De Sisto_La Fontana

Lelio De Sisto

LA FONTANA

(in Narrazioni vol. I, n. 5, dicembre 1999, pp. 39-42)

Il sole aveva da poco superato la collina, quella su cui sorge ancor oggi il vecchio castello normanno, accingendosi ancora una volta, così come avveniva da sempre, ad infrangersi anche in quel mattino d’estate, con i suoi raggi dritti e pieni di luce, sui vetri della mia stanza.

Ma quella volta non mi lasciai sorprendere.

Già da un pezzo, infatti, ero in attesa; là, dove il balcone piega ad angolo la nera ringhiera, con lo sguardo puntato contro, mentre la brezza mi solleticava bocca e naso spingendosi senza intoppi sempre più dentro, che si facessero vivi dalla loro tana.

Avevo poco più di otto anni allora, ma ne sentivo molti di più addosso; il perché lo avrei scoperto solo avanti nel tempo e, poi, anche se fosse bastato solo quel giorno per riuscire a trovare la risposta giusta ad un simile peso, non potevo farlo, la troppa felicità me lo impediva.

I miei occhi, insaziabili, correvano intanto senza limiti fra quegli spazi di luci e di colori, perdendosi, poi, dentro la fitta boscaglia che si estendeva sotto la mia casa.

Una voce, quella di mia madre, d’un tratto interruppe quel legame fantastico che la mia mente stava avendo col cielo, riportandomi immediatamente alla realtà.

“Lelio, cosa fai? Dormi in piedi?” – “No, mamma; ecco, vedi...” Mi fermai, senza riuscire più ad andare oltre.

Volevo – tuttora non si è spento – un bene dell’anima a quella donna, anche se non osavo confidarle quelli che erano i miei piccoli segreti.

Non ne avevo la certezza, ma pensavo che avrebbe potuto definirmi un po’ tocco se le avessi detto che dialogare con la natura riusciva a provocarmi emozioni tanto intense da stordirmi.

“Vai a bere il latte, è sul tavolo” – mi ordinò con un tono che non ammetteva repliche e dal quale compresi che mi aveva letto dentro – “fai in fretta” – proseguì, ma nel frattempo aveva già recuperato la solita dolcezza di tutti i giorni – “altrimenti troverai una fila enorme alla Fontana”. Già, la Fontana.

Avevo sperato tanto, almeno per quella volta, di non vederla.

Non perché non mi piacesse di rendermi utile alla causa comune; anzi, il fatto che dovessi essere io, il più grande, a preoccuparmi di soddisfare la sete di tutta la famiglia, mi faceva sentire importante. Ma quel giorno, per mia scelta, avevo deciso di starmene un poco da solo.

A volta capita, soprattutto a quei bambini che sembrano essere cresciuti un po’ troppo, aver voglia di mettere un po’ d’ordine in quel groviglio di pensieri da cui si sentono oppressi, per dar forma e parola, lontano da occhi indiscreti, allo sconosciuto destino che qualcuno già da tempo ha preparato per loro.

Presi la latta dal solito posto, facendola rimbalzare più volte, a mo’ di tamburo, sulle ginocchia e, sconsolato, mi avviai incontro a quello che a torto stavo considerando un mio acerrimo nemico; non mi sfiorò neanche per un attimo che da grande, poi, avrei pregato tantissimo per poter ritornare a quell’antico ruolo.

La gioia che mi aveva aperto gli occhi al risveglio, lentamente, stava facendo posto alla più cupa disperazione e, solo a fatica, riuscii a nascondere le lacrime a mia madre.

La piazzetta antistante la Fontana era gremita di gente, quasi tutte donne, ognuna in attesa di poter attingere il prezioso liquido da quell’unica bocca di leone, delle due esistenti, ancora in attività. Accadeva quasi sempre sul finire della primavera, che il flusso dell’acqua, tanto violento e abbondante d’inverno, perdesse ogni giorno di più di quella potenza, fino alle prime piogge, d’autunno, quando incominciava a riacquistare le forze perdute.

Eravamo solo agli inizi degli anni sessanta, quelli che stavano proiettando l’Italia verso il benessere, ma, nonostante fossero trascorsi quasi vent’anni dalla fine della guerra, era ancora molto presto perché già si potesse avvertire anche da queste parti.

La vista di quelle donne, uguale ad un rito verso il quale non potevo sottrarmi d’assistere ogni mattina, anche quella volta non cessò di ferirmi.

Altrettanta emozione, poi, me la procurò quello stuolo vociante di bambini presenti. Quelli più grandi, quasi tutti vestiti con panni avuti da persone di buon cuore, si divertivano facendosi schizzare addosso la poca acqua dell’abbeveratoio, infastidendo non poco uno stanco asinello che, impastoiato dalla pesante soma, cercava di lenire l’arsura sopraggiunta alla fatica; qualcuno più piccolo invece, avvinghiato alla vita della giovane madre, seguiva con interesse quanto accadeva lì intorno, ma senza staccarsi dal seno che, impoverito dalle frequenti poppate subite, era ormai diventato molle e sin troppo avvizzito.

