nella sua unità. Perdonami, perdonami. E pure perdonami le cose dell’apparire, il mettermi al posto che occupava il primicerio nel coro quando esisteva nella mia chiesa amata il capitolo dei canonici, il gioire del sacerdote celebrante che si allunga a me al momento dello scambio del saluto di pace, la presunzione di parlare e di scrivere delle cose della fede quando dentro c’è il marcio, tanto marcio puteolente.
Di cosa si doveva pentire sant'Alfonso? Son io che devo pentirmi con le sue parole, ma vorrei il suo cuore per chiederti sul serio perdono per averti in passato offeso mio Signore misericorde. E pure nel presente, tante volte, infinite volte, e tu sei stato e sei sempre benevolo nei miei riguardi, e mi dai tempo, e m’incoraggi, e mi rinvigorisci la speranza. Dovrei, devo avere più paura di te, il santo timore di Dio, ma ti sento amoroso, settanta volte sette disposto a perdonarmi, a gridarmi, dalla porticina del tabernacolo, tu vivo e vero, l’invito a ravvedermi definitivamente.
Anche nel pensiero e nella concezione del ragno talvolta sono fuori via, come quando sottovaluto l’amore del prossimo, dell’altro in cui dovrei vedere me stesso, accusando d’ipertrofia dell’orizzontalità quanti danno preminenza alla pratica caritativa verso il fratello, assumendo io la verticalità del rapporto teandrico come fatto primario dell’ascesi e adducendo come elemento esemplificativo le scelte della Chiesa di fare protettrici dell’azione missionaria Teresa d’Avila, la grande, la figlia spirituale del severo Pietro d’Alcantara, e Teresina di Lisieux, l’autrice della piccola via, tutte e due separate dal mondo in monasteri carmelitani di rigida clausura. È vero o no che dall'alto si slarga l’orizzonte? E le anime non sono utili, specie le più alte, le spaziali, a far crescere il raggio d’influenza? Quanta superbia anche qui, mio Dio. Metti la mano sul timone della mia barca e correggimi la rotta sbagliata.
Disgustare è un termine forte, non ha qui il senso di non vedersi più con simpatia, di rompere i buoni rapporti, perché bontà Dio lo è sempre, e tanto misericordioso. La sensazione che offende il senso del gusto, che toglie il buon sapore alle cose è propriamente il male: se lo si avverte sul piano umano, quanto più il male colpisce, dà dispiacere e disgusta il Signore, che ha creato l’uomo a sua immagine e l’ha costituito nella sua amicizia? Se la gloria di Dio è che si realizzino le manifestazione e la comunicazione della sua bontà, in vista delle quali il mondo è stato creato, provoca dolore certamente spezzare col peccato lo svolgimento di tale realizzazione. Ireneo di Lione mi dà consolazione, quando leggo la sua affermazione secondo cui la gloria di Dio è l’uomo vivente e la vita dell’uomo è la visione di Dio. Ma l’uomo che disubbidisce e si assoggetta al male perde la visione di Dio e non è più la gloria di Dio, anzi addolora il cuore di Dio, perché rende vana la sua bontà infinita.
Tante volte ho dato dolore a Dio, togliendogli la gloria e togliendomi la felicità, cioè non procurando la sua gloria e la mia felicità. Avverte Giovanni Crisostomo: non potete chiamare vostro Padre il Dio di ogni bontà, se conservate un cuore crudele e disumano; in tal coso, infatti, non avete più in voi l’impronta della bontà del Padre celeste. Mi pento, fammi pentire sul serio, con una ventata sferzante di grazia, Signore mio Gesù Cristo, di avere mortificato la tua bontà infinita, la tua misericordia, con la libertà che tu mi hai dato togliendola a te con un atto di amore eterno. Non ha limiti, Signore, la tua bontà e lo dimostri con il fervore con cui recito la preghiera scritta da sant'Alfonso Maria de’ Liguori in questo punto proprio per me, ostinato peccatore e irriconoscente tuo servo. Mio Dio, mi pento con tutto il cuore dei miei peccati, li odio e li detesto come offesa della tua bontà infinita, cagione della morte di tuo Figlio Gesù, mia spirituale rovina.