miserabile qual sono, io mi consacro

19 – Ed al presente miserabile qual sono, io mi consacro tutto a voi.

Miserere mei, pietà di me, o Dio, secondo a tua misericordia, nella tua grande bontà cancella il mio peccato. Lavami da tutte le mie colpe. De profundis clamo ad te Domine. Domine, audi vocem meam. Fiant aures tua intentae ad vocem obsecrationis meae. Mi passa per la testa Knulp, il personaggio di Herman Hesse, quando muore: il sorriso di Dio gli rivela nella suggestione letteraria il valore della vita, il valore positivo della sua vita, e socchiude gli occhi per l’ultima volta con il raggio della speranza che entra dentro di essere figlio di Dio e s’apre alla serenità della fine. Miseria e misericordia. E i viandanti che si accostano trepidi alla tenda di Abramo? Tanti episodi sfilano nella mente presi dalle antiche opere classiche. Leggere Omero significa imparare tutto della vita, diceva Tolstoj e ripete il mio amico professore, di cui poco appare la saggezza. Filemone e Bauci della Frigia, per esempio, che danno tutto al viandante stanco e il vino vecchio che gli offrono di diverse annate mai si esaurisce. È la cultura mediterranea della misericordia con il vino che dava mio padre agli ospiti dalle bottiglie antiche otturate con la pece greca.

Il vino e il pane rompono la nostalgia dell’esilio dell’uomo, che è partito e pellegrino e forestiero è povero in via. Lo vedo, l’esilio della condizione umana, negli occhi di chi è straniero sulla terrazza di fronte a stendere la biancheria e ti saluta la mattina senza vederti, chiuso nel dolore della malattia dell’altro, e la sera, nella controluce di una lampada tenuta apposta accesa a farsi vedere a leggere o a scrivere nei caratteri ignoti della sua lingua. Al presente: dice sant’Alfonso per definire lo stato d’animo d’ora, mutevole da istante a istante come tutte le cose del panta rei. E il presente è la vita, in quanto il passato è già memoria soltanto e il futuro è solo in mano a Dio. Anche questa mutevolezza, la provvisorietà dell’esistere dell’uomo, è segno della condizione umana, perché in fondo pure il presente che è la vita mentre lo vivi è già passato e, se non lo scrivi nel rotolo della misericordia di Dio, è nulla. Ma di tanti presenti, uno appresso all’altro, si compone la curva dell’esistere e, quando vai a farne l’integrale, ti accorgi che sol ti rimane quel che riguarda le cose che non si vedono, le sole che contano.

Leggo che nei ben gonfi fascicoli che contengono il materiale esaminato per la causa di beatificazione di Teresa di Calcutta si raccolgono o stanno per essere raccolte alcune sue lettere inedite, nelle quali si confessa una sua crisi di fede. Di certo queste missive saranno date alle stampe anche in Italia. In uscita negli Stati Uniti, il libro con questa parte dell’epistolario è Come, be my light. Di fronte alla presa di posizione di associazioni americane di atei, agnostici, razionalisti, Vittorio Messori scrive: «Sono sciocchezze, per chi sappia cosa sia l’atto di fede, dove le consolazioni interiori, il gusto spirituale sono doni che Dio può concedere o meno. Ma, se mancano, non per questo viene meno la fede, anzi, essa è ancora più meritoria e, al termine della purificazione, di solito riesplode rinsaldata. Come mostra, nei fatti, la suora di Calcutta nel suo povero sari in bianco ed azzurro: i colori della madre di quel Gesù che, se le negò talvolta il gusto del Vangelo, le concesse in modo sovrabbondante la sostanza». Ebbene, tra l’altro, in questo carteggio risulta che nella sua crisi di fede la suora non sentiva più in quel tempo Dio nel cuore e nell’eucaristia. Un presente che è memoria, ma pur è utile per constatare come madre Teresa tenesse l’eucaristia nell’anima e fosse per lei indispensabile la presenza viva e vera di Cristo sulla terra, come attestano del resto tanti altri suoi pensieri conosciuti e le sue opere.

Un tempo, un presente della miserabilità dell’uomo, l’esilio si carica di incertezze e la sofferenza interiore si fa più lacerante. È l’istante che fissa sant’Alfonso, al momento miserabile qual sono, qual è. È l’iter dell’ascesi: ai giorni della crisi, della notte dello spirito, delle incertezze, seguono i giorni dell’illuminazione, dell’aggancio mistico, della santificazione. I primi servono a rendersi conto della finitezza della condizione umana, i secondi ad aprirsi all’invadenza dello Spirito Santo con il suo amore infinito. Il vuoto che si crea nell’animo con la spoliazione completa di sé è condizione necessaria affinché si faccio e ci sia spazio per Dio. La dichiarazione, quindi, che fa il de’ Liguori nella sua preghiera di una miserevolezza al presente è effetto di una situazione di crisi, però non temporanea ma ricercata e potremmo dire abituale, in quanto è la specificazione del suo stato d’animo di uomo peccatore contrito pronto all’effusione dello Spirito. Del resto, è questa urgenza di penitenza, rafforzata dal timore santo di Dio, la base dell’edificazione ascetica del santo vescovo, premessa indispensabile per vivere la contemplazione e sprofondarsi nel godimento mistico di Dio uno e trino.