Come al solito me ne stavo in silenzio, dietro lo spigolo che tuttora si apre sulla via, timoroso di mostrarmi e con le mani strette sulla mia latta di plastica, capivo di essere stato più fortunato di loro e ne avevo vergogna.

Le lacrime scomparvero di colpo, anche se dentro continuavo ad essere triste; non più per colpa dell’ordine ricevuto dalla mamma, ma per tutto quello che i miei occhi avevano visto e capito quel giorno.

“Guagliò, vieni avanti” – si levò secca una voce in tutto quel frastuono, stavolta non era quella di mia madre, ma di Rosa, una delle poche persone, con Emilia e Linda, che riuscivano a leggermi dentro.

Seppur spronato da quell’invito, che puntualmente arrivava ogni mattina da una di queste tre donne stanche di vedermi superato continuamente nella fila, ogni volta facevo una fatica tremenda nell’avvicinarmi a quel rivolo d’acqua così striminzito.

L’idea di dover sopportare per tutto quel tempo tanti occhi puntati addosso – il mio recipiente impiegava dai dieci ai quindici minuti per riempirsi, invece per le conche da bucato delle donne, a volte, occorreva più di mezz’ora – mi faceva star male.

Di tanto in tanto, pur di fuggire a quell’attesa, non mi fermavo alla “Fontana”, ma proseguivo oltre, raggiungendone un’altra, denominata “Rivo”, in località “Case Pagane” dove solo di rado incontravo qualcuno che aveva avuto la mia stessa idea; quasi sempre – insieme ci andavo con il mio amico Gigino – infatti era stato lui a farmela conoscere – insieme al quale riuscivo a superare meglio le asperità di un viaggio più lungo.

Non lo facevo per disprezzo, ma solo perché convinto della mia incapacità di dare un aiuto a tutte quelle persone che vedevo ogni mattina, nonostante volessi farlo con tutto il cuore. “Muoviti” – ripeté Rosa – e in quello stesso momento mi tolse la latta di mano che, per nasconderla meglio allo sguardo dei presenti, affondò subito nell’ampio incavo della sua conca.

Un lieve rossore in un niente si sparse sulle mie guance, rendendole ancora più paffute del solito, ma scomparve subito dopo, non appena presi coscienza di non trovarmi da solo. L’ultimo fiotto d’acqua, accolto con un leggero borbottio all’imbocco della mia tanica, mi fece capire che l’operazione era ormai terminata; a quel punto dovetti per forza sollevare lo sguardo, che invece avevo voluto nascondere agli altri, tenendolo basso per tutto il tempo.

Mi bastò un attimo per comprendere che non dovevo avere paura, perché dentro quella gente, segnata nel volto soltanto dalla fatica, alla quale era stata negata persino la speranza di immaginarsi un futuro migliore, si nascondeva invece tanta umanità e un cuore buono.

Da quel momento in poi, non ho mai smesso di sentirmi come uno di loro.

Oggi, a distanza di più di trent’anni, la “Fontana” è ancora al suo posto, ma non è più quella di prima; infatti, anche se continua sempre, come ha fatto per secoli, a dissetare i raviscaninesi, ma non solo loro, un nuovo “look” ne ha sconvolto profondamente la fisionomia originaria, ormai relegata soltanto nei ricordi di quanti la amarono.

Questo orribile scempio, sopportato purtroppo con fatalistica rassegnazione dalla maggior parte della popolazione, ha cancellato di colpo la memoria di uno dei più bei monumenti in nostro possesso, interrompendo così uno stretto legame che ancora avevamo col passato.

Dalla pietra levigata di un tempo, con la quale i nostri antenati avevano voluto costruire abbeveratoio e lavatoio, non esiste più traccia; un’altra ne ha preso il posto, portata da fuori per turbare i ricordi di tutti con quel suo effetto geometrico strano.

I mascheroni, dopo il restauro, non danno più l’impressione di essere quei vigorosi leoni di una volta, capaci non solo di vomitare acqua, ma anche di incutere paura; le bocche sono state tappate, introducendo in ognuna una canna ad angolo retto, che ha stravolto non poco l’aspetto di quelle facce feline, ormai diventate troppo simili a due ridicoli vecchi, che sbuffano solo fumo, cui fa da sfondo una turpe aberrazione cromatica con cui questo nuovo complesso dovrà accompagnarsi per chissà quanto tempo!

Ancora una volta, un pezzo della nostra storia è stato sepolto.