Di quali peccati e di quali miserie deve mondarsi sant’Alfonso? Al massimo di una pizzicata di polvere di tabacco che infila ogni tanto nel suo naso. Sono io il miserabile, o Signore, e il vuoto dentro mai riuscirò a farlo completo per farti posto. Mettici la mano tua, Dio vivo e vero dell’eucaristia, a cambiarmi la testa e soprattutto il cuore, svuotameli di tante tristezze e fammi gustare la gioia di sentirti dentro mio Signore. Teresa di Calcutta si lamentava di non sentirti vivo nel suo cuore e nell’eucaristia e ne aveva tanta sofferenza da non poter fare a meno di scriverne. Ebbene, tu dammi almeno tale sofferenza, almeno in parte, se non totale, in maniera che io possa avvertire la necessità di risalire la china e di desiderare più fortemente di appartenere a te e di servirti nel tuo regno con più fervida partecipazione.

Pur io mi consacro a te, Signore, con il cumulo delle mie miserie, con il cuore malato pieno di attaccamenti alle cose del mondo, con le mie tante debolezze, con le mi incompletezze. Lo dico con sant’Alfonso che si consacra a te, Gesù eucaristico, e in te, per te e con te vive la sua esistenza di santo. E qui ritorna l’uso consueto della qualificazione totalizzante: mi consacro tutto a voi. Tutto, niente escluso. Una vena di nostalgia mi porta il vento che viene dalle colline del vulcano spento: Maria, la Madonna, di pietra, gli occhi fissi a me, un po’ strabici come li fanno i colori che vi butta sopra il pittore, ed io spogliato, col cuore vuoto. La neve che cade, i cori delle processioni popolari dalla valle, i castagni che soffiano ninnenanne alla luna. Ma poi alla salita il morso della carne. Quanti alti e bassi, tanti passaggi doloranti dell’esilio dell’uomo. Miseria e misericordia. Maria, il mistero di Maria, sempre vicino alle mie miserie, madre mia e madre anche delle altre due madri del mio esistere.

Consacrarsi riflessivo è votarsi, donarsi, dedicarsi, cioè riservare, dedicare la propria persona a Dio, sottraendola in modo di per sé permanente allo stato profano, quindi destinarla al culto e al servizio divino, oppure porla sotto la protezione di Dio, che in questo caso è Gesù vero e vivo in corpo, sangue, anima e divinità nel sacramento dell’altare. Consacrazione è l’offerta di tutto se stesso alla vita eucaristica. Sant’Alfonso ha la pienezza del sacerdozio, quindi tutti i crismi della consacrazione, ma pur io laico posso intendere la consacrazione in maniera degna nel rapporto che stabilisco, personale, segreto, con Cristo stesso.

Se leggo quanto scrive in merito Pio XII, comprendo che i laici si trovano sulla via più avanzata della vita della Chiesa; grazie a loro, la Chiesa è il principio vitale della società. Per questo essi soprattutto devono avere una coscienza sempre più chiara non soltanto di appartenere alla Chiesa, ma di essere la Chiesa, cioè la comunità dei fedeli sulla terra sotto la guida dell’unico capo, il papa, e dei vescovi in comunione con lui. Essi sono la Chiesa. Ma sorge a questo punto il bisogno di andare a ricercare la definizione del laico nella Chiesa e ce la dà il Catechismo in termini oltremodo intelligibili e precisi. Col nome di laici s’intendono tutti i fedeli ad esclusione dei membri dell’ordine sacro e dello stato religioso riconosciuto dalla Chiesa, i fedeli, cioè, che, dopo essere stati incorporati a Cristo col battesimo e costituiti popolo di Dio, e nella loro misura resi partecipi della funzione sacerdotale, profetica e regale di Cristo, per a loro parte compiono, nella Chiesa e nel mondo, la missione propria di tutto il popolo cristiano.

Da quanto detto risultano in modo chiaro il senso e il valore della consacrazione, che implica l’impegno anche in direzione dell’azione politica e nell’organizzazione della vita sociale, anzi della pluralità delle vie concrete che comunque abbiano sempre come fine il bene comune e siano sulle linee del messaggio evangelico e dell’insegnamento della Chiesa. Giovanni Paolo II ha scritto nella Sollecitudo rei socialis che compete ai fedeli laici animare con impegno cristiano, le realtà temporali e, in esse, mostrare di essere testimoni e operatori di pace e di giustizia.

La consacrazione a Cristo eucaristico dà un contenuto più specifico all’impegno del laico, possiamo dire che lo interiorizzi e lo qualifichi nel senso di una partecipazione e di una testimonianza incentrate sul sacramento dell’altare, su un cristocentrismo di fatto, non costituito solo di valori culturali e di enunciazioni verbali, ma di comportamenti di vita attorno alla presenza effettiva del Figlio di Dio e del Figlio dell’uomo in mezzo a noi, nella nostra vita sociale, in tutte le realtà temprali che si attraversano.

Signore Gesù, vedi com’è carico di responsabilità l’impegno che mi prendo; ma io, miserabile più che miserevole, veramente, non come dice Alfonso de’ Liguori di sé con l’umiltà del santo autentico, ho fiducia in te, mi affido a te, confido nella tua bontà infinita e nel tuo amore, fin qui dimostratomi in mille modi.